SOMMARIO: Intervenendo nel dibattito precongressuale (XXX Congresso del Pr - Roma - 31 ottobre/4 novembre 1984) Massimo Teodori afferma di non credere nella crisi della politica radicale e il successo alle elezioni del Parlamento europeo lo dimostra; piuttosto si può affermare che la coscienza che i radicali e lo stesso gruppo dirigente del Pr hanno di sé sottovalutata le possibilità di riscontro e di adesione che la politica radicale mantiene nel paese. Dunque "la crisi è soprattutto crisi di immagine". Per trovare soluzione a questa crisi, Teodori propone quattro nodi su cui meditare per ricercare le migliori soluzioni: "questioni di strategia; temi e strumenti; ambito sociale e politico dell'iniziativa radicale; il partito".
(NOTIZIE RADICALI n. 69, 14 aprile 1984)
Se ne parla molto, ma io "non credo che la politica radicale, cioè il Partito radicale, attraversi una crisi". O meglio, da almeno vent'anni la crisi tra noi c'è sempre stata, tanto da poter parlare di crisi fisiologica, di un permanente stato di ricerca. Ben sappiamo che il nostro partito e la nostra politica non sono "di gestione", cioè di oculata amministrazione di patrimoni acquisiti e di posizioni raggiunte. E' perciò che la fantasia, o più propriamente l'invenzione e le scelte politiche, devono riproporsi ad ogni piè sospinto sia in termini di obiettivi che di strumenti. Questo non vuol dire che, oggi come ieri, non vi siano "impasses" nella scelta dei pedali su cui maggiormente pigiare all'interno dell'armamentario radicale ormai assai largo, consolidato e largamente acquisito. Piuttosto a me sembra che esistano in questo momento discrasie nella coscienza che noi abbiamo di noi stessi, ed in quella più generale che il paese vive della politica e del Partito radicale.
Riflettiamo: alle elezioni europee dello scorso giugno abbiamo raccolto altrettanti voti e percentuali, anzi qualcosa in più, di quello che avevamo ottenuto al momento della massima espansione dell'attrazione radicale nella primavera-estate 1979. Tale risultato vorrà pur significare qualcosa, giacché i vari effetti come quello "Tortora" (e del resto non si trattava dell'autentica battaglia radicale sulla giustizia!) non possono aver alterato significativamente il consenso che ci circonda nel paese. Del resto, per la prima volta dal 1979 abbiamo chiesto voti direttamente con un risultato che, nonostante la scarsissima attenzione dei mezzi di comunicazione di massa, è di tutto rispetto e si contrappone ad una generale tendenza riflessiva o di stasi sia dei socialisti che dei laici repubblican-liberali. Dunque, se ne deve necessariamente dedurre che la coscienza che i radicali e lo stesso gruppo dirigente del Pr hanno di sé sottovalutata le possibilità di riscontro e di adesione che la politica radicale mantien
e nel paese. Vi sono i segni di un ripiegamento su noi stessi, con una certa dose di pessimistica incapacità di stabilire alleanze e di cogliere gli ambiti di attenzione e di consenso che pure in sede di verifica ultima, quella elettorale, finiscono per esprimersi. Ed allo stesso modo, nel momento in cui i trasmettitori di opinione ed i mediatori del consenso - giornalisti, opinionisti, commentatori, etc. - sono presi, non casualmente, da una ondata di disattenzione rispetto ai radicali, si finisce con il ritenere che i cittadini e la gente siano ormai alieni e refrattari alla politica radicale. Non entro volutamente qui nell'analisi del come tutto ciò sia un aspetto di quel che abbiamo ripetutamente definito "regime", cioè qualcosa che è penetrato profondamente anche nelle coscienze, perché mi interessa soprattutto sottolineare il punto di arrivo: "la crisi è soprattutto crisi di immagine", con un concetto che riassume ed esprime alla meno peggio proprio quell'insieme di fenomeni che abbraccia la coscienza
dei radicali di sé e la coscienza che il paese ha dei radicali.
Mi pare che vi siano quattro nodi su cui meditare per ricercare le migliori soluzioni: "questioni di strategia; temi e strumenti; ambito sociale e politico dell'iniziativa radicale; il partito". Mi si perdonerà il linguaggio: so bene che certe parole non esprimono compiutamente il concetto da trasmettere (per esempio, quello di "strategia") ma fino a quando non si inventeranno nuove parole che sintetizzino quello a cui si riferisce si è costretti per rapidità ad usare una terminologia che può apparire consumata.
"Questioni di strategia". Il vecchio quadro in cui si collocava l'azione radicale - certamente fino al 1979 - era quello dell'"alternativa", con "l'unità" ed il "rinnovamento" delle sinistre. Certo non si trattava di una prospettiva a portata di mano, ma tuttavia costituiva una linea direttrice, in definitiva una "idea-forza", nella quale si collocavano azioni, iniziative, battaglie ed obiettivi. Così gli stessi referendum non rappresentavano per nulla una strategia in sé ma una strumentazione che potentemente congiungeva temi e capacità di proposizione di schieramenti alternativi al fine di riallineare la politica italiana a quella bipolare delle democrazie classiche. Giustamente in questi anni quella idea-forza è entrata in crisi poiché il Pci ha accentuato, anche dopo la fine formale dell'unità nazionale, il suo carattere interno ed organico al "regime" nostrano, anzi ne costituisce per tanti versi il pilastro fondante. Non che le grandi masse votanti e simpatizzanti per il Pci non rimangano il potenzial
e reale per qualsiasi politica alternativa, ma la direzione politica e la struttura diffusa del Pci, quindi la stessa politica comunista nel suo insieme, finisce per rappresentare troppo spesso il vero ostacolo con cui confrontarsi e scontrarsi per una politica radicale. E ciò sembra avere carattere permanente piuttosto che di accidente temporaneo al punto tale che la stessa politica di Natta, che sembra voler allontanarsi da quella berlingueriana, in realtà tende soltanto a ricostruire una situazione da anni '40 e '50 con il monopolio del governo alla Dc ed il monopolio di opposizione al Pci, con la non trascurabile novità della creazione di un tessuto di integrazione nella gestione reale del potere che si è andato costituendo negli ultimi trent'anni. Anche la politica della "mano tesa" al Psi, e magari a settori della Dc, al fine di far emergere contraddizioni fra ideali affermati e politica perseguita, sembra non dare alcun risultato sostanziale (si veda la "fame") nella conquista faticosa me necessaria d
i uno Stato di diritto e di una affermazione dei valori di vita e di libertà che rimangono alla base dell'esser politico dei radicali.
Venuti a cadere, o risultando assai lontani e deboli, sia la prospettiva alternativistica (Pci) sia quella della creazione di elementi di rottura innovativi nei contenuti e dirompenti negli equilibri politici (Psi), la "solitudine" radicale, che non è mai stata una scelta consapevole e settaria, è divenuta un elemento che rende assai più difficili tutte le iniziative e le battaglie radicali - che pur rimangono sempre le medesime o della stessa portata e dello stesso valore - perché hanno bisogno di maggiore forza, e di migliore applicazione per poter durare e superare le insidie della paludosa ed immobile situazione politica. Certo è che oggi non si può che continuare con la scelta tematica rivolta "tout azimut" proprio per il contesto a cui si è prima fatto riferimento.
"Ambito sociale e politico". Il Partito radicale è stato negli anni di espansione il partito della laicizzazione della società e della modernizzazione. Questi termini possono indurre in errore perché non esprimono appieno le molteplici valenze delle battaglie radicali: al tempo stesso proporre degli elementarissimi diritti civili e caricarli di una forza eversiva rispetto all'ordine costituito dalla "politica "politicienne"". In questo senso l'attrazione radicale si è esercitata su tutti i ceti sociali pur se ha ridisegnato sui temi delle libertà dei diritti civili e del personale-politico nuove linee di divisione all'interno delle classi e dei gruppi come sono tradizionalmente intesi in senso economico e sociale. Tuttavia, in questo quadro, non c'è dubbio che il nucleo portante che quantitivamente e qualitativamente ha fatto riferimento ai radicali in termini elettorali e di attenzione politica sia stato quello dei ceti urbani, modernizzanti, medio o medio-alti, se non per situazione economica certamente pe
r condizione di istruzione e di collocazione produttiva. Questo paese che non ha mai avuto una vera forza "liberal", nella seconda metà degli anni settanta l'ha espressa attraverso due nuovi punti di riferimento politici, uno conservatore e con il riflesso "d'ordine" che si è rivolto al Pci (e poi parzialmente al Pri) ed uno con il riflesso "radicale" che ha guardato con simpatia ai radicali. Ho l'impressione che per una serie di ragioni - scelta dei temi centrali, assimilazione con lo svilimento dei vecchi temi radicali all'interno della poltiglia tematica delle forze di regime, incapacità di fare un vero salto di qualità con la controinformazione da parte radicale... - in questi ultimi anni l'ambito sociale di attrazione radicale sia parzialmente mutato e da ciò derivi anche una diminuita forza del Partito radicale. Ed è così che il ruolo di amplificazione che svolge un determinato ceto, per la sua collocazione sociale, è andato deperendo a scapito della stessa possibilità di trasmettere attraverso la soci
età il messaggio radicale. Su questo terreno, a mio avviso, va compiuta una profonda riflessione che non dovrebbe escludere correzioni di rotta.
"Temi e strumenti". E' d'obbligo tirare un bilancio sulla battaglia della "fame" ("milioni di vivi, subito") che ha costituito l'asse portante radicale di questi anni. Mi si attribuisce erroneamente una posizione tesa a liquidare "tuot court" la questione. Ho al contrario sempre sostenuto, anche se talvolta con poca forza perché consapevole del metodo radicale di sperimentare battaglie politiche concordemente deliberate, che l'"obiettivo della fame non è elemento dirompente e dirimente rispetto alla crisi di regime italiano". Lo penso ancora e con maggiore forza. La fame è stata e rimane di insostituibile significato: a) per la immissione dei valori nella politica; b) come proposta rivoluzionaria di politica estera, in grado di orientare la scala delle priorità e degli indirizzi, a partire da un nodo concreto e di immediata possibile realizzazione della questione internazionale per non dire delle grandi questioni epocali. Ma in Italia la politica estera non è mai stata un fatto trainante; e così anche al gio
rno d'oggi in cui la crisi italiana è crisi di potere, di classi dirigenti, e di strutture stesse della non-democrazia, la "fame" non costituisce un grimaldello di forza tale da innescare un processo a valanga di "rivoluzione democratica". Ciò premesso, ritengo che sarebbe folle ed antistorico liquidare questo patrimonio, proprio in ogni senso dell'esistenza stessa della "cosa radicale", mentre mi confermo nell'idea che tale obiettivo non può più essere messo al centro matematico della lotta radicale per candidarsi come alternativa al sistema partitocratico. Se mi si chiede quali temi vadano posti in prima linea, posso solo rispondere che nel bagaglio concreto nostro, del partito, non c'è che l'imbarazzo della scelta, e solo una comune ed oculata riflessione consentirà di scegliere gli obiettivi più prioritari fra i tanti urgenti ed importanti.
Qualche parola va spesa sui "referendum". Si tratta di uno strumento che non ha valore di per sé. E' allora opportuno riprendere sì l'iniziativa referendaria, e subito, ma soltanto come l'arma per specifiche campagne di cui si riconoscono il valore e la priorità. Non si tratta tanto di fare uno o dieci referendum, ma di scegliere quelli che possono risultare funzionali alle campagne politiche deliberate in quanto necessarie ed economiche al quadro generale dell'iniziativa radicale. Anche a questo riguardo molteplici e diversificate possono essere le opinioni e le valutazioni nel partito: il congresso dovrà però individuare "prima" i temi da porre al centro della lotta radicale, e naturalmente di significato e risonanza popolari, e "quindi" impostare i referendum. Questa condizione è anche relativa alla loro realizzabilità, sia in termini di raccolta delle firme che di successiva probabilità di superamento degli ostacoli che "il regime" non potrà che porre.
"Il partito". Le questioni di strategia, degli interlocutori sociali e politici, della scelta e uso di temi, obiettivi e strumenti hanno avuto e continuano ad avere il loro riflesso sulla configurazione del partito. In definitiva il partito non è altro che il riflesso della sua politica e del modo in cui la conduce. Ritengo che si sia troppo accentuato lo squilibrio fra partito-messaggio-battaglie con impulso dal centro e partito-insediamento-struttura. Avvertiamo tutti che vi è un limite divenuto fisiologico nella crescita degli iscritti, ferma ormai da molti anni intorno alla quota 3000-4000; che non si formano nuovi quadri (brutto termine ma necessario) in grado di alimentare l'espansione del partito; e che non vi è rinnovata forza propulsiva nel paese nonché capacità di raccolta finanziaria, indispensabile alla stessa esistenza della politica radicale in basse all'irrinunciabile principio dell'autofinanziamento. Tutti questi elementi tra loro strettamente collegati e con un reciproco rapporto di causalit
à. Si parla da molto tempo di "revisione dello statuto" e comunque di problema-partito, una volta venuto sostanzialmente a cadere - per l'esaurimento delle situazioni oggettive - il rapporto con i movimenti innovativi nel paese attraverso l'organizzazione federalista del partito. A me pare che non si tratti tanto di revisione statutaria - essa comunque "segue" e non precede situazioni diverse, anche se le può accelerare - quanto di ripensare e di riproporre una ripresa dell'insediamento territoriale. So molto bene che si corrono i rischi connessi con la "piccola politica" - degli Enti locali. So anche che la forza del partito è sempre stata la concentrazione su pochissime battaglie di grande respiro. Tuttavia un partito, la cui struttura si identifica di fatto sempre più in una struttura di comunicazioni radiofonica, mostra i limiti che ognuno ha davanti a sé. In questa stagione, tanto per fare un esempio, la giusta indicazione delle liste non radicali di carattere "verde o azzurro" o di qualsiasi altro colo
re, non ha possibilità di tradursi in effettivo movimento nel paese se non si mobilitano per la loro realizzazione alcune centinaia di quadri capaci di iniziativa, autonomia, fantasia e coraggio politico. Analogo discorso può farsi per i referendum, e più in generale per rimettere in moto l'osmosi fra gruppo centrale ed organismo del partito. L'interrogativo dunque che ci è di fronte è se abbiamo tutti il coraggio di reinventare una struttura che veda "contemporaneamente presenti e complementari" il carattere odierno di partito ad impulsi radiofonici centrali con una qualche forma di insediamento sociale e territoriale senza certo mimare le ormai sclerotiche forme del partito tradizionale.
Il compito, dunque, che il partito tutto deve affrontare è assai difficile. Non mi sono occupato, volutamente, delle difficoltà e durezze che la degradazione della democrazia in partitocrazia presenta perché ognuno ha ben presente. Una cosa è certa: che tutta questa complessiva situazione non può essere affrontata e superata con "escamotage". E' anche mia profonda convinzione che per le ragioni della sua storia, "questo partito ha una classe dirigente assolutamente unitaria ed inscindibile e che tale deve rimanere". Ognuno ha la sua formazione, la sua cultura, il suo stile e le sue pulsioni diverse e diversificate, ma come partito, cioè come organismo che ha prodotto e produce politica al di là delle singole individualità, la nostra storia è unitaria. Ogni operazione che tendesse a produrre contrapposizioni e ad inventare posizioni opposte, sarebbe fittizia e artificiosa. Il gruppo dirigente - e con questo termine indico una cinquantina-centinaia di compagne e compagni che in qualche maniera sono stati in pr
ima fila - è cresciuto insieme e non può che restare insieme con tutta la ricchezza delle singole personalità ed individualità. Il congresso, e più ancora la vita del partito, in tutti i suoi aspetti, ha oggi bisogno di affrontare radicalmente ma anche tranquillamente e profondamente i nodi che gli sono di fronte. Mostrerebbe il respiro corto ogni tentativo che si proponesse di sostituire il radicalese al dialogo radicale; che inventasse le categorie contrapposte (per esempio nonviolenti-democratici) piuttosto che arricchirsi al massimo di tutte le armi e i valori che sono patrimonio del partito; che sostituisse a scelte meditate e consapevolmente guadagnate alla coscienza di tutti, trovate dell'ultima ora; che surrogasse l'intelligenza e la dedizione collettiva con la pur ineguagliabile capacità di uno o di pochi; che mettesse da un canto la passione di tanti a favore dell'eroismo di pochi; che scambiasse rigore ed impegno con dogmatismo e settarismo; che pensasse di dialogare con i tanti che nel paese avve
rtono la necessità della politica radicale con il lancio di anatemi, che promuovesse il tabù ostinato della fedeltà alla lettera della propria storia invece che operare quei mutamenti anche radicali di cui pure in molti si avverte il bisogno.