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Rovelli Patrizio - 23 ottobre 1984
IL CASO ITALIA: (20) Patrizio Rovelli (intervento) - LO STATO DELLA GIUSTIZIA IN EUROPA - I· CONVEGNO
STRASBURGO, 23.24 OTTOBRE 1984 - PARLAMENTO EUROPEO

SOMMARIO: Gli atti del convegno su lo stato della giustizia in Europa "Il caso Italia".

Con questa prima iniziativa, parlamentari di tutte le correnti politiche comunitarie intendono verificare lo stato della giustizia in Europa.

Deroghe nei confronti di alcune garanzie democraticamente poste a tutela dei diritti della persona, sanciti dai trattati comunitari e dalle costituzioni nazionali, si registrano in diversi paesi della comunità europea. Molto spesso queste violazioni delle fondamentali libertà civili sono state giustificate dall'insorgere di forme violente di contestazione politica, dall'esplosione di fenomeni terroristici o dal rafforzamento delle organizzazioni criminali.

Avviare il processo di ristabilimento democratico della legalità compromessa, rappresenta l'impegno dei promotori di queste iniziative.

Il primo caso che viene esaminato è quello italiano. In due giorni di discussione a Strasburgo il 23 e 24 ottobre.

("IL CASO ITALIA", Lo stato della giustizia in Europa - I· Convegno - Strasburgo, 23-24 Ottobre 1984 - Parlamento Europeo - A cura del Comitato per una Giustizia Giusta - Cedam Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova 1985)

PATRIZIO ROVELLI

L'amministrazione della giustizia penale in Italia: il »caso Sardegna .

1. Premessa

Anche la Sardegna, un'isola che conta oggi poco più di un milione e mezzo di abitanti e che da sempre è relegata dal governo centrale italiano ai margini della vita politica ed economica del Paese, ha vissuto in modo intenso e drammatico gli anni oscuri della cosiddetta »legislazione dell'emergenza .

Si può dire anzi che la nostra isola vanti alcuni veri e propri primati e che di fatto sia stata una sorta di banco di prova per le più disparate ed illegittime iniziative con cui il governo ed alcuni settori della polizia e della magistratura hanno inteso combattere la criminalità organizzata politica e comune.

La Sardegna è, ad esempio, l'unica regione italiana ad avere sopportato per lungo tempo la pericolosa ed inopportuna presenza sul proprio territorio di due supercarceri speciali (uno più tristemente famoso dell'altro: l'Asinara e Bad'e Carros) destinati alla custodia dei più pericolosi esponenti del terrorismo e della malavita. Ed è proprio nel distretto della Corte d'appello di Cagliari, capoluogo dell'isola, che si sono verificati per la prima volta in Italia, in modo chiaro ed inequivoco, gravissimi tentativi di criminalizzazione della funzione del difensore tecnico nel processo penale.

Qualcuno ha sostenuto che il »tasso di legalità in Sardegna è sceso da tempo a livelli di guardia e sarebbe addirittura il più basso d'Italia: la cronaca degli episodi più gravi ed inquietanti di questi ultimi anni sembra dargli ragione.

2 La legislazione dell'emergenza

Come è noto in Italia sono ancora sostanzialmente in vigore il codice penale, il codice di procedura penale e la legge di ordinamento giudiziario elaborati durante il ventennio di dittatura.

Nel primo dopoguerra e fino all'inizio degli anni settanta il Parlamento, sollecitato anche da numerose pronuncie della Corte costituzionale, ha cancellato da questo complesso corpo legislativo le norme più illiberali, modificando i più importanti istituti nel tentativo di dare concreta attuazione nel delicato settore della giustizia penale ai fondamentali principi costituzionali.

A partire dal 1974 l'atteggiamento garantista si è andato via via affievolendo e si è assistito ad una rapida quanto inarrestabile inversione di tendenza in senso illiberale e autoritario, ufficialmente giustificata dalla necessità di dare validi strumenti legislativi alla polizia ed alla magistratura per la lotta contro la criminalità organizzata politica e comune. Dall'aprile di quell'anno in poi si sono susseguiti, a brevissima distanza di tempo uno dall'altro, una serie impressionante di provvedimenti legislativi d'emergenza, spesso tra loro contraddittori, alcuni addirittura palesemente inutili o, peggio, i contrasto con le fondamentali norme costituzionali.

Gli stessi addetti ai lavori (funzionari di polizia, magistrati) riconobbero in quel frangente l'inutilità di tanto copiosa produzione legislativa, indicando altre soluzioni che avrebbero potuto garantire migliori successi nella lotta che tutto il Paese stava conducendo contro il terrorismo, come ad esempio la riorganizzazione e il coordinamento dell'attività delle principali forze di polizia (polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza).

La volontà di chi governava era però allora indirizzata solo a dimostrare un efficientismo di maniera che potesse impressionare l'opinione pubblica per la sovrabbondanza delle iniziative intraprese e per la drasticità delle soluzioni adottate. Si ripristinarono così i poteri attribuiti alla polizia dalle leggi della dittatura; fu reintrodotto l'interrogatorio dell'imputato negli uffici di polizia giudiziaria anche in assenza del difensore nella prima e più delicata fase del procedimento penale (articoli 225 e 225 bis del codice di procedura penale). Si giunse addirittura a prevedere che chiunque potesse essere fermato e trattenuto in base al semplice sospetto e prima ancora della commissione di un qualsiasi reato (articolo 6 del decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625 che si intitola »Misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica ).

Ma l'aspetto più inquietante della legislazione dell'emergenza è senz'altro rappresentato dalla cosiddetta »legislazione premiale , cioè da quell'insieme di norme, introdotte nel nostro ordinamento penale tra il 1979 e il 1982, che prevedono un trattamento punitivo di favore per tutti coloro i quali, avendo commesso gravissimi reati, decidano di collaborare con l'amministrazione della giustizia fornendo agli inquirenti i nomi dei complici e le prove della loro colpevolezza.

La prima norma a prevedere benefici per gli imputati pentiti fu l'art. 4 del decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625 il quale stabilisce che un trattamento punitivo di tutto favore deve essere riservato al terrorista il quale, dissociandosi dagli altri, si adoperi per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuti concretamente l'autorità di polizia e l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei complici. Ben più articolata e generosa con i cosiddetti »grandi pentiti fu la legge 29 maggio 1982 n. 304. Come è stato autorevolmente osservato »rispetto all'art. 4 della legge Cossiga, la novità era rappresentata dalla piena confessione di tutti i reati commessi e dal fatto che la collaborazione poteva riguardare anche le indagini su reati di terrorismo cui il ``pentito'' non avesse partecipato. Ma soprattutto si passava dall'aiuto alle autorità nella raccolta di prove al ``fornire comunque elementi di prova rilevanti''. Prove, dun

que, che il pentito fornisce, cioè produce egli stesso con le sue dichiarazioni, che diventano esse stesse prova .

Il pentito diventa quindi a tutti gli effetti il principale collaboratore del giudice, assumendo una dignità legislativa davvero invidiabile. In definitiva con la legge 304 lo Stato democratico si affida in modo ufficiale agli autori confessi di gravissimi reati caratterizzati dalla finalità di eversione dell'ordine democratico per poter sconfiggere in modo definitivo il terrorismo.

Per quanto in particolare riguarda la Sardegna, nel dicembre del 1980 il Parlamento italiano, sotto la spinta di un gruppetto di magistrati isolani impegnati da sempre contro il fenomeno dei sequestri di persona, approvò la legge n. 894 con la quale introdusse sensibili modifiche all'art. 630 del codice penale che punisce appunto gli autori di questo grave reato. La nuova legge stabilisce da un lato un sensibile incremento di pena per questo delitto (oramai parificato "quoad poenam" all'omicidio volontario); e dall'altro prevede cospicui sconti sia per coloro i quali, dissociandosi dai complici, si adoperino in modo che l'ostaggio riacquisti la libertà; sia per chi dopo essersi pentito aiuti concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione e la cattura dei complici.

Con l'approvazione di questa legge (nota in Sardegna come la »legge Gregoriani dal nome del primo e più famoso pentito della storia del banditismo sardo moderno) si intese »premiare tutti coloro che, autori di gravissimi reati, si fossero decisi a collaborare con gli inquirenti già da prima dell'approvazione della legge n. 894. Costoro di lì a poco tempo sarebbero stati giudicati dalla Corte d'assise di Cagliari nel cosiddetto »processo alla superanonima sequestri .

3. Le critiche alla legislazione dell'emergenza: le accuse di garantismo

Già prima della fine degli anni settanta si era segnalato da più parti che l'involuzione in senso illiberale delle leggi penali e processuali penali avrebbe potuto creare seri contraccolpi alle nostre istituzioni democratiche, diminuendo da un lato la credibilità dello Stato, costretto a rimedi chiaramente incostituzionali per combattere il terrorismo; favorendo dall'altro l'instaurarsi di una pericolosa nuova prassi giudiziaria con una delega di poteri pressoché in bianco a magistratura e polizia.

A quell'epoca gravissime accuse furono mosse nei confronti di tutti coloro che, preoccupati della stessa sopravvivenza delle fondamentali garanzie costituzionali nel nostro Paese, si fecero carico di questi problemi.

Nel migliore dei casi coloro che sostenevano la necessità di leggi eccezionali per combattere il terrorismo parlarono di »eccessi di garantismo , rifiutando qualsiasi confronto sul contenuto della legislazione dell'emergenza che in parecchi casi, vale la pena di ricordarlo, fu approvata con la quasi plebiscitaria adesione di tutti i partiti e senza che le stesse forze d'opposizione presenti in Parlamento avessero ben chiari i gravi pericoli insiti nella successiva e inevitabile degenerazione dell'emergenza.

In questi anni bui non mancarono episodi di vera e propria intolleranza nei confronti dei »garantisti , che i taluni casi furono addirittura accusati di essere fiancheggiatori delle Brigate rosse e responsabili anch'essi moralmente dei gravissimi reati commessi quotidianamente dai terroristi.

In definitiva i più erano (stati) conviti che per sconfiggere l'eversione lo Stato avrebbe potuto (e dovuto) scendere allo stesso livello di violenza e illegalità dei terroristi, ripudiando così, nel momento più delicato della vita del nostro Paese dal dopoguerra i poi, i fondamentali valori di democrazia e libertà su cui si fonda la nostra Costituzione.

4. I riflessi negativi della legislazione dell'emergenza: le maxi-inchieste e la nuova prassi giudiziaria in Sardegna

A distanza di pochi anni è già possibile affermare che i dubbi e le perplessità sulla legislazione dell'emergenza erano più che fondati.

Le profonde ed illiberali modifiche apportate al sistema penale italiano rappresentano una obbiettiva testimonianza dell'incapacità del nostro legislatore di affrontare le emergenze del terrorismo con la dovuta riflessione e nel pieno rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione.

E se l'eversione può dirsi oggi sconfitta, la pesante eredità delle leggi dell'emergenza continua a far sentire i propri effetti negativi in tutto il Paese.

Ciò che più deve allarmare è che si è instaurata una nuova prassi giudiziaria, un nuovo (e perverso) modo di amministrare la giustizia penale fuori dagli schemi tassativamente indicati dalla Costituzione e dalle leggi.

Quando si parla di nuova prassi giudiziaria si vuole proprio sottolineare l'allontanamento dagli schemi previsti dai codici e l'affermarsi, soprattutto in alcuni settori della magistratura e della polizia, del convincimento che »il fine giustifica i mezzi i modo particolare quando si tratta di individuare e perseguire i presunti autori di gravi reati.

Oggi si assiste, così, sempre più di frequente a fenomeni davvero preoccupanti: alcuni magistrati impegnati nella lotta alla mafia, alla camorra e al grosso traffico di stupefacenti utilizzano per le loro inchieste le dichiarazioni di pentiti ai quali vien di fatto garantito un trattamento processuale e carcerario di assoluto favore e, i taluni casi, addirittura l'impunità. E ciò senza che nessuna legge della Repubblica italiana riconosca agli inquirenti poteri di questo genere e ai pentiti diritti o prerogative di qualsiasi tipo.

La Sardegna detiene in proposito alcuni primati.

Il primo esempio di nuova prassi giudiziaria con utilizzazione delle confessioni-rivelazioni dei pentiti e conseguente concessione a costoro di benefici non previsti dalla legge risale al 1980. In quell'anno alcuni imputati detenuti, accusati di aver commesso numerosi sequestri di persone a scopo di estorsione e raggiunti da schiaccianti prove di colpevolezza, si decisero a collaborare con gli inquirenti.

Costoro fornirono al giudice istruttore del Tribunale di Cagliari i nomi dei loro presunti complici, coinvolgendo nelle loro confessioni-rivelazioni oltre cento persone. Sulla sola base di queste accuse, in taluni casi sicuramente generiche e contraddittorie, gli inquirenti emisero un impressionante numero di mandati di cattura, a cui segui una gigantesca retata i tutta l'isola.

Secondo le trionfalistiche dichiarazioni dei magistrati impegnati nell'inchiesta con quell'operazione di polizia il banditismo in Sardegna era stato definitivamente sconfitto. L'arresto degli autori dei più gravi reati commessi nell'isola dal 1975 in poi avrebbe garantito per lungo tempo la pace sociale, favorendo addirittura il riavvicinamento alla Sardegna di tutti coloro che per paura di essere presi in ostaggio se ne erano allontanati.

Al principale artefice e protagonista di questa inchiesta (Luciano Gregoriani, uno dei capi indiscussi del banditismo, poi pentitosi) il giudice istruttore concesse la libertà provvisoria.

Vale a questo proposito la pena di ricordare che una tassativa norma allora in vigore (l'art. 1 della legge 22 maggio 1975 n. 152, meglio nota come »Legge Reale dal nome del guardasigilli dell'epoca) prevedeva che per il sequestro di persona a scopo di estorsione questo beneficio non potesse essere concesso in nessun caso.

Ma ciò che più interessava in quel momento ai magistrati sardi era dimostrare pubblicamente che la collaborazione era comunque premiata e che il pentito poteva in ogni caso ricevere dei benefici anche quando questi non fossero previsti dalla legge.

Si scopri così che Gregoriani era sofferente e che la sua permanenza in carcere era incompatibile con le sue condizioni di salute. E' opinione diffusa in Sardegna che con la concessione della libertà provvisoria quel bandito pentito sia stato premiato per la collaborazione prestata e che il suo stato di salute non fosse certo più preoccupante di quello di tanti altri anonimi imputati detenuti non pentiti.

Inutile dire che le dichiarazioni di Gregoriani e degli altri pentiti del processo contro la »Superanonima sequestri si dimostrarono in buona parte non degne di fede: la Corte d'assise del capoluogo isolano nel dicembre del 1982 mandò infatti assolti un buon numero di imputati accusati dai pentiti, senza peraltro ritenere che l'aver fatto arrestare degli innocenti potesse in qualche modo diminuire i meriti dei pentiti i quali, come prima ricordato, usufruirono in quella sede dei benefici previsti dalla legge n. 894 del 1980, approvata dal Parlamento italiano proprio per soddisfare le loro esigenze.

L'opinione pubblica si sforzò allora di comprendere quali caratteristiche originali potesse avere quel processo che non poté essere celebrato nel palazzo di giustizia di Cagliari per l'impressionante numero di persone che dovevano prendervi parte: poco meno di cento imputati, altrettanti avvocati difensori, oltre mille testimoni.

Al di là della prima e positiva impressione suscitata dal fatto che tanti presunti autori di così gravi delitti fossero processati tutti insieme, gli osservatori più acuti non perdettero di vista i gravi e delicati problemi che potevano insorgere in maxiprocessi come quello celebrato contro la Superanonima sequestri.

Innanzitutto fu osservato che nei procedimenti penali contro un tanto alto numero di imputati, con imputazioni che si riferiscono a centinaia di fatti tra loro obiettivamente slegati e uniti solo i modo fittizio dalle dichiarazioni dei pentiti, con centinaia di migliaia di pagine di verbali istruttori da consultare, lo svantaggio della difesa degli imputati rispetto alla pubblica accusa può diventare incolmabile. E lo stesso giudice, guidato in quella marea di fatti e di carte soltanto dalle dichiarazioni del pentito sulle quali il processo è stato costruito, rischia di diventare poco obbiettivo. Si aggiunga che in processi contro un alto numero di imputati la posizione dei cosiddetti »imputati minori rischia spesso di essere trascurata ed analizzata in modo soltanto superficiale.

Un caso emblematico è quello di Antonio Olla, un uomo di cinquanta anni con qualche precedente penale per furto, accusato di duplice omicidio e sequestro di persona da un pentito che, dopo aver fatto il suo nome e avere ottenuto la libertà provvisoria, sparì dalla circolazione e non si presentò neppure al pubblico dibattimento per confermare le sue accuse. Antonio Olla, secondo le motivazioni fatte proprie dal giudice istruttore nell'ordinanza di rinvio a giudizio, avrebbe dovuto rispondere di reati tanto gravi ed essere condannato al carcere a vita solo sulla base di un riconoscimento effettuato da quel pentito nel corso di un confronto tra i due al quale non era stato ammesso a partecipare il difensore dell'accusato.

Una più attenta e serena lettura di quel verbale istruttorio dimostrò al dibattimento che il riconoscimento non era affatto certo e che il pentito, nel giro di poche ore, si era contraddetto su circostanze determinanti almeno tre volte.

Antonio Olla fu così assolto per non aver mai commesso i fatti per i quali era stato ingiustamente detenuto per oltre tre anni e mezzo.

A quel maxiprocesso contro la Superanonima sequestri ne seguirono in Sardegna molti altri tutti caratterizzati dalla preminente importanza riconosciuta alle dichiarazioni accusatorie dei pentiti e dal rilevante numero di imputati chiamati a rispondere di gravi delitti.

5. La degenerazione dell'emergenza

Quando si parla di degenerazione dell'emergenza si fa principalmente riferimento a quei fenomeni che sopra abbiamo descritto e che preoccupano soprattutto per il progressivo affievolimento delle fondamentali garanzie che la Costituzione italiana ha posto a salvaguardia della inviolabilità della libertà personale e delle nostre istituzioni democratiche.

Un giudice non vincolato alla legge non è compatibile con la nostra Costituzione che stabilisce all'art. 101 il principio esattamente contrario: »i giudici sono soggetti soltanto alla legge .

Così come non è ammissibile in un paese civile che le sole dichiarazioni di un pentito possano giustificare l'adozione da parte del giudice di provvedimenti restrittivi della libertà personale.

La riflessione sugli effetti perversi della legislazione dell'emergenza deve però essere ancora più approfondita.

L'opinione pubblica non assiste, infatti, insensibile alla degradazione raggiunta dal nostro sistema penale e, toccata sempre più da vicino da episodi di manifesta ingiustizia e iniquità, assume un atteggiamento innanzitutto critico e poi via via sempre più di distacco e disinteresse nei confronti dello Stato.

In questi ultimi anni si è potuto così assistere in Italia ad un lento ma progressivo acuirsi della frattura tra Stato e società civile, frattura che potrebbe diventare insanabile se la degenerazione dell'emergenza non cesserà in tempi brevissimi di produrre i suoi effetti perversi.

A ben vedere la responsabilità per tanto gravi e tanto numerose ingiustizie non può però essere ricercata nella »perversione di qualche singolo magistrato, ma deve essere individuata proprio in quelle leggi dell'emergenza che spesso accoppiano alla caratteristica della inutilità quella ben più preoccupante della »pericolosità costituzionale .

6. Alcuni esempi di illegittima privazione della libertà personale

La scarsa considerazione dimostrata dal 1974 in poi dal legislatore per la tutela della inviolabilità della libertà personale ha finito con il condizionare l'attività giurisdizionale penale in tutta l'isola.

Il progressivo innalzamento dei termini massimi di custodia preventiva, la previsione legislativa del fermo di polizia "ante delictum", e tante altre discutibili novità introdotte nel periodo dell'emergenza hanno creato il convincimento in alcuni magistrati inquirenti e funzionari di polizia di essere ormai titolari di poteri assoluti e di poter decidere »liberamente e impunemente il destino di chiunque.

In effetti di fronte ad una legislazione così illiberale era veramente illusorio aspettarsi equilibrio proprio da quei settori che da tempo reclamavano leggi eccezionali per combattere il terrorismo!

Il caso di Gianni Canu, un ragazzo di Nuoro di ventiquattro anni, è sconcertante.

Alla fine del gennaio 1982 i genitori di Canu si rivolgono alla polizia di Nuoro e alla stampa locale per denunciare la scomparsa del figlio. Nei primi e più drammatici momenti i familiari pensano ad un sequestro di persona, che peraltro, viste le modeste condizioni economiche della famiglia, viene immediatamente escluso.

La ricerca dei familiari si fa disperata e solo dopo una decina di giorni viene loro comunicato ufficialmente da alcuni funzionari di polizia che il figlio, sospettato di essere il capo della colonna sarda delle Brigate rosse, si trova ristretto in una imprecisata caserma della polizia. Le accuse, naturalmente, provengono da un superpentito del terrorismo che sostiene di aver riconosciuto il Canu in una vecchia fotografia.

Dopo cinquantatré giorni di sofferenza e tormenti Gianni Canu il 25 marzo 1982 viene messo a confronto con il suo ineffabile accusatore: poche ma agghiaccianti battute riassunte in mezza pagina di verbale.

Il pentito di turno ritratta: ha sbagliato perché Gianni Canu ha il torto di assomigliare troppo ad un terrorista amico del pentito.

Ma il caso del giovane nuorese non è isolato.

Nello scorso mese di settembre la polizia di Cagliari ha proceduto al fermo di cinque pescatori del popolare quartiere di S. Elia: Augusto Pisano, Pietro Melis, Antonio Mereu, Pierangelo Sanna e Amedeo Puddu.

Poche ore prima il camion di proprietà del grossista a cui i cinque vendevano solitamente il frutto del proprio lavoro era stato fatto saltare in aria con una carica esplosiva.

Ebbene, dopo, l'unica giustificazione addotta dalla polizia per il fermo dei cinque pescatori era il generico sospetto manifestato dalla vittima dell'attentato!

Un capitolo a parte meritano gli episodi collegati al tentativo degli inquirenti di debellare il traffico degli stupefacenti nell'hinterland di Cagliari.

Nei primi anni di applicazione della nuova legge sugli stupefacenti, approvata dal Parlamento italiano nel dicembre del 1975, polizia e magistratura si erano infatti convinte della possibilità di risalire, grazie alle confidenze e alla collaborazione dei tossicodipendenti, fino alle grandi centrali del traffico degli stupefacenti. Convincimento sicuramente errato ma che fu sufficiente in quegli anni ad organizzare una spietata quanto inutile »caccia al drogato con vere e proprie retate in tutte le città dell'isola.

La polizia cercava di carpire notizie da chiunque, incurante della seria probabilità che il tossicodipendente pentito, magari in crisi di astinenza, potesse fornire indicazioni errate pur di poter tornare in libertà.

Particolarmente significativo è il caso di Flavio Aru, un giovane tossicodipendente accusato di aver iniziato all'uso dell'eroina la propria fidanzata.

La polizia, che aveva ricevuto l'informazione da un confidente, la cui identità era rimasta sconosciuta nelle prime fasi dell'inchiesta, aveva convocato ripetutamente la ragazza, anch'essa tossicomane, nei propri uffici e l'aveva sottoposta a stringenti interrogatori.

Pur di poter tornare a casa la giovane, ormai in crisi di astinenza, aveva finito con il fare qualche ammissione pur essendo perfettamente conscia di aver conosciuto Flavio Aru quando essa aveva già da tempo cominciato a far uso di stupefacenti.

Il ragazzo venne arrestato e dovette attendere il processo d'appello perché fosse fatta piena luce sulla sua tormentata vicenda. Il confidente che aveva rivelato la notizia alla polizia era la madre della ragazza, insospettita dal comportamento della figlia.

Quest'ultima, liberata da qualsiasi forma di pressione psicologica, davanti ai giudici, disse finalmente la verità e il suo giovane amante venne assolto.

7. Il tentativo di criminalizzare la funzione del difensore nel processo penale: il »caso Manuella

L'utilizzazione da parte degli inquirenti delle confessioni-rivelazioni dei pentiti nei processi per traffico di droga in Sardegna ha toccato il culmine nel cosiddetto »caso Manuella , una oscura vicenda giudiziaria legata alla scomparsa di un avvocato, l'avvocato Manuella appunto, andato via da casa una mattina dell'aprile 1981 e del quale nessuno ha più avuto notizia.

Mossi della convezione che Manuella avesse in corso degli affari poco leciti i magistrati setacciarono la vita privata del professionista e scoprirono legami tra la sua scomparsa e la uccisione di un noto pregiudicato.

Sulla base delle dichiarazioni di un pentito che si autoaccusava di quest'ultimo omicidio furono effettuati numerosi arresti; nel settembre-ottobre del 1981 fecero la loro comparsa sulla scena del processo altri due imputati disposti, apparentemente, a collaborare con la giustizia. Costoro si autoaccusavano del feroce omicidio del pregiudicato, sollevando da qualsiasi responsabilità il pentito e gli altri arrestati da lui chiamati in causa.

I magistrati inquirenti, istintivamente convinti che i due fossero manovrati in qualche modo dai difensori di coloro che da quelle dichiarazioni venivano scagionati, dopo brevissime indagini procedettero all'arresto di quattro avvocati cagliaritani (Marongiu, Viana, Podda e Secci) tre dei quali impegnati in quel caso giudiziario come difensori dei principali imputati. Un altro avvocato, anche lui facente parte del collegio di diesa (l'avvocato Leonardo Filippi), ricevette nel proprio studio una comunicazione giudiziaria.

I reati contestati ai difensori erano quelli di concorso in omicidio, frode processuale e traffico di stupefacenti.

Le »intuizioni degli inquirenti trovarono apparentemente conferma nelle dichiarazioni dei tre pentiti, riuniti ormai in una corporazione per poter lucrare i maggiori benefici possibili dalle loro interessate dichiarazioni accusatorie.

Dopo un lungo ed estenuante periodo di carcerazione preventiva (l'avvocato Aldo Marongiu non lasciò mai la cella d'isolamento per un anno e dieci mesi) nel corso del dibattimento di primo grado uno dei pentiti, pentitosi di essersi pentito, svelò tutta la verità sull'intricata vicenda scagionando i legali e dimostrando con prove inequivoche che le accuse, che sembravano costituire un mosaico quasi perfetto, erano frutto di una macchinazione ed erano state tutte preventivamente concordate.

Questa inquietante vicenda analizzata in ogni minimo particolare nel dibattimento dai giudici della Corte d'assise di Cagliari, offre nelle sue agghiaccianti sequenze di immagini lo spaccato del »nuovo processo penale così come l'hanno modellato le leggi dell'emergenza.

Anche nel »caso Manuella i pentiti furono tutti premiati nel corso dell'istruttoria e ottennero la libertà provvisoria per motivi di salute, così come nel 1980 era accaduto per quel tal Luciano Gregoriani di cui abbiamo parlato poc'anzi.

L'attenzione e l'acume dei giudici della Corte d'assise consentì agli avvocati Marongiu, Viana, Podda e Secci di lasciare il carcere l'8 ottobre 1983 dopo sette mesi di pubblico dibattimento, assolti tutti con formula ampia; almeno per una volta la verità aveva vinto e le menzogne dei pentiti erano state ricondotte al rango di calunnie.

Un altro episodio di quella vicenda merita di essere ricordato: è quello di un agente di custodia di soli 20 anni, Augusto Passa, che, chiamato in causa da uno dei pentiti con l'accusa di averlo costretto con violenza ad ingerire alcune pasticche di Lsd, finì con l'ammettere fatti mai commessi pur di lasciare il carcere in cui aveva avuto l'immeritato privilegio di recitare prima la parte del guardiano, poi quella del carcerato. Augusto Passa si era deciso a fare i nomi dei suoi complici, che non erano mai esistiti, e ad assumersi responsabilità che egli non aveva, semplicemente per paura: era stato avvisato che era imminente, vista la sua scarsa propensione a collaborare con gli inquirenti, il suo trasferimento nel supercarcere di Bad'e Carros a Nuoro.

Il »caso Manuella impone due considerazioni fondamentali. La prima è che la nuova prassi giudiziaria non consente che il difensore tecnico possa recitare nell'istruzione del processo penale quella parte da protagonista che un ordinamento processuale democratico gli deve riservare.

Gli inquirenti, facilitati nella loro azione dalle leggi dell'emergenza, non vogliono più essere intralciati dagli interventi dei difensori degli imputati che hanno tutto l'interesse, per la stessa funzione esercitata nel processo, a mettere totalmente in discussione la nuova prassi giudiziaria e le confessioni-rivelazioni dei pentiti.

La seconda considerazione attiene ai collegamenti, indubbiamente esistenti, tra nuova prassi giudiziaria, degenerazione dell'emergenza e situazione carceraria.

A parte l'esempio sopra descritto dell'agente di custodia Passa che, pur di non essere trasferito in un supercarcere si era deciso ad inventare la propria responsabilità penale per fatti mai accaduti, quello che più deve far meditare è l'uso sconsiderato ed illegittimo fatto negli ultimi anni in Sardegna del regime di isolamento carcerario.

Noi denunciamo in questa sede che l'isolamento carcerario è stato sovente usato come vero e proprio strumento di tortura, e ciò in contrasto con i fondamentali diritti della persona umana e con la perentoria disposizione dell'art. 13 comma 4· della Costituzione repubblicana che stabilisce che deve essere punita »ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà .

In questi ultimi anni in Sardegna molti imputati in attesa di giudizio sono rimasti in stato di totale isolamento dal momento del loro arresto per lunghi periodi di tempo, a volte per oltre un anno e sicuramente sempre ben più a lungo di quanto le esigenze istruttorie potessero consigliare in ogni singolo caso.

Una domanda sorge spontanea e legittima: costoro erano stati »dimenticati in cella di isolamento o forse qualcuno si aspettava da loro il »pentimento con la confessione di gravi delitti mai commessi e l'indicazione di complici magari mai conosciuti?

8. Un preoccupante caso di violazione del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge

L'art. 25 primo comma della Costituzione italiana stabilisce che »nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge . Con tale norma il costituente ha inteso tutelare il diritto del cittadino ad essere giudicato in ogni stato e grado del procedimento da un giudice la cui competenza sia prevista da una legge anteriore al fatto oggetto del processo penale.

La recente storia della amministrazione della giustizia penale in Sardegna annovera alcuni esempi di palesi violazioni anche di questa fondamentale garanzia costituzionale.

Il punto di partenza è rappresentato anche qui dalla necessità di porre un argine al dilagare del preoccupante fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione.

Mossi dalla pur lodevole esigenza di garantire un miglior coordinamento dell'attività investigativa nelle quattro province dell'isola, alcuni magistrati proposero già alcuni anni addietro la istituzione di un unico giudice, competente per tutta la Sardegna ad indagare sui sequestri di persona.

Questa proposta, che non trovò per la verità molti consensi neppure tra gli altri magistrati sardi, venne criticata da più parti in modo deciso. Se da un lato, infatti, si riteneva opportuno garantire un miglior coordinamento dell'attività di polizia nell'isola, dall'altro si obbiettava che scavalcare le competenze dei giudici istruttori delle altre sedi giudiziarie con l'istituzione di un giudice istruttore unico per la materia dei sequestri di persona, urtava contro il fondamentale principio costituzionale che fa divieto assoluto di istituire qualsiasi giudice speciale (art. 102 comma 2· della Costituzione italiana) e con quello che prevede che l'imputato abbia diritto ad essere

sempre giudicato dal suo giudice naturale.

Nel settembre del 1981 sul delicato problema intervenne di imperio il presidente della Corte d'appello di Cagliari il quale con un suo decreto dispose che un solo magistrato del Tribunale di Cagliari, nominato supplente in altre importanti sedi giudiziarie dell'isola, potesse occuparsi di tutte le più importanti inchieste in corso.

Nessuna forma di controllo venne in quell'occasione esercitata sulla legittimità di tale discutibile scelta; soltanto nel febbraio di quest'anno, nel corso di un processo celebrato proprio davanti alla Corte d'appello di Cagliari, la difesa degli imputati ha sollevato la delicata questione attinente alla competenza del giudice unico.

Le eccezioni sollevate in quel processo appaiono serie.

Se, infatti, la nomina come supplente di un magistrato per sopperire, ad esempio, alla carenza di organico fosse svincolata da qualsiasi regola e fosse quindi rimessa alla completa discrezionalità del presidente della Corte d'appello, si potrebbe facilmente eludere in ogni momento la già richiamata e fondamentale regola costituzionale che prevede che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.

Non solo: la stessa previsione costituzionale di inamovibilità dei magistrati subirebbe delle pericolose limitazioni, perché in definitiva il capo della Corte potrebbe in qualsiasi momento esautorare di fatto un magistrato »scomodo giustificando il suo allontanamento con la necessità di destinarlo altrove come giudice supplente o applicato.

Tutta la vicenda è comunque molto significativa: la nuova prassi giudiziaria ha finito con il convincere taluno che le norme costituzionali poste a garanzia del corretto e regolare funzionamento della giustizia penale siano poco più che consigli, disseminati qua e là e semplicemente suggeriti al giudice il quale, quando lo ritiene opportuno, può derogarvi secondo le esigenze contingenti che lui stesso valuterà di volta in volta.

Quasi che fosse per legge naturale o per grazia ricevuta »legibus solutus .

9. L'attacco alla libertà di manifestazione del pensiero: il processo al fronte indipendentista sardo

L'ultimo esempio di come la legislazione della emergenza abbia influito negativamente sull'amministrazione della giustizia penale in Sardegna e abbia di fatto compresso i fondamentali diritti dei cittadini, riguarda il processo agli esponenti del fronte indipendentista sardo.

Vogliamo innanzitutto richiamare l'attenzione di tutti i presenti sui tempi di questo processo: l'inchiesta giudiziaria ebbe inizio nel dicembre del 1981 e riguarda reati che secondo l'accusa sarebbero stati commessi tra il 1978 e il 1979.

Ebbene, ancora oggi gli imputati di questo processo aspettano di essere giudicati in un pubblico dibattimento, per poter efficacemente esercitare il proprio diritto di difesa. Lo schema di questo processo è quello solito: i pentiti hanno formulato le loro accuse e sono in libertà; gli altri imputati sono rimasti in stato di arresto in attesa del dibattimento.

La novità sta nei contenuti delle accuse che parlano di complotto armato mirante a separare la Sardegna dal resto dell'Italia. I giudici hanno in buona sostanza affermato che il fronte indipendentista sardo è una associazione a delinquere e che chiunque vi abbia a suo tempo aderito o abbia comunque simpatizzato per quelle idee (pacifiche) di indipendenza dal resto di Italia che in Sardegna sono assai diffuse, deve rispondere di partecipazione ad associazione sovversiva.

Il contenuto di persecuzione politica di questo processo è indiscutibile: l'aver semplicemente manifestato la propria idea indipendentista non può di per sé giustificare accuse tanto gravi. In ogni caso la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di associazione politica garantita dalla nostra Costituzione sono state messe in discussione sulla base delle accuse dei pentiti, che potrebbero come già altre volte è accaduto risultare anche interessate.

Non sono neppure mancati i tentativi di strumentalizzare l'inchiesta giudiziaria contro il fronte indipendentista sardo.

Nell'ultimo e più caldo periodo della vita politica dell'isola l'affermazione elettorale del partito sardista ha portato alla costituzione di una giunta di sinistra con alla presidenza il più autorevole rappresentante del Partito Sardo d'Azione: l'avvocato Mario Melis. Ebbene gli oppositori di questa svolta storica nella vita politica della Sardegna hanno utilizzato la presenza tra gli imputati del processo di alcuni iscritti al partito sardista per accusare Melis e i suoi compagni di essere »mezzo terroristi .

Ecco a cosa può giungere la degenerazione dell'emergenza, e a quali incredibili risultati può approdare la nuova prassi giudiziaria!

10. Considerazioni conclusive

Come abbiamo potuto vedere il popolo sardo ha pagato e paga tutt'oggi un pesante tributo alla legislazione dell'emergenza e alle sue degenerazioni.

E forse era inevitabile che la Sardegna dovesse corrispondere un prezzo tanto alto anche in questa circostanza: da sempre, infatti, l'isola è stata considerata da tutti terra di conquista e la sua gente, costretta a misere condizioni di vita e ad esasperanti rinunce, ha subito più d'ogni altra umiliazione di ogni genere, dai rastrellamenti di interi paesi alla schedatura indiscriminata di intere famiglie di onesti e laboriosi emigrati colpevoli solo di essere nati in Sardegna.

Le leggi dell'emergenza nella nostra isola hanno solo creato nuove ingiustizie, quasi che non ce ne fossero abbastanza e che la gente non avesse avuto modo di provare sufficientemente l'amarezza della emarginazione.

Una considerazione conclusiva ci sembra davvero indispensabile: la storia della amministrazione della giustizia penale in Sardegna e in Italia di questi ultimi anni deve essere un monito per tutti. Pensare di poter combattere e sconfiggere il terrorismo e la criminalità organizzata conteggi eccezionali, riconoscendo a magistrati e polizia poteri addirittura più ampi di quelli previsti dalla Costituzione, è davvero illusorio e pericoloso.

Le armi della democrazia sono più forti di quelle dei terroristi e dei criminali: la vera e definitiva sconfitta di costoro sta proprio in questa semplice ma importante considerazione.

PRESIDENTE:

La parola al professor Mereu.

 
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