di Marco De AndreisIRDISP-ISTITUTO DI RICERCHE PER IL DISARMO, LO SVILUPPO E LA PACE
SOMMARIO: Va bene la corsa al riarmo, ma che c'entra l'Italia? Non sono gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica i promotori di tale corsa? Che le due superpotenze siano i principali responsabili della corsa al riarmo è vero. I principali, ma non gli unici. Anche l'Italia ha la sua parte di responsabilità. Minore, ma non trascurabile. In cifre assolute la spesa militare dell'Italia è stata nel 1985 l'ottava al mondo. Quanto al numero di uomini alle armi siamo tra i primi quindici. E tra gli esportatori mondiali di armamenti, gli italiani figurano nei primi sei posti. Il peso del settore militare sul complesso dell'economia italiana è ancora piuttosto contenuto: la spesa assorbe il 2,7% del prodotto interno lordo; le armi rappresentano il 2,7% della ricchezza prodotta dall'industria e il 2,3% delle esportazioni. Inoltre le minacce militari alla sicurezza dell'Italia sono meno gravi di quelle che si trovano a fronteggiare numerosi altri attori internazionali - compresi molti nostri alleati. Siamo quindi in una sit
uazione che offre molte opportunità di contenimento della spesa, di sperimentare conversioni al civile delle produzioni militari, di promuovere una politica di sicurezza realista e distensiva. Sfortunatamente queste opportunità non vengono colte. Al contrario nell'ultimo decennio s'è affermata la tendenza all'espansione che è urgente arrestare. E' dalla metà degli anni '70, infatti, che l'Italia comincia a figurare tra i principali esportatori di sistemi d'arma, e che la spesa militare supera i tassi di crescita annuale concordati in sede NATO. Ed è sempre in quelo periodo che cominciano a farsi sentire i sostenitori di un "nuovo ruolo" militare dell'Italia nel Mediterraneo. Il "Libro bianco", presentato dal ministro della Difesa Spadolini nell'inverno 84-85, sintetizza e mette a punto questi sviluppi, ovviamente dalla parte di chi li ha sostenuti e si augura che proseguano. Questo volume, invece, fa emergere i dubbi, gli interrogativi, le proposte alternative rispetto a quello che sinora è stato un monologo
dell'establishment.
("L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO" - Un contro-libro bianco della difesa - a cura di Marco De Andreis e Paolo Miggiano - Prefazione di Roberto Cicciomessere - Franco Angeli Libri, 1987, Milano)
1. CONTROLLO DELLE ARMI NUCLEARI E DOTTRINA STRATEGICA AMERICANA(*)
di Marco De Andreis
(* Questo capitolo è la versione italiana di una ricerca condotta dall'autore per conto dell'Istituto affari internazionali (Iai) di Roma. La versione inglese verrà pubblicata sulla rivista dello Iai, "The International Spectator".)
1. Introduzione
C3I sta per comando, controllo, comunicazioni e "intelligence", intendendo con l'ultimo termine la raccolta di informazioni. Ai fini di questo capitolo, tutto ciò si riferisce alle forze nucleari strategiche.
In una disciplina, quella degli studi strategici, così proclive agli acronimi e alle formulette, ``C3I'' (letto "sea-cube-eye", ci-al-cubo-i) era destinato a sicuro successo. Basta uno solo dei quattro termini, tuttavia, a rendere conto del problema sotteso alla formula. Così che possiamo parlare di controllo delle forze nucleari. Difatti per controllare alcunché occorrono delle informazioni ("intelligence"), che vanno ricevute e trasmesse (comunicazioni), talvolta sotto forma di ordini (comando).
Lo studio del controllo delle forze nucleari è sempre più in voga nella strategia contemporanea. I lavori di una certa ampiezza dedicati specificamente all'argomento sono tutti successivi al 1980 - stando almeno alle mie conoscenze. Negli scritti più recenti, e non solo nella letteratura specializzata, è ormai difficile che manchi quanto meno un cenno al C3I. A che si deve tanto successo?
In parte alle mode culturali del settore. Un settore in cui ``Molte delle analisi presentate oggi come nuove e profonde sono state fatte ieri; e di solito con una logica più stringente e in una migliore forma letteraria'' (1). Trovare il modo di attaccare da un nuovo angolo il dilemma nucleare - i cui corni sono stati messi a nudo da Bernard Brodie or sono quarant'anni - può fare la fortuna accademica del primo che se ne accorge e di quelli che si sbrigano a seguirlo.
Al di là delle mode, occuparsi di controllo delle forze nucleari una sua logica sembra averla. Questa viene spesso riassunta con una metafora tratta dalla fisiologia umana, per cui le forze nucleari sono muscoli e il C3I il sistema nervoso che tali muscoli, all'occorrenza, flette. Si potrebbe continuare su questa vena, identificando al cervello l'autorità politica e/o militare che decide in ultima istanza sull'uso delle armi nucleari (2). La metafora ha il merito di chiarire, comunque, che un collasso del sistema nervoso è in grado di paralizzare l'intero organismo, anche se muscoli sono in piena forma e la mente vivace. Tutti coloro che hanno scritto di C3I ripetono che gli studi strategici hanno troppo insistito nel conteggio, "à la" Salt, delle forze o nella polemica sulle dottrine - rispettivamente: i muscoli; il sistema di valori della mente nucleare. E' stato invece trascurato come le dottrine strategiche interagiscano con i sistemi d'arma - ovvero la questione del controllo.
Tutto ciò è, all'apparenza una vendetta del C3I sugli altri campi d'indagine della strategia contemporanea. All'apparenza perché è invece vero il contrario. In sé il sistema di controllo appare come un'accozzaglia di cervellotici congegni - per lo più elettronici. Ha senso parlarne solo per giudicare delle dottrine e delle forze nucleari. Il che significa che alla fine di un percorso reso più penoso del solito da un'infinità di dettagli tecnici, tutti importanti, ci si ritrova dinanzi ai dilemmi di sempre: hanno le armi nucleari un'utilità politica nel mondo contemporaneo? Che fare se la deterrenza fallisce? E così di seguito.
Nei primi paragrafi di questo capitolo si tenterà di descrivere il sistema americano di C3I, per poi passare a una valutazione di tale sistema alla luce della dottrina strategica vigente e dei programmi di modernizzazione impostati dall'amministrazione Reagan. Il discorso ritornerà poi brevemente sulla politica strategica e il controllo degli armamenti.
2. Il bilancio del Pentagono e il C3I
Non ultima tra le cause del corrente interesse verso il controllo nucleare è l'alta priorità datagli dall'amministrazione Reagan. Tale priorità è stata riaffermata anche recentemente. Il 3 giugno del 1986 la Casa Bianca ha diffuso un ``Riassunto di quei programmi di modernizzazione strategica che il presidente ha chiesto al congresso di salvare dai tagli al bilancio della difesa'' (3): i programmi relativi al comando, controllo e comunicazioni hanno la precedenza su tutti gli altri, compresa l'Sdi e la modernizzazione delle forze strategiche.
In termini di bilancio il C3 (strategico e tattico) è passato dal 5,9% del 1982 al 6,5% del 1985, sul totale della spesa del Pentagono - in valori correnti si tratta rispettivamente di 12,3 e 18 miliardi di dollari (4). In media più della metà dei fondi va al C3 strategico, dove il 73% delle risorse va all'acquisto di nuovo materiale.
Bruce Blair, l'esperto americano di comando e controllo (5), è invece dell'avviso che si tratti di un impegno di facciata, ovvero che il Pentagono si guardi bene dal tradurre in pratica le dichiarazioni d'intenti sul C3. Secondo Blair, proiezioni del bilancio della Difesa mostrano che il C3 strategico oscillerà tra l'1,3 e l'1,5% del totale negli anni finanziari 83-87. Per giunta circa un terzo di tali somme sarà assorbito da un singolo programma, il satellite per le comunicazioni MILSTAR. ``Queste cifre - egli ha scritto - mettono in dubbio la genuinità dell'impegno preso dall'amministrazione Reagan a rivedere il sistema di comando'' (6). E' anche dubbio che gli appelli del presidente possano vincere la propensione delle singole forze armate a salvare l'acquisto dei propri sistemi d'arma, a scapito di tutto il resto delle voci di bilancio: ``In realtà è probabile che si assista a un aumento, invece che a una diminuzione, dei tagli alle spese di C3I e a un persistere della precedenza accordata dalle forze ar
mate alle armi vere e proprie'' (7). Ciò dovrebbe essere tanto più vero nel contesto di stanziamenti per la difesa congelati che la manovra di appianamento del deficit del bilancio federale impone. Cerchiamo ora di vedere, per sommi capi, come funziona la rete di C3I strategico americano.
3. La linea di comando
Il controllo delle forze armate risiede nelle "National Command Authorities" (NCA), cioè il presidente e il segretario alla Difesa - o i loro rappresentanti o successori. Il controllo sulle armi nucleari spetta al presidente, che è l'unico che può autorizzarne l'uso. Comunque, ``tale autorizzazione è improbabile che arrivi senza l'assenso del segretario'' (alla Difesa) (8). Non solo; la catena di comando prevede un altro passaggio intermedio tra la decisione del presidente e l'impiego effettivo dell'arma nucleare da parte del comandante sul campo: si tratta del "Chairman of Joint Chiefs of Staff" (corrispondente al nostro capo di stato maggiore alla Difesa). Che il tutto si traduca in un controllo a tre, in pratica, è confermato da dichiarazioni autorevoli. Pare che Lyndon Johnson si sia una volta divertito a fare l'ipotesi di un suo estemporaneo ordine d'attacco totale sull'Urss: ``Generale, attaccateli! Sapete cosa risponderebbe il generale? `Vada a farsi fottere ("screw you"), signor Presidente''' (9).
Che succede se il presidente è ``incapacitato''? Secondo il 25
· Emendamento del 1967 e il "Presidential Succession Act" di venti anni prima, la linea di successione va dal presidente al suo vice, poi allo "Speaker" della Camera dei rappresentanti, al presidente pro tempore del Senato e infine ai vari ministri in ordine di anzianità. L'altra figura chiave nell'NCA è il segretario alla Difesa, la cui linea di successione è del pari assai complicata: il "Deputy", poi i segretari di Esercito, Marina e Aeronautica, il "Director of Defense Research and Engineering", i vari "Assistant Secretaries" e il consigliere generale del Dipartimento alla difesa (secondo l'anzianità di servizio), i sottosegretari delle tre forze armate (come sopra) e gli "Assistant Secretaries" delle tre forze armate (come sopra).
Sembra assicurato che in condizioni di estremo stress, come dopo un attacco nucleare sugli Stati Uniti, ne risulterebbe un bel po' di caos. In pratica, tra tutti questi signori, il primo disponibile diventerebbe il legittimo successore. Per rendersene conto basta pensare alle polemiche avutesi quando Reagan fu ferito da uno psicopatico il 30 marzo del 1981 - in un momento di calma, quanto a tensioni internazionali. Col vice-presidente Bush lontano dalla capitale, l'allora segretario di Stato Haig si autoproclamò successore: ``Sino al ritorno del vice-presidente sono io ad avere la situazione sotto controllo qui alla Casa Bianca'' (10). Come abbiamo visto, almeno altre due autorità avrebbero dovuto avere la precedenza su Haig.
La valigetta nera (che gli americani chiamano "Football") che, ben stretta nelle mani di uno della scorta, segue sempre il presidente è ormai entrata nel cosiddetto immaginario collettivo. Dentro ci sono i codici per autorizzare l'uso delle armi nucleari e il Libro Nero con le opzioni del "Single Integrated Operational Plan" (SIOP), il piano operativo integrato per tale uso. Anche se il presidente può essere temporaneamente o definitivamente ``incapacitato'', non è così scontato che i suoi successori siano al corrente del contenuto della valigetta. Quando, dopo l'assassinio di Kennedy nel novembre 1963, la ``palla'' passò a Johnson, questi non aveva la minima idea del suo contenuto (11). In seguito la situazione è rimasta immutata. Almeno fino a Carter, il quale appena insediatosi ``...rimase allibito nell'apprendere che il prossimo individuo nella linea di comando, il vice-presidente, non era mai stato coinvolto, in nessuna amministrazione, in alcuna delle esercitazioni top secret sul SIOP e le sue opzioni
d'attacco'' (12). Seguì una serie di riunioni sull'argomento, cui presero parte lo stesso Carter, il suo vice Mondale e il segretario alla Difesa Harold Brown. A parte Carter, e in misura minore, Kennedy, nemmeno gli stessi presidenti sembra possano vantare una grande familiarità coll'inquietante viatico del "Football". Il generale William Odom, assistente militare del consigliere di Carter per la sicurezza nazionale Brzezinski, commentò così lo sforzo fatto dall'ultimo presidente democratico per padroneggiare il controllo delle forze nucleari: ``Non credo sia mai stato fatto prima''; in generale l'atteggiamento degli altri presidenti ``...verso il comando e controllo, in particolare delle forze strategiche, è stato tipicamente di benevola negligenza'' (13). Sulle conoscenze di Reagan in materia si hanno invece solo indizi. E non sono molto confortanti: ha dichiarato che i missili lanciati dai sottomarini (SLBM) sono ``richiamabili''; che ``i missili basati a terra hanno testate nucleari, mentre i bombardier
i e i sottomarini no''; oppure dopo aver appreso che il missile sovietico SS-18 è più grande dell'SS-19 ha commentato: ``hanno persino invertito i numeri dei loro missili, pur di confonderci'' (14).
4. I posti comando
Per dirsi in controllo delle forze nucleari, il presidente deve valersi di comunicazioni. Queste devono far capo da qualche parte. Ergo la NCA deve disporre di posti di comando. Il primo di tali posti è al Pentagono, dove occupa il secondo e terzo piano. Viene chiamato "National Military Command Center" (NMCC), ospita il ``telefono rosso'' Mosca-Washington e non è in alcun modo ``rinforzato''. Già nel 1954 emersero le prime preoccupazioni per la vulnerabilità dell'NMCC. Ne venne pertanto predisposto un altro, protetto, a Fort Richie nel Maryland - 75 miglia da Washington - chiamato "Alternate National Military Command Center" (ANMCC). Coll'evolversi delle forze offensive sovietiche, anche l'ANMCC divenne vulnerabile. L'unica soluzione logica, per avere un posto comando capace di scampare a un attacco, fu allora quella di predisporre allo scopo un B-747 opportunamente attrezzato.
Di questi aerei, siglati E-4, ve ne sono quattro. Il Pentagono ne aveva richiesti sette, ma il numero è stato poi ridotto a causa, sembra, della forte spesa necessaria a rendere l'aereo e le sue apparecchiature resistenti all'impulso elettromagnetico ("Electro Magnetic Pulse", EMP) (15) - sull'EMP avremo modo di ritornare. Anche gli E-4 hanno la loro brava sigla: si chiamano NEACP, pronunciato "Kneecap", che sta per "National Emergency Airborne Command Post".
Teoricamente un aereo è certo meno vulnerabile di un'installazione fissa. Ha però i suoi problemi: può essere sì, ad esempio, rifornito in volo di carburante ma non del lubrificante necessario ai motori. Il limite è pertanto di 72 ore - senza contare la resistenza alla fatica dell'equipaggio. In una guerra nucleare, non è detto che vi sia grande disponibilità di aeroporti per fare atterrare un B-747, rifornirlo, cambiare equipaggio e così via. In più i detriti e la polvere scagliati nell'atmosfera da eventuali esplosioni nucleari a terra possono seriamente danneggiare i motori. Tutto ciò può avere poca importanza per chi ritiene che uno scambio di ordigni intercontinentali non possa andare avanti per molto. Se invece, come fa l'Amministrazione, si ritiene che possa durare mesi, la longevità del "Kneecap" diventa un affare serio. C'è infine, col NEACP, un problema di comportamento in caso di crisi: in un momento di alta tensione farci salire la NCA potrebbe essere letto dai sovietici come una dichiarazione di
guerra. Il che potrebbe dissuadere il presidente dal prendere una decisione del genere.
Che pure sarebbe una decisione prudente: un SLBM sovietico ci mette meno di dieci minuti a raggiungere - e a distruggere - la pista sulla quale l'E-4 aspetta il presidente. O, e il risultato è lo stesso, a raggiungere e distruggere la Casa Bianca. Dunque, in caso di un attacco ad hoc, ce la farebbe l'NCA a imbarcarsi sul "Kneecap"?
Nel 1977 Brzezinski simulò un'emergenza, che si concluse in un disastro. Non solo si andò ben oltre il tempo massimo: i servizi di sicurezza per poco non abbatterono l'elicottero che avrebbe dovuto portare il presidente-Brzezinski alla base di Andrews - dove allora si trovava l'E-4 (16).
Nel 1983 il Pentagono decise di spostare l'aereo da Andrews - che è molto vicina a Washington - in una base segreta più all'interno. Nel nuovo aeroporto l'aereo è in stato d'allerta, in modo da essere in grado di decollare prima dell'arrivo del solito SLBM. Per poi eventualmente riatterrare a un punto d'incontro coll'elicottero presidenziale. Un senatore dell'Indiana, Daniel Quayle, non riuscì comunque a resistere alla tentazione di vantarsi coll'elettorato di essere riuscito a far trasferire nel suo stato una nuova base militare. La nuova base, nell'aeroporto di Grissom, era quella del "Kneecap" (17).
Un altro importante posto comando è quello dello "Strategic Air Command" (SAC), che è interrato ad Omaha, in Nebraska. Anch'esso viene ritenuto comunque vulnerabile. Il che ha portato, di nuovo, alla creazione di duplicati aeroportati. L'aeronautica statunitense ha due gruppi di volo di EC-135 (B-707), detti "Post Attack Command and Control System" (PACCS) o, più comunemente, "Looking Glass". Dal 1961 uno o due di questi aerei sono sempre in volo: a bordo c'è, tra gli altri, un generale dell'Aeronautica il cui compito è, in teoria, quello di eseguire gli ordini del comandante del SAC o dell'NCA.
In teoria perché se i sovietici lanciassero con successo un attacco di ``decapitazione'', di fatto la NCA diventerebbe "Looking Glass". La conseguenza pratica di tutto ciò è che, appunto per far fronte a contingenze del genere, chi è a bordo del PACCS può autorizzare-decidere l'uso delle forze nucleari strategiche. La cosa può avvenire in diversi modi: l'aereo può trasmettere ai "Launch Control Centers" (LCC) dei missili intercontinentali basati a terra (ICBM) l'ordine di lancio, detto "Emergency Action Message" (EAM): può lanciare direttamente gli ICBM, in caso i LCC non siano più in condizioni di operare; può fare la stessa cosa per il tramite di altri aerei "Looking Glass" - se questi non sono stati distrutti a terra; può ordinare il lancio di satelliti d'emergenza: si tratta dell'"Emergency Rocket Communication System" (ERCS), una dozzina di missili "Minuteman" basati a Whiteman nel Missouri, che al posto delle testate portano dei trasmettitori capaci di mandare l'ordine di lancio alle basi del resto deg
li ICBM (18). Ancora: l'aereo del SAC può ordinare ai bombardieri di dirigersi sui loro obiettivi, anche se per far ciò deve poter contare sulla presenza nello spazio aereo di altri velivoli "Looking Glass" che in qualche modo facciano da ponte con le formazioni (in fila) dei B-52. Infine può comunicare con gli aerei C-130 della Marina, che a loro volta possono trasmettere ai sottomarini lanciamissili (SSBN) l'ordine di lanciare i propri SLBM. Gli aerei per la comunicazione con gli SSBN si chiamano "Tacamo", da "Take Charge and Move out": ve ne sono sempre due in volo, uno sull'Atlantico e uno sul Pacifico, col resto dei due gruppi di volo in allerta a terra. I "Tacamo", che non possono essere riforniti in aria, possono operare per non più di 10-11 ore, contro le 24 circa di "Looking Glass" (19).
5. L'autorità sull'uso delle armi nucleari
Il problema posto dalla capacità di "Looking Glass" di decidere l'uso delle forze strategiche, ci riporta alla questione ``legale'' dell'autorità sull'uso delle armi nucleari. Sembra evidente, a questo punto, che quella del presidente è quanto meno una monarchia costituzionale. Ovvero l'autorità del capo dell'esecutivo è sottoposta a numerose condizioni e/o eccezioni. Per renderci conto della reale portata della faccenda, conviene tornare al concetto di controllo: la garanzia che le armi nucleari vengano usate quando previsto possiamo chiamarla controllo positivo; le misure prese per evitare impieghi impropri possiamo chiamarle, collettivamente, controllo negativo. Tra le due forme di controllo c'è una relazione di proporzionalità inversa, nel senso che massimizzando una si minimizza l'altra e viceversa. Di strettoie simili se ne incontrano spesso. Forse la forma logica classica è quella dell'errore beta (accettare un'ipotesi falsa) contro l'errore alfa (respingere un'ipotesi vera).
Le misure di controllo negativo sono numerose e riguardano persino il presidente stesso che, in splendido isolamento, difficilmente sarebbe ascoltato - se non mandato al diavolo, come diceva Johnson. Per tutto il resto della schiera di militari che, a vario titolo, partecipano del controllo, le salvaguardie adottate sono essenzialmente di due tipi: la prima consiste nel far partecipare più di una persona simultaneamente alle procedure per l'uso di una testata; la seconda nel cosiddetto "Permissive Action Link" (PAL), un codice numerico senza la conoscenza del quale non è possibile attivare la testata. In qualche caso, come i centri di controllo degli ICBM, la ``regola dei due uomini'' e il PAL coesistono, ovvero vi sono due individui che devono convalidare e inserire simultaneamente i codici per il lancio - più una serie di altre misure di sicurezza, tra cui una che comporta una sorta di diritto di veto da parte dell'equipaggio di un altro LCC.
Nel caso delle armi nucleari, diciamo non-strategiche, il PAL è la garanzia principale contro un uso non autorizzato. Infine per quanto riguarda i sottomarini SSBN, "Looking Glass" e, probabilmente, i bombardieri e le unità della Marina dotate di armi nucleari (alcuni sottomarini d'attacco e certe navi di superficie dalle fregate in su) vale solo la formula del più di un uomo - sembra che negli SSBN sia praticamente tutto l'equipaggio a essere coinvolto (20). In altri termini militari in servizio su questi sistemi possiedono già i codici, o conoscono le procedure, occorrenti per l'uso dei vari ordigni.
Perché sia stata fatta una scelta del genere risulta chiaro dal fatto che in tutti i casi citati vi sono buone probabilità che le comunicazioni con la NCA saltino. Oppure, nel caso di "Looking Glass", che vi sia da succedere a l'NCA. L'unico modo di rimediare alla ``decapitazione'' è s dunque quello di pre-delegare il controllo. Il che significa che per garantire il controllo positivo, si è dovuto rinunciare a un quantum di controllo negativo. Anche se molti ben vedrebbero il PAL sulle unità della Marina, in particolare gli SSBN, in generale tutto il sistema di misure contro l'uso non autorizzato è considerato più che soddisfacente. Ovvero la probabilità di uno scenario alla dottor Stranamore - in cui un generale del SAC mandava, di testa sua, i propri B-52 a bombardare l'Urss - è considerata bassissima. Si badi che il problema di cui parliamo è concettualmente diverso da quello del ``falso allarme'', che vedremo dopo esaminando i sistemi di allarme ("early warning").
Va infine ricordato che il controllo negativo è tanto più efficace quanto più è distesa la situazione internazionale. Più le forze nucleari vengono ``generate'' - gergale per: aumentare lo stato di prontezza operativa - e più è probabile che un comandante, o un intero equipaggio, possano essere indotti a non aspettare gli ordini della NCA. La conseguenza è quindi quella di rendere l'allerta un problema a sé stante. Anche questo verrà trattato più avanti: qui basti ricordare che la "Defense Condition" (DEFCON) 1, che è appunto il massimo su una scala da 1 a 5 della ``generazione'' delle forze Usa, viene significativamente chiamata "cocked pistol" - sarebbe a dire un revolver col cane già sollevato.
6. L'allarme ("early warning")
Anche se nulla impedisce a nessuno di usare per primo armi nucleari, il concetto di deterrenza suggerisce un ruolo reattivo. La reazione scatta in caso di attacco altrui. Logico quindi che occorra essere in grado di stabilire in primo luogo se un attacco c'è e da dove proviene. Può poi servire determinare scala e obiettivi dell'attacco. Tutto ciò è il "warning" - l'allarme.
Il "warning" è nient'altro che la I del C3I - giacché senza informazioni non si dà allarme. Una dimensione importante del "warning" è il tempo: ``L'allarme strategico è l'allarme di un attacco imminente, prima della sua esecuzione. L'allarme tattico invece è un allarme di un attacco già lanciato'' (21). In generale l'organizzazione e i mezzi descritti in questa sezione servono all'allarme tattico; provvede all'allarme strategico più o meno tutto il resto delle risorse a disposizione dei servizi di informazione: dalle spie ai satelliti da ricognizione.
Il primo mezzo per individuare un attacco contro gli Stati Uniti portato con missili balistici è costituito dai tre satelliti del "Defense Support Program" (DSP). Sono in orbita geostazionaria (circa 36.000 km di altezza), uno sull'emisfero est e due su quello ovest. A bordo hanno sensori all'infrarosso che rilevano le emissioni di un missile a un minuto circa dal lancio: il punto del globo da dove parte il razzo viene stabilito con un'approssimazione di 3-5 km. I satelliti del DSP sono anche dotati di sistemi per la rilevazione di particelle nucleari e di sensori di raggi gamma e x, e di sensori di EMP. Per la trasmissione dei dati, DSP "East" si affida a una stazione di lettura non protetta in Australia: di lì tali dati vengono smistati negli Stati Uniti continentali (California) via cavo sottomarino. I due DSP "West" invece, essendo ``in vista'', possono trasmettere le informazioni direttamente a Sunnyvale in California, dove c'è il "Satellite Test Center". Quest'ultimo, oltre a smistare i dati dei DSP al
"North American Aerospace Defense Command" (NORAD), ha il compito di provvedere a mantenere i satelliti americani sulle orbite loro assegnate, con i sensori e le antenne ben puntati. Anch'esso, tuttavia, può essere definito un "large, soft target", un grosso obiettivo non rinforzato. Oltre al NORAD, anche l'NMCC, l'ANMCC e il SAC ricevono i dati del DSP - spiacente per il delirio di acronimi. E' il primo, comunque, che ha un ruolo chiave, spettandogli l'"attack assessment" - quante sono e dove sono dirette le testate attaccanti - e la sua diffusione agli altri posti comando.
I satelliti da "early warning" sono integrati da una serie di altri sensori, soprattutto radar. Si tratta di a) il "Ballistic Missile Early Warning System" (BMEWS), tre radar situati rispettivamente a Clear in Alaska, a Thule in Groenlandia e a Fylingdale Moore in Gran Bretagna; b) i due radar "Pave Paws", uno alla base aerea di Otis nel Massachusetts e l'altro alla base aerea di Beale in California, la cui missione primaria è l'allarme contro il lancio di SLBM; c) il "Perimeter Acquisition Radar Characterization System" (PARCS), una sorta di avanzo del sistema anti-missili balistici (ABM) "Safeguard" ora smantellato, che serve soprattutto all'"attack assessment"; d) i radar FPS-85 e FSS-7, entrambi in Florida, con il compito di individuare lanci di SLBM da Sud; e) il radar "Cobra Dane", nelle isole Aleutine in Alaska, il cui ruolo principale è tuttavia ``la raccolta di informazioni'' (22). Secondo Desmond Ball, ``E' possibile che qualche funzione di "early-warning e di "attack assessment" venga svolta dai s
istemi di "signals intelligence" (SIGINT). Questi sistemi comprendono più di 2.000 stazioni di intercettazione in tutto il mondo, satelliti per "electronic intelligence" (ELINT) e "communications intelligence" (COMINT) su orbite relativamente basse, e i satelliti per la SIGINT in orbita geostazionaria... che registrano i segnali a onde corte'' (23).
Ritenuti oramai di importanza secondaria - ma come vedremo, tuttavia modernizzati - sono i radar preposti ad individuare un attacco portato da bombardieri. Agli anni '50 risalgono i 33 siti dalla "Distant Early Warning (DEW) Line", che corre dall'Alaska alla Groenlandia via Canada, compresi due radar in Islanda. Oltre alla DEW Line vanno menzionati: un sistema di 13 radar in Alaska, un'altra linea di 24 radar operata dai canadesi (PINETREE), radar da difesa aerea nelle Hawai e due radar portati da aerostati in Florida.
La ridondanza dei sensori che provvedono all'"early warning" fa sì che viga il principio della ``doppia fenomenologia'' ("dual phenomenology"), un'importante misura di sicurezza. In altre parole occorre che più di un sistema segnali un eventuale attacco prima che scattino le contromisure - tra cui quella estrema della rappresaglia. Si capisce bene che è questo un caso in cui la complessità è benvenuta: numerosi controlli incrociati agiscono da polizza assicurativa contro falsi allarmi indotti da sempre possibili guasti o disfunzioni di singoli apparati. Malgrado ciò la cronaca di questo dopoguerra ha più volte dato notizia di qualche pericolosa cantonata, indotta vuoi da uno stormo di anatre, vuoi da un collasso di un microchip, vuoi dalla dimenticanza di un programma di war-game nei computer del NORAD. In qualche caso si è arrivati al punto di far accendere i motori dei bombardieri e prepararli al decollo. Non ci vuol molto a capire, comunque, che nulla di troppo grave è mai accaduto.
Vale a questo riguardo un discorso analogo a quello già fatto a proposito del controllo negativo: in una situazione internazionale distesa tutto il sistema di "early warning" funziona in modo eccellente contro quel tipo di eventualità che si è soliti chiamare guerra per errore. Altra storia è quella d'una crisi grave, in cui le forze nucleari dovessero trovarsi in stato avanzato di allerta. A quel punto c'è il pericolo che ci si accontenterebbe di una ``fenomenologia'' singola. E' in una congiuntura del genere che un ``falso'' allarme potrebbe provocare la catastrofe.
7. Le comunicazioni
Il complesso dei mezzi di comunicazione che assicura la cosiddetta ``connettività'' tra la NCA e le forze nucleari si chiama "World Wide Military Command and Control System" (WWMCCS). Pronunciato "Wimex", esso è poco più di un nome; nel senso che integra solo parzialmente i vari sistemi di C3 sviluppati e messi in opera per conto proprio. Quelli che riguardano le comunicazioni comprendono linee telefoniche, cavi sottomarini, sistemi radio, satelliti etc.
Le linee telefoniche impiegate dal Pentagono sono quelle delle reti commerciali della Att e della Gte; per tale impiego viene corrisposto un canone. Solo una parte delle comunicazioni telefoniche viene cifrata.
``Gli utenti delle comunicazioni via satellite si dividono in tre categorie: utenti con attività ordinarie ad alto traffico, compresi i terminali diplomatici; forze tattiche che hanno minor traffico ma necessitano di una copertura su scala mondiale e di piccoli terminali mobili e robusti; forze strategiche e relativi comandi, con ancor minor traffico ma grande robustezza. Il "Defense Satellite Communication System" (DSCS, pronunciato "discus"), il "Fleet Satellite Communications (FleetSatCom)", e i sistemi dell'"Air Force Satellite Communications" (AFSATCOM) corrispondono più o meno a questa tripartizione" (24).
"Discus" e "FleetSatCom" si giovano di 4-6 satelliti ciascuno, tutti su orbite geostazionarie. AFSATCOM invece consiste di un buon numero (circa 25) di trasponditori a bordo di altri satelliti, tra cui quelli appena citati e altri, in una varietà di orbite. Secondo Ashton Carter, ``La gamma di satelliti da comunicazione disponibili ai militari americani è completata da qualche sistema degli alleati, da vari satelliti da comunicazioni sperimentali e da satelliti fuori servizio ma ancora in grado di funzionare parzialmente. Satelliti da comunicazione civili o di proprietà di altre nazioni, possono in talune circostanze essere utilizzati dai militari Usa'' (25). La gran parte dei satelliti da comunicazione trasmette in UHF ("ultra-high frequencies") e SHF (super-high frequencies"), mentre sono in corso di sviluppo sistemi in EHF ("extremely high frequencies"). In generale più alta è la frequenza più si hanno i seguenti vantaggi: maggiore capacità di trasmissioni di dati per unità di tempo; minore lunghezza dell
'antenna trasmittente; maggiore resistenza alle interferenze ("jamming"); minore distorsione al passaggio in una ionosfera disturbata da esplosioni nucleari. Sulle basse frequenze opera invece il "Survivable Low Frequency Communication System" (SLFCS). Si tratta di una rete su scala mondiale di trasmettitori VLF/LF ("very low frequencies/low frequencies"), che comprende due siti ad alta potenza. Ricevitori sono installati ai quartier generali, presso i posti comando, i sottomarini, i LCC e i bombardieri (via siti a terra). Le basse frequenze sono praticamente l'unico mezzo per comunicare con i sottomarini in immersione.
L'SLFCS, insieme ai vari posti comando aeroportati ("Kneecap, Looking Glass, Tacamo" etc.), all'ERCS, ad AFSATCOM e "FleetSatCom" forma il "Minimum Essential Emergency Communication Network" (MEECN). Quest'ultimo, ``secondo il Dipartimento della difesa, `consiste di un sistema concepito per sopravvivere a un attacco e fornire i mezzi essenziali per lo smistamento del Emergency Action Message", allo scopo di esercitare un controllo preciso e deliberato sulle opzioni nucleari strategiche, cioè per la messa in atto del SIOP''' (26). Solo AFSATCOM dispone di circa 900 terminali un po' su tutti i centri di controllo delle forze nucleari e presso principali posti comando.
8. La ``Linea calda'' Mosca-Washington
In qualche modo pertinente al C3I è l'organizzazione per comunicare con l'avversario - ciò sia in caso di crisi, sia in caso di negoziato per la cessazione delle ostilità. A parte gli ordinari canali diplomatici, la ``linea calda'' ("hotline") è tutto quello di cui dispongono le due superpotenze.
La hotline, il cui nome ufficiale è "Direct Communication Link" (DCL), venne istituita da un "Memorandum of Understanding" firmato a Ginevra da Usa e Urss il 20 giugno 1963. Non si è mai trattato di un telefono, né rosso né d'altro colore, bensì di una telescrivente a ciascun capo (Mosca e Washington) della linea. Linea anche in senso fisico: un cavo telegrafico via Londra-Copenhagen-Stoccolma-Helsinki; oppure un circuito radio via Tangeri.
Il 30 settembre del 1971, Usa e Urss firmavano invece a Washington un vero e proprio accordo sul miglioramento della DCL. Venivano pertanto aggiunti due circuiti addizionali per la trasmissione dei messaggi, entrambi via satellite (uno dei quali russo, l'altro americano), il circuito radio via Tangeri smantellato e l'altro via cavo conservato come riserva. Inoltre, nello stesso accordo, le parti decidevano di aumentare il numero dei terminali in ciascuno dei due paesi; il che, almeno per quanto riguarda gli americani, non pare sia stato fatto.
L'ultimo aggiornamento della DCL è abbastanza recente: risale al 17 luglio del 1984. A dispetto del mese scelto, siamo in pieno gelo nei rapporti tra i due paesi, con i negoziati di Ginevra interrotti. Ne risente la forma diplomatica: si tratta, infatti, di uno scambio di note cui venne dato allora - su precisa insistenza sovietica - un bassissimo rilievo sui media. La nota sovietica è in qualche modo emblematica della poca voglia di discutere che Mosca aveva all'epoca: ``L'Ambasciata dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche accusa ricevuta della nota del Dipartimento di stato del 17 luglio 1984, che così recita: (Citazione dell'intero testo della nota statunitense). L'Ambasciata dell'Urss dichiara che la parte sovietica accetta le proposte contenute nella nota del Dipartimento di stato. Pertanto quella nota, insieme a questa replica, costituiranno un accordo, in vigore dalla data della replica dell'Ambasciata'' (27).
La nota americana, comunque, chiarisce in che cosa consista questo ultimo miglioramento. Via i satelliti INTELSTAT e STATSIONAR, Mosca e Washington dovrebbero ora essere in grado di scambiarsi comunicazioni in facsimile. L'accordo prevede anche una serie di congegni per mettere in codice le trasmissioni - congegni forniti dagli americani ai sovietici, con un classico trasferimento di tecnologia.
Il fac-simile elimina il filtro del dattilografo, che è una potenziale fonte di errori in più. Inoltre consente la trasmissione di disegni, grafici, cartine ecc. Non elimina però lo scoglio della traduzione. Secondo un rapporto del segretario Usa alla Difesa Weinberger: ``La traduzione è la fase più lenta nel processo di comunicazione diretta. Uno specialista può tradurre letteralmente al ritmo di non più di 1.000 parole l'ora e fornire una rassegna sommaria al ritmo di 6.000 parole l'ora'' (28). Comunicazioni dirette, in voce o in video, sono state escluse. Le ragioni sono, a quanto sembra, le seguenti: si vogliono escludere fattori emozionali, come l'intonazione della voce o l'espressione del viso, in momenti potenzialmente gravidi di conseguenze; entrambi i leaders devono poter consultare i rispettivi staff prima di poter avanzare proposte o replicare, il che è incompatibile con i tempi della comunicazione diretta.
9. L'evoluzione della strategia nucleare americana
E' ora necessario fare una pausa per tentare di capire cosa pretende il governo americano dal proprio sistema di C3I nucleare. Parlando proprio di questo, il segretario alla Difesa dell'amministrazione Carter, Harold Brown, ha scritto: ``Il grado di flessibilità richiesto dipende da quante opzioni strategiche diverse devono essere disponibili e per quanto tempo. Ciò a sua volta dipende dalla dottrina adottata per deterrere e, se necessario combattere, una guerra nucleare. Nel caso più semplice, ove l'unica risposta contemplata fosse la ritorsione termonucleare totale su obiettivi militari e sui centri urbani e industriali, non c'è bisogno di grande sofisticatezza'' (29).
Il ``caso più semplice'' di cui parla Brown, ammesso che sia mai esistito, è stato accantonato nel gennaio 1961, al momento dell'insediamento di un'amministrazione - quella di Kennedy - che aveva fatto della critica alla dottrina della ritorsione massiccia uno dei temi della propria campagna elettorale. Tale critica era in gran parte basata sul fatto che quella dottrina, per la sua scarsa o nulla flessibilità, veniva ritenuta poco credibile. E' qui che comincia la lunga ricerca di flessibilità - e quindi il moltiplicarsi delle opzioni e degli obiettivi - che caratterizza l'evoluzione della strategia nucleare americana dell'ultimo quarto di secolo. In seguito McNamara prenderà le distanze da queste tendenze, inventando se non il termine stesso, almeno l'idea della Mutua distruzione assicurata (MAD), una concezione della deterrenza assai meno esigente in fatto di flessibilità. E' invece probabile che la spinta originaria dei primi mesi dell'amministrazione Kennedy (di cui McNamara era segretario alla Difesa) a
bbia lasciato tracce sul SIOP assai più durature del MAD.
Tutti i successori di McNamara hanno poi contribuito ad allontanare sempre di più la dottrina nucleare americana dal "simplest case" citato da Brown. Fa eccezione l'accenno fatto da due presidenti, Nixon e Carter, a idee controcorrente: rispettivamente l'idea della "sufficiency" e quella del deterrente minimo. Sviluppi rimasti sulla carta, comunque, e presto smentiti dal prosieguo delle loro stesse amministrazioni.
In sintesi sono questi i concetti di base della strategia nucleare Usa: a) la credibilità, ovvero una dissuasione credibile deve essere in grado di rispondere al livello di violenza, agli obiettivi politico-militari, scelti dall'avversario - se questi sono limitati occorrono risposte limitate, non essendo la minaccia dell'obliterazione credibile se non per minacce altrettanto globali; b) credibile è quindi ciò che nega le mosse dell'avversario, non ciò che si limita a minacciare una punizione ("denial" invece di "punishment"); c) la capacità di infliggere una punizione, nella forma della distruzione assicurata di una certa percentuale della popolazione e della capacità industriale, deve essere lasciata in riserva; d) se la deterrenza fallisce gli Stati Uniti devono tentare di limitare i danni ("damage limitation") e di chiudere al più presto le ostilità a condizioni vantaggiose; e) la deterrenza non crolla una volta per tutte, ma "degrades gracefully" (si esaurisce per gradi): nel corso della guerra un margi
ne di superiorità è rappresentato dalle forze tenute in riserva, dal cui uso ci si può astenere, per segnalare moderazione all'avversario e invitarlo a fare altrettanto ("intra-war deterrence"); f) lo stesso margine di superiorità consente di aumentare il livello della violenza, se lo si ritiene opportuno, oppure di mettere tale responsabilità sulle spalle dell'avversario ("escalation dominance"); g) in base a tutti i principi precedenti il criterio guida è quello della flessibilità ("flexible response"), concretato dalla disponibilità di una gamma di opzioni limitate ("limited nuclear options") o selettive ("selected nuclear option").
Credo si possa affermare che questi principi sono alla base degli ultimi tre documenti ufficiali americani che fissano le linee-guida della dottrina strategica: il "National Security Decision Memorandum" (NSDM) 242 firmato da Nixon nel gennaio del 1974; la "Presidential Directive" (PD) 59, firmata da Carter nel luglio del 1980; la "National Security Decision Directive" (NSDD) 13, firmata da Reagan nell'ottobre del 1981. Non sono documenti pubblici e il più delle volte vengono menzionati in altro modo: ad esempio il primo viene ricordato come ``dottrina Schlesinger'' (segretario alla Difesa dell'epoca) o "Limited Nuclear Options"; il secondo come "countervailing strategy"; il terzo non ha etichette particolari, senonché una serie di articoli pubblicati dal "New York Times" nel maggio-giugno del 1982 ha lasciato intendere che si tratta di una dottrina che si preoccupa di ``come prevalere in una guerra nucleare prolungata'' (30). Ognuno di questi documenti è lo sviluppo logico, con qualche messa a punto minore,
di quello precedente. Tanto vale, quindi, guardare agli ultimi.
Direttive e memoranda vengono messi in pratica in un documento dello stato maggiore, il già citato SIOP, che è quello che mette a disposizione del presidente le varie opzioni. Nel SIOP-5D del 1980 tali opzioni venivano divise in quattro categorie: "Major Attack Options, Selected Attack Options, Limited Attack Options e Regional Nuclear Optios". ``Quel che è più importante è che il SIOP ha sempre riservato al presidente due categorie speciali, una per gli attacchi preliminari (traduzione sommaria di "preemptive", concetto sul quale si tornerà. NdA) sull'Unione Sovietica e un'altra per il cosiddetto Lancio su Allarme ("Launch on Warning")'' (31). I potenziali obiettivi in Unione Sovietica fanno capo, anch'essi, a una quadripartizione: forze nucleari, forze militari convenzionali, la leadership politica e militare, obiettivi economici e industriali - nessuno dei quali gruppi contiene centri urbani come tali. La proliferazione delle opzioni, comunque, sembra implicare quella degli obiettivi potenziali, che nel S
IOP-5D sono 40.000 (quarantamila). C'è praticamente l'intero globo terracqueo: ``Ci sono, ad esempio, migliaia di obiettivi nelle nazioni del Patto di Varsavia, in Cina, a Cuba, nel Vietnam, e persino qualche obiettivo in un non meglio specificato `territorio alleato e neutrale''' (32). Numero degli obiettivi e ben tre categorie di opzioni al di là delle "Major Attack Options", garantiscono che almeno da parte americana c'è la volontà di prepararsi a un conflitto nucleare abbastanza prolungato. Il che ci riconduce al C3I, il cui grado di flessibilità e sofisticatezza dipende appunto, nelle parole di Brown, da ``quante opzioni strategiche diverse devono essere disponibili e per quanto tempo''.
La coscienza che appena ci si incammina sulla strada della risposta flessibile si diventa molto esigenti in fatto di C3 è coeva alle prime critiche della ritorsione massiccia. Nel dicembre del 1962, John McNaughton, l'allora "Assistant Secretary of Defense", sosteneva che gli sforzi americani per migliorare le capacità di comando e di controllo ``..sono volti ad assicurare che le forze statunitensi possano essere usate o meno, a seconda dei casi, in modo controllato e consapevole, sempre sotto la direzione della più alta autorità civile'' (33).
Ancora alla Rand, prima di diventare segretario, Schlesinger scriveva che una nuova, credibile dottrina ``...richiede forze superprotette per la deterrenza nel corso delle ostilità ("intra-war deterrence"), capaci di sopravvivere a lungo e con eccellenti comunicazioni e controllo. Richiede, nelle missioni controforza, la capacità di valutare i danni - e di riassegnare vettori sugli obiettivi - con ciò rendendo più ardui i requisiti per il sistema di comando, controllo e comunicazioni'' (34).
Quanto alle amministrazioni Carter e Reagan va detto che sia la PD-59 che la NSDD-13 sono state precedute da altri documenti, PD-58, PD-53 e NSDD-12, che hanno a che fare col C3I. Secondo il "New York Times", la presente amministrazione americana punta a forze strategiche e sistemi di C3 in grado di sostenere ``..contrattacchi nucleari controllati per un tempo protratto, mantenendo al contempo una riserva di forze nucleari sufficienti a garantire la deterrenza e l'intimidazione ("protection and coercion") durante e dopo l'attacco''; i sistemi di comunicazione ``...devono assicurare la capacità di eseguire piani ad hoc, anche dopo ripetuti attacchi... questi sistemi dovrebbero sostenere la ricostituzione e l'impiego delle forze strategiche di riserva, in particolare la piena comunicazione con i sottomarini strategici'' (35). In altri termini ``Il presidente (Reagan) ritiene che un moderno sistema di comando debba resistere a un attacco nucleare e continuare a funzionare per altri sei mesi'' (36).
10. Scenari di guerra nucleare limitata
Che il sistema di controllo delle forze nucleari americano sia sofisticato, e certamente complesso, dovrebbe esser risultato chiaro dalla sommaria descrizione dei paragrafi precedenti. Che sia flessibile quanto la risposta flessibile richiede, è un altro paio di maniche. Nelle pagine che seguono tenteremo di valutare tutti fattori, compreso il C3I, che influenzano la possibilità di tradurre in pratica la dottrina strategica americana.
Per far ciò occorre figurarsi un attacco, fare uno scenario. Si tratta necessariamente di un attacco limitato: la necessità di disporre di opzioni limitate per rispondere ad attacchi limitati è ciò che ha guidato l'evoluzione della strategia nucleare americana, la qual cosa ha a sua volta reso necessario un C3I longevo e robusto - lo abbiamo appena visto.
Si può allora pensare a un attacco sovietico sul territorio degli Stati Uniti, portato con un pugno di testate sulle zone meno densamente popolate e che, per caso o per scelta, risparmi i gangli fondamentali del sistema di controllo. A un attacco siffatto il presidente statunitense potrebbe rispondere con la più limitata tra le opzioni del SIOP; una risposta presumibilmente simile all'offesa ricevuta. Di questo passo, forse, lo scambio potrebbe protrarsi per i sei mesi per i quali l'amministrazione Reagan intende attrezzarsi. E' uno scenario talmente insensato che c'è da vergognarsi a parlarne: che vantaggi avrebbero da cavare i sovietici da una ``guerra'' così impostata? E che vantaggi ricaverebbero gli americani dal limitare la ritorsione? Chi scrive non crede che esistano risposte.
Tenendo anche conto del fatto che quel che si conosce della dottrina sovietica porta ad escludere ``mosse d'apertura'' come quella appena menzionata, uno scenario del genere ha scarso peso sulla letteratura. Scarso ma non nullo.
``Se l'Unione Sovietica dovesse, per qualche ragione, lanciare un attacco con 50 armi nucleari che uccidesse un milione di americani - ha scritto Harold Brown - gli aderenti di questa dottrina (dal contesto Brown si riferisce al MAD) consiglierebbero al presidente di sferrare un attacco totale che ucciderebbe 100 milioni di sovietici e provocherebbe una risposta sovietica che ucciderebbe altrettanti americani?'' (37). Sembra proprio che il punto chiave in questo contorto ragionamento sia quel ``per qualche ragione''. Per qualche ragione i sovietici, o chi per loro, possono fare tutto, anche cose insensate. In qualche modo è necessario assumere la razionalità della controparte; altrimenti si finisce per pretendere da una dottrina nucleare ``razionale'' che dissuada anche da atti di irrazionalità.
Uno scenario altrettanto peregrino ma di grande successo, sino a qualche anno fa, è quello dell'attacco controforza contro i siti degli ICBM. Sarebbe un attacco limitato, cui rispondere in modo altrettanto limitato? ``Nel caso di un attacco sovietico contro i 1.054 silos di ICBM, le stime del numero delle vittime variano da 800.000 a 50 milioni'' (38). La cifra più bassa risulta da uno studio del Pentagono presentato al Congresso nel settembre del 1974. Gli assunti erano molto ottimistici e le critiche si sprecarono. Al punto che, l'anno dopo, il Dipartimento della difesa rifece i calcoli e concluse che i morti sarebbero stati 18,3 milioni. La stima più alta è il risultato, invece, di uno studio di un organismo governativo, l'Arms Control and Disarmament Agency (ACDA).
Un attacco controforza sovietico esaustivo non si limiterebbe comunque ai siti di ICBM: vi rientrerebbero le basi dei bombardieri e dei sottomarini, i centri di comando e controllo e i depositi di armi nucleari. Il già citato studio del 1975 indicava in 21,7 milioni il numero di morti che ne potrebbe risultare; mentre uno studio più recente, fatto da tre ricercatori dell'Università di Princeton, stima il numero di vittime tra i 13 e i 34 milioni, tra il fallout e gli effetti diretti delle esplosioni, senza contare quelli a medio-lungo termine (39).
E' pur vero che ognuno è libero di considerare ``limitato'' ciò che preferisce. Tuttavia è lecito dubitare che sarebbe questa l'interpretazione data ai numeri appena visti da un paese che in tutte le guerre combattute negli ultimi due secoli ha perso un milione e duecentomila uomini, senza aver sofferto vittime civili, se non nella guerra di secessione. D'altronde Harold Brown, nel suo rapporto annuale al Congresso del gennaio 1979, scrisse: ``Io stesso continuo a dubitare che a un attacco sovietico sulle nostre forze strategiche, i cui danni collaterali comportassero `solo' qualche milione di morti tra gli americani, si potrebbe appropriatamente rispondere senza includere tra gli obiettivi qualche centro urbano-industriale'' (40). Si tenga presente che, rispondendo su obiettivi urbano-industriali, salterebbe sin dall'inizio ogni pretesa di mantenere limitata la guerra nucleare.
Queste considerazioni tengono a maggior ragione se si invertono i ruoli: ``Gli effetti collaterali di un attacco controforza americano contro l'Unione Sovietica sono probabilmente maggiori di quelli di un attacco controforza sovietico... Circa la metà dei 26 siti sovietici di ICBM si trova a ovest degli Urali, e diversi di loro sono vicini ad alcune delle aree più popolate dell'URSS. L'impatto potenziale di questo schieramento è reso più acuto dal regime dei venti sovietici'' (41).
Tornando all'ipotesi di un attacco sovietico, va detto che la dottrina di quel paese incoraggia il più esaustivo degli attacchi controforza possibili. Seppure in base a diversi presupposti e con una diversa terminologia (42), anche i sovietici mettono la deterrenza al primo posto tra gli obiettivi della loro politica strategica. Tuttavia, se la deterrenza fallisce, l'Urss si riserva di impiegare subito, massivamente e in via preliminare (in a "preemption mode") le proprie forze nucleari, allo scopo di degradare quelle avversarie e limitare i danni alla propria parte. A modo loro, dunque, anche i sovietici credono alla "damage limitation" e agli attacchi controforza. Ma la similitudine con le concezioni americane si ferma qui, essendo l'uso massivo il contrario degli attacchi selettivi tanto cari alla loro controparte. Difatti, ``Nella letteratura sovietica concetti come l'escalation controllata e la guerra nucleare limitata non vengono presi seriamente in considerazione'' e, tanto più importante per il tema
di questo capitolo, ``L'idea americana di astenersi da attacchi ai centri di comando e controllo, almeno nella misura in cui tali centri servono a controllare l'escalation e condurre i negoziati, non figura nella dottrina militare sovietica'' (43).
11. C3I e guerra nucleare limitata
Il primo problema di C3I per la conduzione di una guerra nucleare limitata e strettamente controllata dal centro, sorgerebbe a causa della notevole vulnerabilità dei principali posti comando, fissi e aeroportati, a un attacco di SLBM e/o ICBM. Tra gli obiettivi vi sarebbero, molto probabilmente, anche le basi che ospitano gli aerei per il rifornimento in volo - col risultato che il tempo di permanenza in aria di velivoli tipo "Looking Glass" ne risulterebbe fortemente ridotto.
Di tutte le altre questioni relative alla vulnerabilità della NCA e alla sua problematica successione abbiamo già parlato. Un importante corollario, comunque, riguarda i negoziati per chiudere le ostilità: si ricorderà, infatti, che la dottrina americana punta a finire la guerra prima dell'apocalisse, possibilmente a condizioni vantaggiose. Con chi ``tratterebbero'' gli attaccanti? Chi potrebbe dirsi in controllo della situazione? Un generale dell'Aeronautica o un contrammiraglio? Come potrebbero svolgersi tali trattative, una volta saltata la "hotline"? Va anche ricordato che la questione vale nei due sensi: tra le quattro categorie di obiettivi del SIOP-5D c'è la leadership politi-comilitare. Se gli Usa si valessero di tali opzioni non è chiaro con chi, poi, potrebbero discutere il cessate il fuoco.
Anche le funzioni di "early warning" possono essere facilmente compromesse. I tre satelliti del DSP, oltre alla loro intrinseca vulnerabilità - ma di ciò tratteremo a parte - si giovano di stazioni a terra che non sono né possono essere protette dagli effetti di esplosioni nucleari, convenzionali o da semplici atti di sabotaggio. Della stessa vulnerabilità soffrono i radar a terra. Tra l'altro, a parte i tre del BMEWS, essi sono tutti collocati presso basi di bombardieri, di ICBM o di aerei-cisterna - il che semplifica i calcoli di un attacco controforza sovietico.
Si dirà che un attacco ai sistemi di allarme equivale a, o è una forma di, allarme - e questo è certamente vero. Ne risulterebbero annullate, tuttavia, le già scarse capacità di graduare la risposta sulla scala e gli obiettivi dell'attacco avversario, il che è un caposaldo dell'escalation controllata.
Abbiamo parlato di scarse capacità di graduare la risposta, perché alquanto precari sembrano essere mezzi per valutare l'attacco ("attack assessment"). Il compito spetta al NORAD, il cui quartier generale, malgrado sia stato scavato ``dentro'' Mount Cheyenne in Colorado, viene considerato vulnerabile. Se il NORAD cessa di funzionare, oppure non è più in grado di comunicare con gli altri posti comando, questi ultimi continuano sì a ricevere i dati dei sensori di "early warning", ma non possono processarli. In condizioni ideali, invece, due grossi ostacoli impediscono un'accurata caratterizzazione dell'attacco. Il primo è la limitatezza dei sensori: né i satelliti del DSP, né i radar sono in grado, in caso di un attacco che comporti più di qualche missile, di discriminare le testate dai vettori, determinare il numero e predire i punti d'impatto (cioè gli obiettivi). Solo il PARCS ha una limitata capacità di seguire la traiettoria delle testate (poche decine); ma non riesce a stabilire con certezza gli obiettiv
i. Per di più il PARCS ha un raggio d'azione limitato: gli ICBM attaccanti sarebbero già a due terzi del loro viaggio e il tempo rimasto per fruire delle pur limitate predizioni di questo radar sarebbe dell'ordine di dieci minuti. Infine il NORAD è, a quanto sembra, male attrezzato per il processamento dei dati - quale che sia la qualità di questi ultimi. La causa va ricercata nella decisione presa dal Pentagono negli anni '70 - su proposta del NORAD stesso - di acquistare un computer Honeywell della serie 6.000; computer che lavora in "batch processing", una procedura estremamente lenta. In seguito sono stati tentati dei correttivi, ma ``L'effetto netto dello sforzo di sviluppo del computer del NORAD è stato quello di realizzare per gli anni '80 un sistema rabberciato che, quando funziona, equivale a stento all'impianto degli anni '60 che doveva rimpiazzare'' (44).
Come si vede c'è, in tutto il problema del C3I, un ineliminabile vincolo: il tempo. Anche ammettendo che nel prossimo futuro il NORAD si doti di un computer più sofisticato e i vari sensori di "early warning" siano in grado di sfornare tutti i dati occorrenti a caratterizzare l'attacco - anche ammettendo questo, non c'è modo di comprimere il tempo della decisione politico-militare. Dal momento in cui un SLBM esce dall'acqua all'impatto sull'obiettivo, possono intercorrere meno di dieci minuti; il corrispondente intervallo dall'uscita di un ICBM dal proprio silo è mezz'ora circa. Entro questi limiti la NCA è chiamata a riunirsi, assimilare le psicologicamente devastanti informazioni che le arrivano, scegliere ``razionalmente'' la risposta più adeguata tra le opzioni del SIOP e ordinarne l'esecuzione. Sembra probabile che, in simili condizioni, la scelta si ridurrebbe all'alternativa tra rispondere massivamente e non rispondere affatto, sapendo che in quest'ultimo caso la ritorsione verrebbe decentrata ai mili
tari più a valle lungo la linea di comando.
Il fattore tempo influenza la praticabilità di una delle opzioni del SIOP: il lancio su allarme degli ICBM.
In altri termini ``troppe cose devono accadere in meno di venticinque minuti: l'allarme tattico dovrebbe essere processato lungo la catena di comando; il presidente dovrebbe riceverlo, crederlo vero, e autorizzare il fuoco; l'autorizzazione dovrebbe essere trasmessa e confermata agli equipaggi addetti al lancio dei missili, i quali, prima di premere il pulsante, dovrebbero crederci. Sulla carta tutto ciò può essere fatto nel tempo disponibile; nel vivo di una crisi, con gente atterrita di fronte all'apocalisse, una sequenza così rapida e senza intoppi è scarsamente concepibile'' (45).
Riassumendo, la vulnerabilità dei sistemi di allarme, la loro bassa capacità di valutazione dell'attacco e tempi strettissimi per la decisione politico-militare, sono tutti fattori che mettono fortemente in dubbio la praticabilità di una risposta controllata. Il risultato è che i presupposti della vigente dottrina strategica americana appaiono sin dall'inizio scarsamente realistici.
Gli apparati per le comunicazioni - sempre lasciando da parte, per ora, i satelliti - condividono quel tipo di vulnerabilità agli effetti termici e dinamici delle esplosioni nucleari, agli effetti delle esplosioni convenzionali o agli atti di sabotaggio che è tipica delle grosse installazioni fisse - spesso dotate di ampie antenne e altre apparecchiature altrettanto esposte. In alcuni casi non c'è nemmeno bisogno di arrivare alla distruzione fisica degli impianti riceventi e trasmittenti. Quel che importa è rendere inintellegibile, disturbandolo, il contenuto delle comunicazioni. Alcune frequenze e certi apparati resistono meglio alle contromisure elettroniche. In generale, tuttavia, ``Le forze militari sovietiche hanno una gamma formidabile di congegni di disturbo; unità per la guerra elettronica dotate di equipaggiamenti per la ricerca delle fonti radio e il disturbo partecipano alla gran parte delle operazioni militari sovietiche'' (46).
Un posto a parte, tra gli effetti delle esplosioni nucleari sulle comunicazioni, merita l'impulso elettromagnetico (EMP). La forza dell'EMP si misura in volt per metro (V/M) e, in generale, è direttamente proporzionale alla potenza della testata e all'altezza dell'esplosione. L'EMP trova in molti elementi del sistema di controllo i migliori conduttori: antenne, fili elettrici, cavi telefonici, torri di sostegno, rotaie, carlinghe in alluminio degli aerei. L'effetto dell'impulso varia da un guasto temporaneo di un'apparecchiatura (sbalzi nella potenza assorbita da un impianto elettronico possono, ad esempio, interromperne il funzionamento grazie proprio alle misure di autoprotezione che esso di solito incorpora) sino alla rottura di un componente come un fusibile o un transistor. Il vero problema, comunque, sembra essere rappresentato dal fatto che ``Una sola esplosione a 200 miglia di altezza sopra il centro degli Stati Uniti continentali, darebbe luogo a EMP su tutto il paese e su parti del Canada e del Mes
sico. Pochissime testate - certo meno di cinque - potrebbero azzerare le comunicazioni in tutti gli Stati Uniti con 50-100.000 V/M'' (47). Varie misure di protezione contro l'EMP vengono prese ed esse riguardano un po' tutti gli elementi del C3I americano. E' però assai dubbio che si possa arrivare a rendere il sistema, nel suo complesso, in qualche modo indifferente all'impulso.
12. I sottomarini strategici (SSBN)
A nessun osservatore della politica strategica statunitense può sfuggire che i sottomarini lanciamissili balistici sono la chiave per capire tale politica. Detto in termini un po' crudi, essi esemplificano l'andamento dissociato che tanti si sforzano di evidenziare nelle scelte strategiche di Washington.
Dei sottomarini in pattugliamento - e la metà degli SSBN Usa è sempre in tali condizioni, contro il 20% dei sovietici - si sa che sono praticamente invulnerabili, anche a causa - di nuovo nel caso americano - delle non eccezionali capacità sovietiche nella lotta antisommergibile. Per contro, e per le ragioni che stiamo per vedere, gli SLBM sono le forze nucleari che peggio si prestano alla messa in pratica della dottrina vigente. Una dottrina che si basa sulla capacità di controllare la guerra nucleare, sull'autolimitazione nell'uso della forza, su attacchi non spasmodici ma limitati in intensità, scopo e dimensioni, capaci di comunicare razionalità e disponibilità all'accomodamento a scapito della ``bruta'' vendetta.
I responsabili della pianificazione strategica americana, tuttavia, messi di fronte alla scelta tra l'invulnerabilità tipica degli SLBM e le caratteristiche (accuratezza, capacità di variare gli obiettivi, facilità di comunicazioni, modulazione dell'attacco ecc.) degli altri sistemi d'arma nucleari più consone ai requisiti della dottrina, hanno sempre optato per la prima. Tanto è vero che più della metà delle testate statunitensi montate su vettori strategici equipaggiano gli SLBM. Va detto, comunque, che tutto il dibattito su questa questione è spesso viziato da una sopravvalutazione della vulnerabilità di ICBM e bombardieri.
Come nel caso degli ICBM, anche l'accuratezza degli SLBM è andata aumentando al succedersi delle varie generazioni di missili. Il "Trident" D-5, di prossima entrata in servizio nell'arsenale americano, sarà il primo SLBM ufficialmente accreditato di capacità controforza. Questo risultato, comunque, si deve solo in parte ai progressi nei sistemi di guida del missile stesso. Nel caso degli SLBM un ruolo chiave viene svolto da sistemi estranei sia al vettore che al sottomarino: si tratta dei satelliti di navigazione. Per centrare un obiettivo che non si vede, occorre sapere da dove si sta sparando. E saperlo con molta precisione, perché un errore relativo alla propria posizione, si riverbera sull'obiettivo. Tale precisione viene assicurata, appunto, dai satelliti.
In tempo di pace, evidentemente, quasi non c'è problema. In guerra è un po' diverso. In primo luogo non sempre il sottomarino si trova a navigare in un punto coperto dall'orbita del satellite. Secondo: le comunicazioni, dirette o via stazioni a terra, avvengono sulle alte frequenze (VHF e UHF); per riceverle l'unità deve far emergere per alcuni minuti un'antenna, col rischio di rivelare la propria posizione. Terzo: sia il satellite che le stazioni a terra sono vulnerabili. Se, come appare probabile in uno scambio nucleare ``prolungato'', viene reciso il cordone ombelicale con i satelliti di navigazione, la possibilità di eseguire attacchi di precisione chirurgica con gli SLBM viene pressappoco annullata.
L'ultima generazione di SSBN americani, classe "Ohio", ha 24 pozzi di lancio per altrettanti missili. Ogni missile ha otto, nel caso del "Trident" C-4, oppure dieci, nel caso del prossimo "Trident" D-5, testate. Si arriva così a 192, col C-4, oppure a 240, col D-5, testate per sottomarino. E' presumibile che i missili di un sottomarino verrebbero usati tutti assieme - compatibilmente con i tempi tecnici dell'operazione - perché una volta lanciatone uno la piattaforma diventa individuabile e perciò vulnerabile. E' però molto difficile che un attacco con 192-240 testate venga interpretato dai sovietici come un attacco limitato.
Le comunicazioni più sicure con i sottomarini avvengono sulle basse frequenze. Esse sono sicure perché più la frequenza è bassa e meglio penetra l'acqua, consentendo al sottomarino di non esporsi. Inutile aggiungere che le stazioni che trasmettono in VLF da terra - quelle principali sono tre - sono estremamente vulnerabili.
Anche i posti comando aeroportati, come "Looking Glass", e gli aerei "Tacamo" della Marina, tuttavia, possono trasmettere in VLF. Ma non è un'operazione semplice. A parte la già discussa vulnerabilità di questi aerei, nonché i loro bassi tempi di permanenza in volo, un problema tutto particolare è rappresentato dall'antenna loro necessaria per trasmettere in VLF. Un'antenna lunga chilometri e del peso di una tonnellata: ``Sfortunatamente è anche difficile volare con un'antenna così pesante a rimorchio, oltretutto evitando che oscilli. A causa della notevole trazione creata dall'antenna, anche quando è svolta solo parzialmente, l'aereo deve volare diritto e a quota costante, oppure deve virare molto dolcemente, per tenerla stabile. Se comincia tuttavia ad oscillare, si può staccare o costringere l'equipaggio a tagliarla (il secondo pilota e l'addetto all'antenna hanno i congegni per farlo)... L'aereo non ha un'antenna di ricambio'' (48).
L'ultima forma di comunicazione con gli SSBN è via l'ERCS. Essendo montato su missili "Minuteman" e insieme ad essi schierato, il sistema è una delle probabili vittime di un attacco controforza sovietico. Anche qualora riuscisse ad essere lanciato, comunque, l'ERCS trasmette in VHF, riproponendo i problemi già visti. Per giunta il tipo di messaggio di questo sistema, l'EAM, è un semplice ``via!'' ("Go code") - un po' poco per i requisiti dell'escalation controllata.
In definitiva, dunque, gli SSBN hanno un set di obiettivi molto limitato e scarsa capacità di cambiare tali obiettivi; se arriva loro un messaggio in una crisi acuta, esso è un semplice ordine di lancio del quale non possono nemmeno accusare ricevuta o chiedere conferma senza esporsi irreparabilmente; se non arriva loro alcun messaggio per un tempo prolungato ciò equivale ad un ordine di lancio, perché è probabile che l'equipaggio deduca che c'è stato un attacco sugli Stati Uniti; non essendoci PAL, come abbiamo visto, se l'equipaggio decide di lanciare può farlo; una volta lanciato un missile vanno lanciati tutti.
13. Satelliti e anti-satelliti
Distinguendo i satelliti in base alle missioni che svolgono, si può dire che i satelliti importanti per il C3I sono di quattro tipi: da comunicazione, da ricognizione e sorveglianza, da navigazione, meteorologici. Solo la quarta categoria non è già stata introdotta. Tutto quel che occorre sapere, comunque, si riassume nel fatto che particolari condizioni atmosferiche possono avere un impatto sulle prestazioni di certi sistemi d'arma - dai bombardieri ai missili balistici. Torna utile ai militari, pertanto, disporre di dati aggiornati al riguardo.
Un satellite che non può svolgere la propria missione è inutile, anche se intatto. Alcuni mezzi per limitare o annullare le missioni dei satelliti, senza distruggerli, li abbiamo già visti: l'attacco alle stazioni a terra, il disturbo elettronico. Un altro sistema è l'inganno ("deception"): un esempio è la messa in cifra delle emissioni telemetriche durante i voli di prova dei missili balistici, che appunto inganna i satelliti di intelligence e avvelena gli animi alla "Standing Consultative Commission" (SCC) - l'organismo dove sovietici ed americani discutono dei casi di apparente violazione del SALT. Un altro esempio è il sempre possibile ``accecamento'' dei satelliti da "early warning", saturandone sensori all'infrarosso con una grossa fonte di calore. Infine esplosioni nucleari sopra o ai limiti dell'atmosfera possono produrre, oltre all'EMP, danni diretti ai satelliti situati alle orbite più basse.
Numerosi sono anche i mezzi, attuali o possibili, per attaccare e distruggere i satelliti. I missili antimissili balistici (ABM) possono essere usati come antisatelliti (ASAT): l'Urss ne ha uno operativo, il "Galosh", mentre gli Usa dovrebbero avere, magari in magazzino, lo "Spartan" - in più gli americani hanno sperimentato un intercettore non nucleare di missili balistici dal nome complicato di "Homing Overlay Experiment" (HOE). ICBM e SLBM possono essere programmati per far esplodere le testate all'apogeo della loro traiettoria, circa 1.400 km di altezza, con risultati simili a quelli che si possono ottenere usando un missile ABM nucleare.
Laser basati a terra possono, forse sin da ora, danneggiare i satelliti alle orbite basse. Infine esiste la possibilità di mine spaziali - satelliti già in orbita, da far esplodere accanto al satellite-vittima al momento opportuno. Che vi siano già nello spazio delle mine è abbastanza improbabile, giacché il movimento parallelo di un satellite estraneo a uno amico difficilmente potrebbe sfuggire a chi possiede quest'ultimo.
C'è infine l'ASAT propriamente detto, cioè i sistemi d'arma sviluppati allo scopo specifico della lotta antisatellite. Urss e Usa hanno un ASAT ciascuno.
Il sistema sovietico funziona con un principio analogo a quello delle mine: esso deve essere prima messo in orbita e poi manovrato in prossimità del satellite-vittima. A quel punto l'ASAT esplode, e i suoi frantumi si suppone danneggino sino a incapacitare l'obiettivo. Tra il 1968 e il 1982 l'Urss ha effettuato 20 test del proprio ASAT: le stime più benevole indicano in 13 le prove conclusesi con successo. Tra i sette falliti ve ne sono ben sei in cui l'intercettore veniva sperimentato con un sistema di guida terminale agli infrarossi, invece che al radar come negli altri casi. Il sistema è stato sperimentato ad altitudini comprese tra 200 e 1.000 km: vi rientrano, come potenziali vittime, i satelliti americani da fotoricognizione e alcuni da navigazione e meteo. Non vi rientrano, invece, i satelliti da navigazione "Navstar" e i quattro satelliti meteo GOES.
Il sistema americano consta invece di un missile a due stadi - il primo stadio è il missile AGM-69, il secondo il razzo "Altair" della Thiokol. Su quest'ultimo è montata una testata, detta "Miniature Homing Vehicle", dotata di un sistema di guida agli infrarossi e del peso di 1.200 kg. La testata non esplode, ma distrugge il satellite-vittima ad impatto. Tutto il sistema è lungo 5 metri e largo 50 cm. E' montato su un caccia F-15 che lo lancia da un'altezza di 10-15 km. Sommando a questa il raggio d'azione dei due stadi si arriva a presumere che l'ASAT americano possa colpire fino a 475 km, tenendo quindi sotto tiro i satelliti sovietici da ricognizione fotografica, quelli da sorveglianza oceanica e, forse, alcuni da comunicazione. Diciamo forse perché questi ultimi sono su un'orbita fortemente ellittica, detta "Molnyia" proprio dal nome di questi satelliti sovietici: mentre l'apogeo, a 40.000 km, è chiaramente fuori dalla portata di qualsiasi ASAT odierno, il perigeo è a soli 440 km. Tuttavia quando il sate
llite è a quest'ultima altezza viaggia pure al massimo della velocità - complicando non poco la missione dell'ASAT. In linea teorica, comunque, l'ASAT americano può farcela a colpire un satellite al perigeo della sua orbita "Molnyia", essendo basato sul principio dell'attraversamento dell'orbita. Quello sovietico no: essendo co-orbitale può sì portarsi al perigeo, ma non riesce a toccare la velocità necessaria per avvicinarsi al satellite-vittima. I satelliti sovietici da "early warning" sono anch'essi su un'orbita "Molnyia", con perigeo a 688 km. Per renderli vulnerabili gli americani dovrebbero aumentare il raggio d'azione del proprio ASAT - cosa sulla quale stanno già lavorando.
Un altro vantaggio del sistema americano è che la sua piattaforma di lancio, l'F-15, è molto flessibile. Per tornare all'esempio dei satelliti sovietici in orbita "Molnyia", il loro perigeo passa per l'emisfero Sud, dove è sempre possibile trovare una base per un F-15 con l'ASAT a bordo. Il sistema sovietico è molto meno flessibile. Per illustrare questo punto, Ashton Carter ha immaginato un attacco ai satelliti da navigazione americani TRANSIT, che sono su orbite polari a 1.100 km di altezza. ``L'ASAT sovietico - scrive Carter - è stato sperimentato a questa altezza ma mai in orbita polare; faremo conto, tuttavia, che la cosa non comporti problemi aggiuntivi. I cinque satelliti TRANSIT sono disposti su cinque piani orbitali a circa 36 gradi l'uno dall'altro. L'ASAT sovietico deve attendere che la rotazione terrestre porti il centro di lancio di Tyuratam sotto l'orbita del satellite-obiettivo; il che succede circa ogni due ore e mezza. Anche se l'ASAT sovietico potesse essere lanciato a questo ritmo, ci vorr
ebbero dodici ore perché Tyuratam passi sotto tutti e cinque i piani orbitali. Nel frattempo gli Stati Uniti si accorgerebbero sicuramente dell'attacco in corso contro i propri satelliti da navigazione. Quanto può essere utile ai sovietici una capacità del genere?'' (49).
I colloqui sulla messa al bando delle armi antisatellite ristagnano. L'amministrazione americana sembra avere scarso o nullo interesse in proposito. Il Congresso insiste invece per una moratoria sui test dell'ASAT moratoria che i sovietici osservano dal 1982 - senza peraltro riuscire a convincere l'esecutivo. L'ultimo test del sistema americano risale all'agosto del 1985.
Il C3I americano dipende più di quello sovietico dal funzionamento di un numero limitato di satelliti. ``Perciò, dov'è il vantaggio netto degli Usa - nel far sì che i satelliti operino da ambo le parti secondo una legge, o nel promuovere un'era di vulnerabilità per tutti i satelliti?'' (50). La risposta sembrerebbe scontata, ma evidentemente non e così. In primo luogo, probabilmente osservando le odierne capacità della controparte, gli americani si sentono in grado di vincere una corsa all'ASAT o, più in generale, alla militarizzazione dello spazio. I militari Usa hanno poi preoccupazioni specifiche. A quanto pare ``Il motivo ufficiale per far ripartire il programma ASAT americano è stato il bisogno di rendere vulnerabili i satelliti sovietici da sorveglianza oceanica'' (51), in quanto questi possono servire a dirigere il tiro sovietico sui gruppi della Marina Usa centrati sulle portaerei. Anche in questo caso, quindi, altre considerazioni hanno la priorità sull'esigenza di assicurare alla dottrina strategic
a americana i mezzi per la sua attuazione.
14. I nuovi programmi di C3I Usa e la guerra nucleare limitata
Quali sono le implicazioni pratiche della vulnerabilità del sistema americano di C3I strategico?
``Occorrerebbero solo 50-100 testate - ha scritto Desmond Ball - per mettere fuori causa le installazioni fisse del sistema nazionale di comando o per incapacitare gli anelli di comunicazione tra la "National Command Authorities" e le forze strategiche'' (52).
Secondo Bruce Blair, invece, ``Al 1985 le forze strategiche sovietiche erano in grado di colpire praticamente tutti i centri di C3I basati a terra... Esistono non più di 400 obiettivi primari e secondari negli Usa, compresi i 100 centri di controllo del lancio dei "Minuteman". Con 7.000 testate capaci di arrivare a destinazione nel loro arsenale strategico i pianificatori militari sovietici possono facilmente assegnare due testate su ogni obiettivo americano di C3I'' (53).
Molti degli attuali programmi di modernizzazione non riusciranno ad alterare di molto la situazione appena vista. Ad esempio i tre radar del BMEWS - in Groenlandia, Alaska e Gran Bretagna - per quanto si possano giovare nel prossimo futuro della tecnica "phased array", sono destinati a rimanere delle grosse, fisse, vulnerabili installazioni. Stesso discorso per gli altri due "Pave Paws" in costruzione, uno alla base aerea di Goodfellow nel Texas, l'altro in quella di Robins in Georgia.
I "Tacamo" della Marina passeranno sull'E-6A (B-707), il che potrà portarne il tempo teorico di permanenza in volo sullo standard di "Looking Glass", ma non certo eliminare il resto dei problemi di comunicazione coi sommergibili che abbiamo visto; tra l'altro sull'E-6A verranno trasferite di peso le apparecchiature dei C130, né più né meno.
La "Distant Early Warning Line" per l'allarme contro bombardieri verrà rinnovata con 13 nuovi radar AN/FPS-117 a lungo raggio, più 39 radar a corto raggio in Canada. Molti si chiedono quanto questo sforzo sia opportuno: i sovietici hanno un numero esiguo di bombardieri e il Pentagono dispone di diversi altri mezzi per individuarne l'attacco - dai satelliti da ricognizione a quelli da ELINT e COMINT.
E' appena agli inizi, invece, un ennesimo programma centrato sui radar, del tipo "Over The Horizon/Backscatter" (OTH/B). Il sistema opera sulle lunghe distanze - al di là dell'orizzonte, appunto - facendo ``rimbalzare'' contro la ionosfera i segnali radar: in questo modo vengono colti anche oggetti volanti a bassa quota. L'OTH/B è l'ideale per l'allarme contro i bombardieri, ma non può essere installato al Nord - dove passa la via più corta per bombardare gli Usa dall'Urss, - perché nella regione artica le anomalie elettromagnetiche sono molto comuni e la ionosfera è instabile. Quando i vari siti di radar OTH/B saranno pronti nel prossimo decennio, essi copriranno ogni possibile rotta d'attacco contro gli Stati Uniti continentali, ``... eccetto... la direzione dalla quale è più probabile che arrivino bombardieri sovietici'' (54). Essi offriranno ai sovietici, comunque, solo un pugno di obiettivi vulnerabili in più.
La vera minaccia cui l'OTH/B è chiamato a far fronte non sono i bombardieri, tuttavia, ma i missili da crociera. E' una minaccia non immediata, ma certo prevedibile: i sovietici, al solito, stanno facendo ogni sforzo per colmare il divario con gli americani in questo settore. Sui missili da crociera molti commenti hanno esagerato nel minimizzare, sostenendo che la loro relativa lentezza ne consente l'individuazione e quindi la neutralizzazione da parte delle difese aeree. In realtà le dimensioni ridotte e le basse quote di volo rendono tutto ciò molto arduo, se non impossibile. I militari, da entrambe le parti, lo sanno e prendono le misure del caso. Alcune di queste stanno alimentando la polemica sul rispetto degli accordi.
La costruzione di un grosso radar "phased array" nella Siberia centrale, a Krasnojarsk, è il caso di violazione sovietica meno controvertibile addotto dagli americani - all'art. VI del Trattato ABM, ciascuna delle parti si è impegnata a ``non schierare in futuro radar per l'allarme da un attacco di missili balistici strategici, eccetto in siti lungo la periferia del suo territorio nazionale e orientati verso l'esterno''. Pochi hanno notato, tuttavia, che gli Stati Uniti stanno incorrendo nella stessa violazione, presumibilmente per gli stessi motivi, con i due nuovi "Pave Paws" in Georgia e in Texas. ``Il primo di questi radar sarà a 260 km dalla costa atlantica e il secondo a 200 km dal confine messicano e due volte tanto dal golfo del Messico. Se fossero stati installati più vicino alla costa, anche questi radar sarebbero stati più vulnerabili ad un attacco preliminare di missili da crociera lanciati dal mare del tipo che forse ha motivato la costruzione del radar nei pressi di Krasnojarsk. Le nuove instal
lazioni radar americane si possono considerare entrambe una trasgressione dell'ABM "Treatry" non solo per la loro ubicazione `nell'entroterra', ma anche perché il loro campo visivo combinato potrebbe coprire ben due terzi degli Stati Uniti continentali. Per questa ragione l'Unione Sovietica ha accusato ufficialmente gli Stati Uniti di violazione del trattato (55).
Molti ancora sono i nuovi programmi di C3I strategico impostati da questa amministrazione. I satelliti del DSCS vengono aggiornati continuamente: si è ora alla terza generazione, versione B, ``con maggiori capacità anti-disturbo e più ridondanza tra i componenti'' secondo la descrizione di "Aviation Week and Space Technology" (56). Sempre per le comunicazioni è in corso di sviluppo il MILSTAR, un satellite destinato ad operare su orbite più alte di quella geosincrona, a 100-120 km di altezza. Il MILSTAR userà le altissime frequenze - la porzione più bassa delle EHF ("extremely high frequencies") e quella più alta delle SHF. Lo scopo di alcune di queste misure è più chiaro se si tiene conto che più in alto è un satellite, più è al riparo da eventuali ASAT e che i sovietici non hanno tecniche di "jamming" in EHF. Tre satelliti, comunque, formeranno l'intera rete. I critici di questa decisione sostengono che sarebbe stato meglio puntare sulla ridondanza - ad esempio con un grande numero di satelliti più semplic
i, oppure proliferando su ogni tipo di satellite dei trasponditori in UHF, come già fa AFSATCOM - che su pochi sistemi costosi e ultrasofisticati. Nell'immediato gli Usa hanno anche un problema di non disponibilità di vettori con cui mettere in orbita satelliti di ogni tipo: il 28 gennaio il disastro del Challenger ha fermato lo Shuttle probabilmente sino all'88; il 18 aprile esplodeva invece il razzo "Titan", causando un'altra pausa di diversi mesi nei relativi lanci. Il segretario all'Aeronautica, Edward Aldridge ha dichiarato recentemente che quando lo Shuttle riprenderà i voli ``si sarà arretrati di 20 missioni del Dipartimento della difesa'' (57). Nel frattempo è probabile venga approvato un programma per un nuovo razzo, di dimensioni simili all'europeo Ariane, che dovrebbe essere pronto per la fine del decennio.
Restano da menzionare due ultimi programmi il "Ground Wave Emergency Network" (GWEN) e i "Mobile Ground Terminals". Il primo sarà un complemento della rete telefonica, composto da un numero altissimo di stazioni riceventi e trasmittenti dette nodi. Ogni nodo ne avrà numerosi altri entro il proprio raggio d'azione e dei sistemi automatici si occuperanno di indirizzare i messaggi secondo il percorso più breve e/o più praticabile. Il secondo programma consta di circa 400 furgoni attrezzati come terminali di "Discus". In entrambi i casi, come si vede, si tenta di porre riparo alla vulnerabilità di certi sistemi moltiplicandone il numero.
Niente dell'attuale sforzo di modernizzazione dei C3I americano, comunque, può essere interpretato come ciò che fa quadrare i conti con la dottrina strategica di quel paese. Sono troppi gli anelli destinati a rimanere deboli - la NCA, i sensori da "early warning", le stazioni a terra per i satelliti ecc. - per pensare che scambi ``controllati'' di testate nucleari possano andare avanti per mesi. Senza contare che la corsa alle contromisure è aperta: come è sempre accaduto in passato i sovietici colmeranno il divario, in questo caso con ASAT per le orbite più alte, o con mezzi per il disturbo delle comunicazioni in EHF, o con altri sistemi ancora, oggi imprevedibili.
``Il concetto di guerra nucleare controllata è essenzialmente astrategico laddove tende a sorvolare su diverse delle realtà che caratterizzerebbero naturalmente ogni scambio nucleare - ha scritto Desmond Ball, aggiungendo - veramente non ci può essere possibilità alcuna di controllare una guerra nucleare... L'allocazione di ulteriori risorse al miglioramento della capacità di sopravvivere e di continuare a funzionare dell'organizzazione di comando e controllo non può alterare sostanzialmente questa situazione'' (58).
Giudizi non meno netti vengono da Bruce Blair: ``Se la deterrenza fallisce, fallisce completamente; lo schema rudimentale e la scarsa capacità di continuare a funzionare del nostro sistema di C3I vanificano tutta l'idea di scambi controforza multipli, sincronizzati e protratti. La ricerca di un margine di vantaggio per mezzo di attacchi limitati è una costruzione puramente intellettuale che ha poca o nulla rilevanza nelle circostanze presenti'' (59).
E' raro imbattersi in prese di posizione così forti nella letteratura specializzata - in particolare quella che ha l'imprimatur dell'Iiss o della Brookings. D'altronde in questo particolare caso il senso comune ha qualche ragione per ribellarsi. Come i quarantamila obiettivi del SIOP-SD o la pretesa di combattere una guerra nucleare per sei mesi.
15. Crisi, guerra e forze nucleari
Tra la pace e la guerra c'è una zona grigia: la crisi. L'ambiguità della situazione-crisi si riflette nell'impossibilità di leggere univocamente gli avvenimenti che la scandiscono: una semplice precauzione può essere interpretata dall'interlocutore come un preludio di un attacco; un gesto teso a mostrare fermezza può essere preso per una provocazione; una mossa distensiva può essere scambiata per indecisione.
L'incubo ricorrente tra gli osservatori dei problemi di sicurezza contemporanei è quello del ripetersi delle speculari mobilitazioni che nel 1914 fecero precipitare nella prima guerra mondiale la crisi seguita all'assassinio di Sarajevo. Al precedente storico, tuttavia, si aggiungono oggi alcune peculiari caratteristiche. La prima e più importante è la presenza delle armi nucleari e ha due facce: la scala delle distruzioni che queste armi possono provocare è terrificante; il tempo necessario a porre in essere tale devastazione è ridottissimo. Occorrevano anni per mettere in ginocchio un altro Stato: ``Le armi nucleari possono farlo rapidamente'' (60). La seconda caratteristica è il prodotto dei giganteschi sistemi di C3I messi in piedi da Usa e Urss: teoricamente essi sono in grado di prendere nota in tempo reale di ogni piccola perturbazione nell'equilibrio delle forze militari avversarie e di prendere repentinamente misure corrispondenti: ``Sotto alcuni aspetti, le forze strategiche americane e sovietiche
si sono combinate in un solo, gigantesco, sistema nucleare'' (61).
Dunque una crisi tra le due superpotenze è destinata ad essere vissuta dai protagonisti come un'immensa minaccia accoppiata ad un senso di urgenza altrettanto immenso. Il risultato probabile è che qualsiasi mossa cautelativa che coinvolgesse le forze nucleari - tipo l'innalzamento della loro allerta - verrebbe interpretata come provocazione ed emulata. Al ``generarsi'' delle forze nucleari si comincerebbero ad allentare i lacci del controllo negativo. Presto si produrrebbe la convinzione che è solo questione di minuti prima che l'altro apra le ostilità. Tanto vale, quindi, limitare i danni per quanto possibile mirando alle forze nucleari avverse e ai suoi centri di C3I. Tutto ciò, si dirà, corrisponde alla dottrina sovietica. E' anche, comunque, una delle opzioni del SIOP, la "preemption" - opzione che gli americani non hanno mai escluso di possedere e che è probabilmente quella che i militari considerano la più realistica in caso di guerra.
I sistemi di C3I americani e sovietici sono penosamente inadeguati per una guerra nucleare lunga e controllata. Vanno invece benissimo per la "preemption". Ad esempio comunicare ai sottomarini l'ordine di lancio non presenta particolari problemi prima di subire un attacco. Nel contesto di un'opzione di attacco preliminare ("preemption attack"), che non può che essere massivo e controforza, disporre di un SLBM come il "Trident" D-5 ha senso. Dopo aver subito un attacco un SSBN torna ad essere, quale che sia il missile a bordo, un sistema troppo poco flessibile per la vigente dottrina Usa.
Tutto ciò non significa che gli americani, o i sovietici non vedano l'ora di attaccare per primi. Si vuole dire soltanto che se una crisi tra loro prendesse la piega della spirale, entrambi avrebbero gli incentivi, i mezzi e i piani per sparare per primi. E' bene insistere nel tenere separato tutto ciò dall'attacco a sangue freddo - che è eventualità assai più remota. Il gergo strategico usa al proposito distinguere tra "preemption" e "prevention".
Sulla propensione dei militari americani alla "preemption" circolano molti aneddoti, tra il macabro e l'umoristico. Nel settembre del 1957 Curtis LeMay - il comandante del SAC che pare abbia ispirato Stanley Kubrick - fece ai componenti di una commissione governativa la seguente dichiarazione: ``Se vedo che i russi radunano i loro aeroplani per un attacco, stacco loro la merda di dosso ("I'm going to knock the shit out of them") prima che decollino''. Al che i commissari obiettarono: ``Questa non è la politica della nazione''. E LeMay: ``Non me ne importa. E' la mia politica. Questo è quello che intendo fare'' (62).
Per contro, e a proposito di ``prevention'': nel 1961 il Pentagono sottopose a Kennedy uno studio secondo il quale un attacco americano sull'Unione Sovietica sarebbe potuto risultare nella neutralizzazione dell'arsenale nucleare avversario - i sovietici avevano allora 4 (quattro) ICBM operativi. Le perdite americane, con un po' di fortuna, avrebbero potuto limitarsi a 2-3 milioni. Nessuno nell'Amministrazione pensò, nemmeno per un istante, di attuare il piano (63).
Questi due episodi illustrano la differenza pratica tra "preemption" e "prevention", tra l'attacco ``preliminare'' nella certezza che l'altro sta per prendere l'iniziativa e l'attacco preventivo a sangue freddo, nonché i diversi atteggiamenti di civili e militari. Tra l'altro l'azione delle crisi sui processi decisionali può essere compresa anche nei termini del progressivo passaggio dell'autorità dai politici ai militari.
16. La strategia nucleare americana: un bluff?
Perché tanta insistenza su uno scenario di crisi? Perché è il contesto per eccellenza in cui sorgono domande realistiche sull'uso delle armi nucleari. Se si pensa con altrettanto realismo alle risposte possibili sembra lecito concludere che quelle americane tendono ad assomigliare parecchio a quelle sovietiche. In entrambi paesi si comprende che l'unico stato mentale adatto all'uso delle armi nucleari è quello della disperazione: convinto dell'imminenza dell'attacco altrui, provo a limitare i danni (miei) attaccando per primo. Qui la "damage limitation" può essere considerata razionale solo se si sorvola sul fatto che non c'è nient'altro da scegliere - altro che opzioni - una volta certi dell'imminenza di una guerra nucleare. E se non c'è da scegliere non si vede come possa manifestarsi razionalità. Difatti nessuno può veramente credere di limitare i propri danni in senso assoluto: frazioni dei rispettivi arsenali strategici dell'ordine del millesimo possono causare milioni di morti (64).
Resta allora da chiedersi perché mai la dottrina strategica americana - ma sarebbe meglio chiamarla la "declaratory policy", la versione pubblica (65) - si ostini a non prendere atto della realtà e a inseguire quelle che, alla luce di ciò che abbiamo discusso, sembrano vere e proprie chimere.
Una prima risposta è che la ricerca di opzioni - la vera essenza della dottrina Usa - ha una forte carica persuasiva. E' comprensibile che qualsiasi autorità che si immagini nella situazione di dover usare armi nucleari, gradisca illudersi che sia possibile qualche esito meno che catastrofico. E le illusioni confortanti fanno sempre molta strada.
La risposta che chi scrive trova più convincente è però un'altra. E cioè che si tratti di un bluff. Si dice spesso che una dottrina che mira a rendere controllabile e razionale una guerra nucleare è pericolosa perché può dare a chi l'adotta un eccesso di fiducia nella propria capacità di farlo veramente - e quindi abbassare la soglia nucleare. E' probabile che è proprio questa l'impressione di sé che il governo americano vuole dare alla controparte.
Un'illustrazione di questo punto può essere fatta ricorrendo al ``gioco della gallina''. Ovvero i due piloti che si lanciano a folle velocità l'uno contro l'altro: perde chi si toglie dalla traiettoria dello scontro. Chiaro che nessuno si metterebbe a fare questo ``gioco'' contro uno dai noti istinti suicidi. Ergo per essere ``campione'' nel gioco della gallina bisogna dare a intendere che si ha qualche motivo in più per arrivare fino in fondo. Trasposto agli equilibri nucleari tutto ciò significa che dichiarare di credere nella controllabilità della guerra è appunto il motivo in più per dare a intendere di poter arrivare, all'occorrenza, sino in fondo. Meglio ancora poi se qualche episodio passato sostanzia tale spregiudicatezza: dal '46 al '73 gli Stati Uniti hanno mandato segnali politici con le armi nucleari (allertandole) 19 volte; l'Urss una (66). Inoltre, ``il livello di prontezza operativa delle forze strategiche sovietiche in tempo di pace è... significativamente più basso di quello degli Stati Unit
i'' (67).
Insomma gli americani cercano di convincere, e di convincersi, di essere ancora in grado di cavare qualche vantaggio politico dalla minaccia dell'uso di armi nucleari ("coercion"). Tuttavia il fatto che l'ultima allerta risalga al '73 la dice lunga: il margine è sempre più esile. Resta da sperare che non arrivi il presidente americano che prenda la dottrina troppo sul serio. Né il leader sovietico che si picchi di chiamare il bluff.
17. Controllo degli armamenti e politica estera
La situazione esemplificata dal gioco della gallina viene chiamata spesso, certo più elegantemente, "competition in risk taking". Che si pensi ancora di ottenere qualche vantaggio politico in una gara a chi rischia di più con le armi nucleari è sicuramente inquietante. Dal che certi appelli alla moderazione, come questo di John D. Steinbruner, direttore degli studi di politica estera alla Brookings Institution: ``... il massimo dello stato di allerta da ambo le parti in una crisi, deve prudentemente essere considerato equivalente alla guerra e non dovrebbe essere intrapreso per ragioni meno importanti di quelle che giustificano la guerra stessa. Questo principio rende necessario trattenersi rigorosamente dagli impulsi a usare le forze strategiche per mandare segnali di decisione'' (68).
Altri pensano invece che la "competition in risk taking" vada regolata con accordi bilaterali, con misure di controllo degli armamenti. Negli Usa, il primo a far circolare proposte del genere è stato il senatore Henry Jackson nel 1982; lui morto, l'iniziativa è stata ripresa due anni dopo da due suoi colleghi, Sam Nunn e John Warner (69). Usa e Urss, stando alle tesi dei due senatori, dovrebbero stabilire dei ``centri di riduzione del rischio nucleare'' nelle rispettive capitali, funzionanti 24 ore su 24, in contatto diretto tra loro, e con le massime autorità politiche e militari. In alternativa la proposta prevede un unico centro, in territorio neutrale, con personale militare e civile dei due paesi.
L'amministrazione Reagan ha recepito l'iniziativa, girandola ai sovietici senza troppa convinzione (70). Una volta tanto è difficile dar torto al presidente: una crisi veramente grave avrebbe per protagonisti le massime autorità delle due superpotenze. Uno o più centri con personale di relativo secondo piano finirebbero naturalmente per essere scavalcati, se non guardati con sospetto dai rispettivi vertici. Infine organismi del genere potrebbero persino essere controproducenti: un eccesso di fiducia nella loro efficacia come freno di emergenza potrebbe facilmente dar luogo a comportamenti men che prudenti.
Insomma sono ben altri gli accordi di controllo degli armamenti che occorrerebbero per stabilizzare la situazione. Nessuno importante è tuttavia in vista, dopo quasi sei anni di amministrazione Reagan. Siamo anzi al ripudio ufficiale del SALT 2 - mai ratificato dagli Usa - e al paradosso di un'``offensiva di pace'' sovietica cui è difficile, una volta tanto, negare qualsiasi sostanza - si pensi, ad esempio, alla moratoria unilaterale dei test nucleari, rispettata dall'Urss per un anno (agosto '85 - agosto '86) e poi prorogata di altri quattro mesi.
Nessuno ha capito, infatti, quanto - o peggio, se Reagan sia interessato ad un accordo con l'Unione Sovietica. Come nessuno ha capito se Reagan si sia convinto o meno che Usa e Urss devono per forza convivere. L'unico modo efficace per allontanare lo spettro di crisi gravi è d'altronde proprio quello di partire da tale convinzione e su questa costruire un rapporto di cooperazione tra Usa e Urss, tra Est e Ovest.
Si tratta, come si vede, di problemi di fondo di politica estera. Problemi che non possono essere risolti da nessun ragionamento, per quanto sofisticato, sulla deterrenza nucleare.
GLOSSARIO
ABM: antiballistic missile
ACDA: arms control and disarmament agency
AFSATCOM: air force satellite communications
ANMCC: alternate national military command center
ASAT: antisatellite
BMEWS: ballistic missile early warning system
C3I: command, control, communications and intelligence
COMINT: communications intelligence
DCL: direct communication link
DEFCON: defense condition
DEW: distant early warning (line)
DSCS: defense satellite communications system
DSP: defense support program
EAM: emergency action message
EHF: extremely high frequencies
ELINT: electronic intelligence
EMP: electromagnetic pulse
ERCS: emergency rocket communications system
FLTSATCOM: fleet satellite communications
GWEN: ground wave emergency network
HOE: homing overlay experiment
ICBM: intercontinental ballistic missile
LCC: launch control center
MAD: mutual assured destruction
MEECN: minimum essential emergency communications network
NCA: national command authorities
NEACP: national emergency airborne command post
NMCC: national military command center
NORAD: north american air defense command
NSDD: national security decision directive
NSDM: national security decision memorandum
OTH/B: over the horizon/backscatter
PACCS: post attack command control system
PAL: permissive action link
PARCS: perimeter acquisition radar control system
PD: presidential directive
SAC: strategic air command
SALT: strategic arms limitation talks
SCC: standing consultative commission
SHF: super high frequencies
SIGINT: signal intelligence
SIOP: single integrated operational plan
SLBM: submarine-launched ballistic missile
SLFCS: survivable low frequency communications system
SSBN: ballistic missile nuclear submarine
Tacamo: take charge and move out
UHF: ultra high frequencies
VHF: very high frequencies
VLF: very low frequencies
WWMCCS: world wide military command and control system
NOTE
1. FREEDMAN L., "The evolution of Nuclear Styrategy", St. Martin's Press, New York, 1981, p. XV.
2. Non a caso si usa il termine "decapitation" per indicare un attacco volto a sopprimere la leadership di un paese.
3. Cfr. UNITED STATES INFORMATION SERVICE, "Daily Wireless File", 4 giu. 1986.
4. Cfr. ``Growth in Funding Yields Strategic, Tactical Benefits'', "Aviation Week and Space Technology", 9 dic. 1985.
5. Già ricercatore della Brookings e autore del volume citato nella nota successiva, Blair è stato per brevissimo tempo consulente del Pentagono sul C3I. E' stato poi allontanato dopo aver scritto per l'"Office of Technology Assessment" del Congresso un rapporto sul C3I che l'Amministrazione ha tolto dalla circolazione, affibiandogli la qualifica di SIOP-ESI - possono leggere tali documenti solo il presidente, il segretario alla Difesa, il "Chairman del Joint Chiefs of Staff" e il "Deputy Secretary of Defense". Cfr. ``The Ultimate Secret: A Pentagon Report Its Author Can't See'', "The Wall Street Journal", 19 feb. 1986.
6. BLAIR B. G., "Strategic Command and Control - Redifining The Nuclear Threat", The Brookings Institution, Washington DC, 1985, p. 247.
7. "Ibidem".
8. BALL D., ``Can Nuclear War Be Controlled?'', "Adelphi Paper" No. 169, Iiss, London, autunno 1981, p. 38.
9. BETTS R. K., ``Surprise Attack and Preemption'', in ALLISON G. T., CARNESALE A., NYE J. S. Jr. (a cura di), "Hawks, Doves and Owes - An Agenda for Avoiding Nuclear War", W.W. Norton Company, New York and London, 1985, p. 56.
10. Cit. in PRINGLE P., ARKIN W. M., "S.I.O.P. - The Secret U.S. Plan for Nuclear War", W.W. Norton Company, New York and London, 1983, p. 205.
11. BRACKEN P., "The Command and Control of Nuclear Forces", Yale University Press, New Haven and London, 1983, p. 202.
12. PRINGLE P. e ARKIN W. M., "op. cit.", p. 39.
13. "Ibidem", p. 216.
14. TALBOTT S., "Deadly Gambit", Alfred A. Knopf, New York, 1984, pp. 273-274. Gli SLBM non sono richiamabili; bombardieri e sottomarini lanciamissili hanno testate nucleari; il numero dei missili sovietici lo assegna l'intelligence amerlcana.
15. BLAIR B. G., "op. cit.", pp. 262-263.
16. PRINGLE P. e ARKIN W. M., "op. cit.", p. 217.
17. FORD D., "The Button - The Pentagon's Strategic Command and Control System", Simon and Schuster, New York, 1985, p. 137.
18. ``E' anche possibile che un sistema ERCS parallelo e invulnerabile esista sui sottomarini lancia-missili balistici''. TUCKER J. B., ``Strategic Command-and-Control vulnerabilities: Dangers and Remedies'', "Orbis", inverno 1983, p. 946.
19. Ci sono altri tre posti comando aeroportati (su KC-135) per altrettanti comandi regionali con responsabilità nucleari: "Silk Purse" per il comando europeo, "Blue Eagle" per il comando del Pacifico e "Scope Light" per il comando dell'Atlantico.
20. ARKIN W. M. e FIELDHOUSE R. in "SIPRI Yearbook 1984", p. 496, indicano in quattro il numero dei componenti di un equipaggio di un SSBN necessario ``a convalidare gli ordini di lancio e a eseguire l'attacco''. Inoltre essi sostengono che sui bombardieri c'è il PAL.
21. BRACKEN P., "op. cit.", p. 5.
22. "SIPRI Yearbook 1984", p. 474.
23. BALL D., "op. cit.", p. 40.
24. CARTER A. B., ``Satellite and Anti-Satellite: The Limits of the Possible'', "International Security", primavera 1986, p. 55.
25. "Ibidem", p. 56.
26. Cit. in "SIPRI Yearbook 1984", p. 478.
27. "Bollettino USPID", anno III, No. 1/2, mar. 1986, p. 214.
28. "Ibidem", p. 207.
29. BROWN H., ``Strategic Forces and Deterrence'', "ACIS Working Paper", n. 42, Center for International and Strategic Affairs, University of California, Los Angeles, ago. 1983, p. 32.
30. Gli articoli del "New York Times" hanno tutti per autore HALLORAN R. e sono stati pubblicati il 30 maggio, il 4 e il 21 giugngo del 1982. Sulla ``Dottrina Schlesinger'' si veda DAVIS L. E., ``Limited Nuclear Options - Deterrence and the New American Doctrine'', "Adelphi Paper" n. 171, Iiss, London, inverno 1975/6. ``The Countervailing Strategy'' è il titotlo di un articolo pubblicato da SLOCOMBE W. ("Deputy Undersecretary of Defense for Policy Planning" nell'amministrazione Carter) su "International Security", primavera 1981.
31. PRINGLE P. e ARKIN W. M., "op. cit.", pp. 187-88.
32. "Ibidem", p. 188.
33. Citato in DAVIS L. E., "op. cit.", p. 2.
34. Citato in FREEDMAN L., "op. cit.", p. 378.
35. Citato in BLAIR B. G., "op. cit.", p. 28.
36. "Ibidem", pp. 7-8.
37. BROWN H., "op. cit.", p. 34.
38. BALL D., "op. cit.", p. 27.
39. Cfr. DAUGHERTY W., LEVI B. e HIPPEL F. V.``The Consequences of `Limited' Nuclear Attacks on the United States'', "International Security", primavera 1986.
40. Citato in BALL D., "op. cit.", p. 29.
41. "Ibidem", p. 28.
42. Cfr. HOLLOWAY D., "The Soviet Union and the Arms Race", Yale University Press, New Haven and London, 1983, pp. 31-35.
43. BALL D., "op. cit.", p. 32.
44. FORD D., "op. cit.", p. 82.
45. BETTS R., "Surprise Attack: Lesson for Defence Planning", citato in BLAIR B. G., "op. cit.", pp. 235-236.
46. BALL D., "op. cit.", p. 13.
47. "Ibidem", p. 11.
48. FORD D., "op. cit.", pp. 155-156.
49. CARTER A. B., "op. cit.", p. 80.
5O. FORD D., "op. cit.", p. 206. Corsivo nell'originale.
51. SHAPLEY D., ``Strategic doctrine, the militarization and the `semi-militarization' of space'', in YASANI B. (a cura di), "Space Weapons - The Arms Control Dilemma", SIPRI, Taylor Francis, London and Philadelphia, 1984, p. 64. Su questo punto cfr. anche CARTER A. B., "op. cit.", p. 89.
52. BALL D., "op. cit.", p. 35.
53. BLAIR B. G., "op. cit.", p. 182.
54. FORD D., "op. cit.", p. 212.
55. NINCIC M., ``Possono Stati Uniti e Unione Sovietica avere fiducia reciproca?'', "Le Scienze", giu. 1986, pp. 17-18.
56. 9 dic. 1985, p. 49.
57. Cit. in SANGER D., ``U.S. Plans to Shift Military Satellites From Shuttle to New Midsized Rocket'', "International Herald Tribune", 25 giu. 1986.
58. BALL D., "op. cit.", p. 36-7.
59. BLAIR B. G., "op. cit.", p. 5.
60. SCHELLING T., "Arms and Influence", citato in MANDELBAUM M., "The Nuclear Question - The United States and Nuclear Weapons 1946-1916", Cambridge University Press, Cambridge (MA), 1979, p. 3.
61. BRACKEN P., "op. cit.", p. 59.
62. L'episodio è riportato in KAPLAN F., "The Wizards of Armageddon", Simon and Schuster, New York, 1983, p. 134.
63. "Ibidem", pp. 298-301.
64. Il che è ben noto a chi ha avuto grosse responsabilità in materia, e costituisce un freno - che è bene non sottovalutare - non solo all'uso in sé delle armi nucleari, ma anche al raggiungimento di una crisi talmente grave da far contemplare tale uso, BUNDY M., consigliere alla sicurezza nazionale di Kennedy, ha scritto: ``Nel mondo reale dei veri uomini politici - sia qui che in Unione Sovietica - una decisione che comporta anche una sola bomba all'idrogeno su una città del proprio paese sarebbe subito interpretata come un colpo catastrofico; dieci bombe su dieci città sarebbero un disastro al di là della storia; e cento bombe su cento città impensabili''. ``To Cap the Volcano'', "Foreign Affairs", ott. 1969 p. 10.
65. ``La politica nucieare americana consta di quattro parti diverse: la politica d'impiego ("employment policy"), la politica di acquisto ("acquisition policy"), la politica declaratoria ("declaratory policy"), e la politica di schieramento ("deployment policy")... La "Declaratory Policy" orienta i funzionari americani su cosa dire in pubblico delle politiche d'impiego e d'acquisto''. DAVIS L. E., "op. cit.", nota 2, p. 1. Corsivo nell'originale.
66. Cfr. HOLLOWAY D., "op. cit.", p. 51.
67. TUCKER J. B., "op. cit.", p. 951.
68. ``Nuclear Decapitation'', "Foreign Policy", inverno 1981-82.
69. Sulla proposta Nunn-Warner cfr. "Bollettino USPID", n. 1/2, mar. 1986, pp. 199-201. In generale sulla stessa questione si veda anche LANGER URY W. e SMOKE R., "Beyond the Hotline: Controlling a Nuclear Crisis, A Report to the United States Arms Control and Disarmament Agency", Washington DC, 1984.
70. Cfr. GORDON M. R., ``U.S. Soviet Discuss Accidental Nuclear War'', "International Herald Tribune", 7 mag. 1986.