di Marco CarnovaleIRDISP-ISTITUTO DI RICERCHE PER IL DISARMO, LO SVILUPPO E LA PACE
SOMMARIO: Va bene la corsa al riarmo, ma che c'entra l'Italia? Non sono gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica i promotori di tale corsa? Che le due superpotenze siano i principali responsabili della corsa al riarmo è vero. I principali, ma non gli unici. Anche l'Italia ha la sua parte di responsabilità. Minore, ma non trascurabile. In cifre assolute la spesa militare dell'Italia è stata nel 1985 l'ottava al mondo. Quanto al numero di uomini alle armi siamo tra i primi quindici. E tra gli esportatori mondiali di armamenti, gli italiani figurano nei primi sei posti. Il peso del settore militare sul complesso dell'economia italiana è ancora piuttosto contenuto: la spesa assorbe il 2,7% del prodotto interno lordo; le armi rappresentano il 2,7% della ricchezza prodotta dall'industria e il 2,3% delle esportazioni. Inoltre le minacce militari alla sicurezza dell'Italia sono meno gravi di quelle che si trovano a fronteggiare numerosi altri attori internazionali - compresi molti nostri alleati. Siamo quindi in una sit
uazione che offre molte opportunità di contenimento della spesa, di sperimentare conversioni al civile delle produzioni militari, di promuovere una politica di sicurezza realista e distensiva. Sfortunatamente queste opportunità non vengono colte. Al contrario nell'ultimo decennio s'è affermata la tendenza all'espansione che è urgente arrestare. E' dalla metà degli anni '70, infatti, che l'Italia comincia a figurare tra i principali esportatori di sistemi d'arma, e che la spesa militare supera i tassi di crescita annuale concordati in sede NATO. Ed è sempre in quelo periodo che cominciano a farsi sentire i sostenitori di un "nuovo ruolo" militare dell'Italia nel Mediterraneo. Il "Libro bianco", presentato dal ministro della Difesa Spadolini nell'inverno 84-85, sintetizza e mette a punto questi sviluppi, ovviamente dalla parte di chi li ha sostenuti e si augura che proseguano. Questo volume, invece, fa emergere i dubbi, gli interrogativi, le proposte alternative rispetto a quello che sinora è stato un monologo
dell'establishment.
("L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO" - Un contro-libro bianco della difesa - a cura di Marco De Andreis e Paolo Miggiano - Prefazione di Roberto Cicciomessere - Franco Angeli Libri, 1987, Milano)
2. L'INIZIATIVA DI DIFESA STRATEGICA
di Marco Carnovale
1. Introduzione
Questo capitolo si propone di analizzare la problematica della difesa strategica, cioè della difesa del territorio delle superpotenze e dei loro alleati dalle armi nucleari della parte avversa. Tale definizione di difesa strategica è ovviamente arbitraria, ed ancor più arbitraria è l'attenzione che si è concentrata in questo campo sui missili intercontinentali basati a terra (ICBM), tralasciando altre non meno letali minacce nucleari. Tuttavia, abbiamo scelto di attenerci a questa pur ristretta definizione perché è quella esplicitamente adottata dal programma di difesa strategica degli Stati Uniti (Sdi, per "Strategic Defense Initiative"), lo sviluppo del quale è la causa prima della recente rinascita a livello internazionale del dibattito sull'argomento.
Abbiamo detto ``rinascita'' del dibattito, perché già nelle passate decadi l'argomento della difesa strategica era stato sviscerato in estesi dibattiti politici, militari ed accademici. Un'introduzione storica su questi precedenti è dunque d'obbligo. Seguirà una breve descrizione delle origini dell'attuale programma americano. Quindi, dopo aver delineato le possibili direttrici che il programma Sdi assumerà nel corso del suo sviluppo, passeremo ad esporre in dettaglio come un sistema di difesa strategica si potrebbe articolare e quali sarebbero i problemi da superare. Infine, cercheremo di valutare le prospettive del programma per il prossimo futuro.
2. Premessa storica
Il 23 marzo 1983 il presidente americano Reagan annunciò in un discorso che gli Stati Uniti avrebbero al più presto iniziato un programma di ricerca avente per fine la realizzazione di un sistema di difesa che potesse proteggere gli Stati Uniti ed i loro alleati da un possibile attacco missilistico, e che potesse pertanto rendere le armi nucleari ``impotenti e obsolete'' ed eliminare così l'incubo della devastazione nucleare (1).
L'obiettivo ideale del presidente, condiviso peraltro da molti esperti delle più svariate tendenze politiche, si inserisce nel plurisecolare sforzo di tutti gli stati che cercano di proteggere la propria sopravvivenza ed integrità da minacce militari provenienti da altri stati. In particolare, a livello strettamente militare, non è questa la prima volta che allo sviluppo del potenziale distruttivo di armi offensive si cerca di contrapporre armi difensive che possano ridurre od eliminarne l'efficacia, e viceversa. La storia delle tecnologie militari non è infatti che una serie di cicli periodici in cui armi offensive e difensive hanno alternativamente predominato le une sulle altre, contribuendo così a determinare l'andamento e l'esito di crisi e di guerre.
Nell'attuale era missilistico-nucleare sono ovviamente dominanti le tecnologie offensive. Ma proprio l'introduzione degli esplosivi nucleari, aumentando di un ordine di grandezza la potenziale distruttività di una eventuale guerra, ha rafforzato in molti il desiderio e la speranza che si possa arrivare a sviluppare contromisure difensive che possano ad essi efficacemente contrapporsi.
Già negli anni '60 si sviluppò un ampio dibattito internazionale sull'opportunità di perseguire tali tecnologie. Col progredire della ricerca apparve sempre più chiaro che l'obiettivo di difendere le popolazioni dalla minaccia del bombardamento nucleare era però irraggiungibile. Dopo attente e prolungate analisi tecnologiche, economiche ed operative, l'allora segretario della Difesa americano Robert McNamara si convinse che anche un sistema anti-missili balistici (ABM) meno ambizioso per la difesa delle sole basi missilistiche Usa da un attacco sovietico sarebbe stato troppo costoso, insufficientemente affidabile ed esso stesso molto vulnerabile. Tuttavia, per motivi di politica interna e di inerzia burocratica, gli Usa misero comunque in opera un limitato sistema ABM (il "Safeguard"), che venne giustificato, peraltro con poca convinzione, in funzione anticinese (questi ultimi disponevano di un arsenale missilistico molto più esiguo di quello sovietico).
Nel frattempo, a partire dal famoso incontro di Glassboro del 1967 con l'allora primo ministro Kossighin, McNamara cominciò a prospettare ai sovietici la possibilità di un trattato bilaterale per l'interdizione di tutti i sistemi ABM. Lo scopo di tale trattato sarebbe stato quello di evitare una nuova spirale di spese militari e di codificare e stabilizzare una situazione di mutua vulnerabilità in cui né l'una né l'altra potenza avrebbe avuto interesse ad iniziare una guerra nucleare. I sovietici erano inizialmente contrari alla proposta americana, giudicando ``immorale'' che un governo firmasse un trattato che proibisse la protezione della propria nazione. Tale obiezione, frutto probabilmente anche di un naturale scetticismo verso una proposta relativamente non ortodossa proveniente dal Pentagono, fu comunque superata nei negoziati degli anni successivi, e nel 1972 le due superpotenze firmarono il Trattato per la limitazione dei missili anti-balistici, probabilmente a tutt'oggi il più importante risultato d
ell'intero processo di controllo degli armamenti. Entro pochi anni gli americani si convinsero anche della ben scarsa utilità del sistema "Safeguard", sia perché le relazioni con i cinesi erano molto migliorate e sia perché questi avrebbero comunque avuto ottime probabilità di penetrarlo se avessero deciso di concentrare un attacco su un numero limitato di obiettivi: chiaramente, la capacità cinese di colpire anche una sola città americana era sufficiente a rendere futile lo sforzo di difendere le altre. Pertanto, nel 1974 il "Safeguard" veniva smantellato, e tale atto avrebbe chiuso il dibattito sulla difesa strategica per quasi un decennio, almeno in occidente (2).
I sovietici mantengono invece a tutt'oggi un sistema difensivo per Mosca, come loro permesso dal trattato. Tale sistema porterebbe tuttavia scarso sollievo in caso di attacco nucleare, in quanto esso non è certo impenetrabile al 100%, ed una sola testata termonucleare che riuscisse a perforarlo raggiungerebbe lo stesso scopo delle pur molte altre che potrebbero essere intercettate. Inoltre, una prudente pianificazione da parte americana potrebbe portare ad una sovrastima della efficacia difensiva del sistema, con conseguente sovrallocazione di testate su Mosca, per cui probabilmente la capitale assorbirebbe più esplosioni "con" che non "senza" il sistema difensivo che la circonda.
3. La nascita dell'Iniziativa di difesa strategica
Il dibattito sulla difesa strategica è stato riaperto in occidente all'inizio degli anni '80 dallo sviluppo di nuove tecnologie che potrebbero portare alla realizzazione di sistemi anti-missile di nuova concezione. Particolare interesse hanno suscitato progetti di sistemi difensivi basati nello spazio che possano intercettare i vettori sovietici in fase di propulsione, subito dopo il lancio.
Il discorso del presidente Reagan ha avuto tre principali conseguenze, che potrebbero potenzialmente alterare in modo sostanziale, rispettivamente, l'assetto dell'apparato bellico statunitense, l'equilibrio strategico internazionale e le relazioni interalleate in seno alla Nato.
La prima ed immediata conseguenza è stata la creazione in seno al Dipartimento della Difesa di una sezione (chiamata "Office for Strategic Defense Initiative", o Sdio, onde la sigla Sdi entrata ormai in uso comune anche in Europa) predisposta al coordinamento degli studi di fattibilità per la creazione del sistema difensivo. Anche se i fondi sinora assegnati al Sdio non sono che una piccola frazione del bilancio della Difesa Usa, è prevedibile che se si dovesse passare da una fase di ricerca preliminare ad una di sviluppo avanzato e di spiegamento tale frazione aumenterebbe di molte volte; in un arsenale non più basato esclusivamente sul deterrente delle forze offensive, ciò porterebbe o ad una ridistribuzione delle risorse a discapito delle altre missioni o ad un aumento considerevole della spesa militare globale. Data l'improbabilità della seconda ipotesi alla luce delle recenti restrizioni legislative sulla spesa pubblica entrate in vigore negli Usa, la fetta dei fondi per la Sdi potrebbe portare ad un ri
dimensionamento di altri impegni, specialmente nel settore delle forze non-nucleari, che sono di fondamentale importanza per l'Europa.
La seconda conseguenza della Sdi, qualora essa dovesse essere completata, sarebbe quella di alterare l'attuale equilibrio strategico-militare, basato sulla reciproca deterrenza. Sono in molti a ritenere, non solo in seno alla destra reaganiana ma anche in molte parti della sinistra europea e dei movimenti pacifisti internazionali, che la deterrenza nucleare non sia desiderabile in quanto basata sull'``equilibrio del terrore''; quest'ultimo viene generalmente presentato come uno stato di cose in cui predominano il sospetto e la paura reciproca ed in cui incombe la minaccia della distruzione della civiltà. E' invece opinione di chi scrive che, come ebbero a dire due famosi conoscitori di questi problemi oltre vent'anni orsono, l'attuale condizione di mutua deterrenza, anche se non priva di difetti e certamente perfettibile, non giustifica l'appellativo su riportato tra virgolette. Il terrore presuppone la paura, e quest'ultima trae origine dalla `incertezza'. Oggi, invece, ciascuna superpotenza sa con `certezz
a' che ad un attacco nucleare, e forse anche ad uno non nucleare, seguirebbe una risposta nucleare della parte attaccata con conseguenze non meno gravi dell'attacco stesso. Su questa sicurezza si fonda la sostanziale stabilità dell'attuale equilibrio strategico (3).
Lo spiegamento di mezzi militari che andassero ad alterare tale equilibrio e tale certezza potrebbe portare con se due tipi di conseguenze negative. Primo, si potrebbe riaccendere la mutua rincorsa tra armi offensive e difensive, con relativo spreco di risorse. Infatti, anche se si riuscisse a creare uno scudo efficace contro le armi offensive di oggi, nulla fa pensare che la tecnologia dell'offesa segnerebbe il passo di fronte ai progressi di quella della difesa: al contrario, l'apparire di sistemi difensivi stimolerebbe ulteriormente lo sviluppo dei sistemi offensivi per penetrarli, e così via (4). Secondo, una o più delle potenze nucleari che si dotassero di tali mezzi potrebbe arrivare a credere che un attacco contro una potenza rivale potrebbe essere scatenato con impunità in quanto la risposta della parte attaccata potrebbe venir neutralizzata dallo scudo difensivo. In caso di tensioni internazionali o di crisi la tentazione ad iniziare un attacco nucleare sarebbe grande e foriera di instabilità: la pr
udenza indotta dall'attuale mutua vulnerabilità poggerebbe su fondamenta molto più fragili.
La terza conseguenza del programma Sdi riguarda le relazioni interalleate nella Nato, sia dal punto di vista politico-militare, che da quello economico. Vediamo perché. Dal punto di vista militare, anche se l'esatta configurazione di un eventuale sistema di difesa strategica non è ovviamente ancora definita, una delle caratteristiche che quasi sicuramente contraddistinguerebbe tale sistema è che esso sarebbe più efficace per proteggere il territorio degli Usa che non quello dell'Europa occidentale. Infatti, in Europa, le distanze e quindi i margini di tempo di reazione tollerabili per intercettare missili offensivi sono molto più brevi che non al livello intercontinentale, e pertanto un sistema europeo dovrebbe essere molto più efficace che non uno intercontinentale. Da qui la preoccupazione di molti europei che gli Stati Uniti, al riparo dello scudo anti-missile, ritornino su posizioni isolazioniste e magari, un domani, si ritirino dagli impegni assunti per la difesa dell'Europa. Allo stato attuale delle co
se questa è poco più che fantapolitica, ma è certo che l'introduzione di sistemi difensivi contribuirebbe alla difesa degli Usa meglio che non a quella dell'Europa, e contribuirebbe quindi ad aumentare i dubbi di quest'ultima sulla credibilità del deterrente americano per la propria difesa.
Economicamente, gli europei hanno dimostrato interesse per i fondi di ricerca, la partecipazione alla quale era stata loro paventata dal segretario della Difesa Weinberger nella primavera del 1985. A tutt'oggi, questo senz'altro è l'aspetto che più unisce le opinioni degli alleati. Gli europei, guidati dalla paura di essere lasciati fuori dalla ``spartizione'' dei 26 miliardi di dollari stanziati, sembrano interessati ai potenziali sviluppi tecnologici collaterali della ricerca Sdi prima che alle sue implicazioni strategiche.
4. Obiettivi dell'Sdi
Il dibattito degli anni '60 sugli obiettivi della difesa strategica si è riproposto con sorprendenti similitudini a seguito dell'Sdi del 1983. In breve, a chi si proponeva e si propone di difendere le maggiori città dal pericolo della distruzione nucleare si contrappone chi si proponeva e si propone di difendere solo quelle installazioni militari (prime fra tutte le basi dei missili intercontinentali) la sopravvivenza delle quali sarebbe necessaria ad assicurare un adeguato deterrente agli occhi di potenziali aggressori. C'è poi chi propone di difendere sia i missili che la totalità della popolazione. Esaminiamo brevemente le implicazioni di ciascuna di queste posizioni.
La prima categoria è la meno interessante oggi. Difendere la città vuol dire negare al nemico la possibilità di colpire quelli che dal suo punto di vista sarebbero obiettivi di alto valore strategico, economico, industriale e psicologico. Non soltanto le popolazioni che si vuol proteggere, ma anche il potenziale bellico collaterale che le città industriali incorporano. Questa è la tesi di chi ritiene un ombrello di difesa totale di improbabile realizzazione e pensa invece al perfezionamento di sistemi di difesa anti-missile tradizionali, basati a terra, che non potrebbero coprire l'intero territorio degli Usa, e tantomeno quello di tutta la Nato. Anche se al momento questa tesi non riceve particolare attenzione, l'interesse per essa potrebbe risvegliarsi sotto pressioni burocratiche qualora si dovesse arrivare a concludere che la difesa totale (vedi sotto) è irraggiungibile. C'è un precedente storico: il ripiego, sotto spinte di politica interna, su traguardi più moderati, dopo l'abbandono di altri più diffi
cili da raggiungere fu la causa prima dello spiegamento del "Safeguard" in funzione anti-cinese (vedi sopra).
La seconda categoria dei sostenitori dell'Sdi si propone invece di difendere solamente obiettivi militari indispensabili ad assicurare la deterrenza. Tali obiettivi vengono spesso identificati, peraltro con molta arbitrarietà, con i missili intercontinentali basati a terra (ICBM), alla cui ``finestra di vulnerabilità'' sono attribuite responsabilità di destabilizzazione e di invito all'attacco che, alla luce della formidabile potenzialità degli altri due rami della triade strategica, chi scrive fa fatica a giustificare.
Non a caso, sono i militari ad essere i più convinti sostenitori di questo tipo di obiettivo per l'Sdi. Questo sia perché la protezione dell'apparato bellico fa parte del loro modo naturale di affrontare il problema della deterrenza, sia perché la loro esperienza specifica con i dettagli tecnici della materia li fa allontanare dai sogni presidenziali di difesa totale (vedi sotto). Infatti, un sistema difensivo col solo scopo di proteggere un numero limitato di missili alloggiati in silos sotterranei sarebbe ovviamente molto più facile, tecnicamente, che non proteggere città.
La terza scuola di pensiero, alla quale si stesso presidente, si propone di difendere sia città che missili, rendendo così questi ultimi inutili a tutti gli effetti. Se entrambe le superpotenze si dotassero di un sistema capace di ciò, argomenta Ronald Reagan, promettendo che gli Stati Uniti sarebbero pronti a cedere ai sovietici la tecnologia necessaria non appena approntata, i missili stessi potrebbero essere smantellati senza che nessuna delle parti debba temere per la propria sicurezza (5).
5. La minaccia: l'attacco missilistico balistico intercontinentale
La minaccia posta dall'imponente arsenale balistico intercontinentale sovietico è quanto l'Sdi si propone di neutralizzare. Anche se l'amministrazione Usa assicura che le altre non meno gravi minacce poste dai missili da crociera o dai missili balistici a raggio corto o intermedio non sono state dimenticate, gli ICBM hanno ricevuto le attenzioni maggiori. Discuteremo pertanto in breve in cosa consiste questa minaccia e quali sono le sue rilevanti caratteristiche ai fini di una difesa contro essa.
Il percorso di un ICBM si divide in quattro fasi: propulsione, post-propulsione, fase intermedia e rientro in atmosfera. La prima fase, durante la quale il missile viene accelerato dai razzi motori, ha una durata di circa tre minuti, di cui solo uno in atmosfera. Durante questa fase i razzi motori emettono grandi quantità di raggi infrarossi ad onde corte, che sarebbero facilmente visibili a sensori spiegati su satelliti (anche in orbite geosincrone molto alte). I vantaggi di una difesa che mirasse ad intercettare i missili in questa fase sono evidenti: da una parte ci sarebbero relativamente ``pochi'' bersagli da colpire perché le singole testate (fino a 10 in un ICBM sovietico) sarebbero ancora concentrate in un solo bersaglio (il missile), e dall'altra le emissioni infrarosse di cui sopra renderebbero missili ben visibili ai sistemi di puntamento della difesa. D'altra parte però, non si conoscerebbe ancora la traiettoria delle singole testate, e quindi la difesa non potrebbe ``scegliere'' su quali obietti
vi concentrare il tiro, ma dovrebbe attaccare tutti indiscriminatamente. Inoltre, il tempo a disposizione per l'esecuzione dell'attacco sarebbe molto breve.
Durante la fase di post-propulsione, che dura circa dieci minuti, gli stadi del missile con i razzi motori principali si spengono e si staccano, mentre una capsula dotata di piccoli razzi direzionali continua per inerzia la traiettoria balistica cambiandola solo di frazioni di grado di tanto in tanto allo scopo di indirizzare le varie testate verso i loro rispettivi obiettivi. Le emissioni infrarosse della capsula sono però di intensità molto minore rispetto a quella dei razzi principali ed inoltre sono ad onde lunghe, più difficili da vedere nello spazio. Tutto ciò complicherebbe notevolmente il compito della difesa.
Durante la fase di metà percorso, che dura circa 15 minuti, le singole testate sono state rilasciate dalla capsula e proseguono per pura forza inerziale verso loro bersagli. Le emissioni infrarosse sono qui minime e praticamente invisibili dallo spazio. Inoltre, gli obiettivi della difesa sarebbero moltiplicati di numero in quanto la capsula conterrebbe anche altro materiale atto a confondere i sensori radar della difesa (ad esempio finte testate, dette ``esche'', generalmente costituite da palloncini di alluminio autogonfiabili).
Durante la fase terminale, che dura dai 30 ai 90 secondi, le testate si surriscaldano per l'attrito con l'atmosfera nella quale rientrano, ed emissioni infrarosse sono visibili da sensori basati a terra; inoltre le testate sono visibili su radar. Il compito della difesa è anche semplificato dal fatto che da una parte le finte testate, che devono essere molto leggere per non appesantire il missile, si disintegrano con l'attrito atmosferico; e dall'altra la traiettoria delle testate vere è ormai prevedibile e quindi la difesa può concentrare le proprie forze alla protezione di quegli obiettivi che essa ritiene più importanti. Tuttavia una difficoltà è rappresentata dal fatto che margini di tempo sono minimi.
6. Missioni ed architettura
In ciascuna delle ipotetiche fasi su descritte, un sistema di difesa strategica dovrebbe comprendere svariate missioni, concettualmente equivalenti, ma i componenti e l'architettura delle quali cambierebbero completamente a seconda della fase durante la quale il sistema stesso sarebbe chiamato a funzionare. Nella trattazione che segue dedicheremo particolare attenzione all'architettura di un possibile sistema di difesa per la fase di propulsione, perché è questa la possibilità che ha suscitato di gran lunga il maggiore interesse tecnologico e militare. Anche alcune tecnologie per la difesa in fase terminale hanno suscitato forte interesse, ma il dibattito non ha rivelato nuovi spunti di particolare rilievo rispetto a quello degli anni '60.
La prima missione della difesa è quella di ricognizione. Satelliti geosincroni dovrebbero individuare in tempo reale l'avvenuto lancio dei missili sovietici ed attivare il resto del sistema di difesa. Satelliti di questi tipo già esistono, e ci sono ottime probabilità che questa prima funzione del sistema potrebbe essere completata con successo, in quanto da una parte la loro affidabilità è buona, e dall'altra essi stazionerebbero in orbite molto alte, assai difficilmente raggiungibili da armi anti-satellite.
La seconda missione e quella di acquisizione. Qui il sistema difensivo deve essere in grado di localizzare con precisione le traiettorie dei singoli in volo. Sono necessari satelliti ad alta risoluzione ad orbite più basse, più vicine cioè ai missili stessi. Questa missione e più difficile da portare a termine perché enormemente più complessa. Mentre infatti la ricognizione consisteva solo nel registrare l'avvenuto lancio di un numero qualsiasi di missili, l'acquisizione si deve preoccupare in dettaglio del numero dei missili, delle loro velocità e traiettorie, e di quelle delle testate (vere e finte) che da essi venissero inviate per traiettorie indipendenti. Inoltre, i satelliti con sensori, orbitanti su orbite relativamente basse, sarebbero più vulnerabili ad essere attaccati a loro volta da sistemi antisatellite (ASAT) dell'offesa.
Il compito successivo è quello di discriminare tra i bersagli acquisiti quelli veri da eventuali ``esche''. Mentre ciò sarebbe relativamente semplice per la fase di propulsione (dato il numero probabilmente basso di missili ``esche'' che potrebbe essere spiegato), il problema di discriminare le testate nucleari vere da quelle finte e dagli altri marchingegni, che le capsule disseminerebbero lungo la loro traiettoria per confondere i sensori della difesa, sarebbe molto più complesso. Alternativamente, la difesa potrebbe attaccare tutti i possibili bersagli (cioè sia quelli veri che le ``esche'') ma questa ipotesi certamente moltiplicherebbe le dimensioni del sistema difensivo in modo inaccettabilmente complicato e costoso.
Dopo aver discriminato i propri bersagli, la difesa deve provvedere ad indirizzare contro di essi i propri sistemi d'arma. Per far ciò sono necessari sistemi di puntamento in grado di correggere in continuazione la mira per seguire i bersagli lungo la loro orbita. A tal fine sarebbero necessari sensori estremamente sensibili, precisi, affidabili e non facilmente distruttibili oltre che impianti di comunicazione tra satelliti sensori ed i Sistemi d'arma che dovrebbero poi eseguire l'intercettazione.
La missione successiva è quella della distruzione vera e propria, nella quale i sistemi di difesa agiscono direttamente su quelli dell'offesa per vanificarne l'attacco. La distruzione di ICBM o delle loro testate potrebbe essere di uno o più dei seguenti tipi: termica, meccanica o funzionale.
La distruzione termica consiste nel concentrare forti dosi di energia prodotta da laser chimici sulla superficie dei bersagli in modo da bruciarne l'involucro e danneggiarne l'interno. Le fonti dei laser stessi sarebbero pesanti e di grandi dimensioni, per cui esse dovrebbero essere basate a terra e proiettare i laser verso satelliti-specchio che provvederebbero ad indirizzarli verso gli obiettivi loro indicati dai satelliti sensori.
La distruzione meccanica potrebbe essere di due tipi: diretta o indiretta. Quella diretta consiste nel danneggiare i bersagli mediante l'impatto di proiettili lanciati contro di essi da armi ad energia cinetica direzionata (per esempio cannoni elettromagnetici). Quella indiretta consiste nel concentrare sulla superficie dell'involucro del bersaglio una quantità sufficiente di energia da provocare la violenta gassificazione e conseguente esplosione della superficie stessa, che invierebbe così una forte onda d'urto verso l'interno del missile (o testata) che ne danneggerebbe i delicati meccanismi interni al punto di neutralizzarne l'attacco. L'energia per la distruzione meccanica indiretta proverrebbe o da laser basati a terra, o da laser a raggi x prodotti da esplosioni nucleari a bordo di satelliti la cui energia verrebbe indirizzata a seconda delle informazioni che il satellite stesso riceverebbe dai satelliti sensori.
La distruzione funzionale consisterebbe nell'attaccare le componenti elettroniche interne del sistema d'offesa senza necessariamente danneggiarlo fisicamente. Ciò potrebbe essere fatto tramite l'uso di fasci di particelle neutre (quelle cariche sono facilmente deviate dal campo magnetico terrestre, e sono quindi difficili da mirare). Il problema fondamentale di questo tipo di difesa è che le particelle neutre non si propagano nell'atmosfera, e quindi la difesa dovrebbe aspettare che i missili offensivi siano usciti da essa: questo ne restringerebbe considerevolmente i margini operativi utili all'esecuzione dell'attacco. Inoltre, sarebbe difficile per la difesa conoscere l'esito di un attacco, in quanto il bersaglio probabilmente non mostrerebbe alcun segno di danno all'esterno.
Infine, un sistema difensivo dovrebbe essere capace di valutare il risultato delle proprie azioni contro le forze dell'offesa, così da fornire ai comandi politici e militari a terra informazioni utili a comprendere ed a gestire il corso della battaglia contro le forze dell'offesa nel loro insieme, e per poter quindi riorganizzare e riprogrammare la difesa di conseguenza (6).
7. Problemi
I problemi dell'Sdi possono essere classificati in tre categorie: economici, tecnologici e strategici, in ordine crescente di importanza.
Problemi economici. Le difficoltà economiche sono analiticamente divisibili a loro volta in due sottocategorie: costi assoluti e costi in relazione a quelli di eventuali contromisure offensive. Spiegheremo prima ciascuna in dettaglio, e chiariremo quindi perché a mio avviso entrambe le argomentazioni economiche contro l'Sdi rimangono poco convincenti.
Il costo monetario del programma Sdi si preannuncia altissimo ed imprevedibile. Le richieste per la sola fase iniziale di ricerca e sviluppo ammontano a 26 miliardi di dollari in cinque anni. Queste cifre dicono però ben poco, perché la sicurezza nazionale è, per definizione, un bene inestimabile; perciò, in teoria, se si dimostrasse essere necessario al fine di preservarla dotare gli Stati Uniti e l'occidente di una difesa strategica, tale difesa andrebbe costituita a prescindere dal costo. Inoltre, anche dovesse appesantirsi di tali costi, la spesa militare degli Usa resterebbe comunque lontana (in termini di percentuale del pnl) dai limiti raggiunti in epoche non lontane, e sarebbe, in teoria, certamente sopportabile dall'economia nazionale (in pratica, tuttavia, l'aggravio economico di un programma di spiegamento dell'Sdi, opponendosi all'attuale tendenza verso un ridimensionamento del disavanzo federale, incontrerebbe forti critiche e resistenze nel Congresso).
Solo marginalmente più convincente è l'argomentazione secondo cui l'Sdi non è economicamente conveniente perché le contromisure sarebbero più economiche e quindi l'offesa potrebbe facilmente mantenersi un gradino più in su sulla scala dell'efficacia militare mentre la difesa si dissanguerebbe inutilmente. Bisogna qui essere realistici: la potenziale ``offesa'' non è un'entità astratta su cui teorizzare, ma è costituita, nella sua forma più grave, dall'Urss. Il pnl sovietico è circa la metà di quello statunitense, e già ora Mosca spende in percentuale circa il doppio di Washington per la difesa (in termini assoluti i due livelli di spesa sono molto simili). Si può quindi logicamente argomentare che l'Sdi costringerebbe i sovietici a spendere per le contromisure ulteriori fondi che dovrebbero essere sottratti all'economia civile, indebolendo così la potenza economica sovietica nel suo insieme. Anche se gli Usa spendessero in termini nominali, cifre ancora più alte, in termini relativi l'aggravio alla loro econ
omia sarebbe inferiore, e ciò porterebbe all'accrescimento del divario economico, tecnologico e, col tempo, militare tra le due superpotenze. Quindi, il fatto che le contromisure costino meno in termini assoluti non vuol necessariamente dire molto.
Problemi tecnologici. Le difficoltà tecnologiche che l'Sdi si propone di superare sono enormi e forniscono agli oppositori del programma argomentazioni molto più convincenti di quelle economiche. Ai fini analitici, divideremo questa categoria di problemi in quattro sottocategorie.
La prima difficoltà è data dal fatto che un sistema di difesa strategica non potrebbe mai essere collaudato nella sua interezza. Le singole tecnologie componenti potrebbero essere naturalmente accuratamente collaudate in laboratorio ed anche sul campo, ma la probabile risposta dell'insieme ad un attacco di migliaia di missili sovietici resterebbe una stima. Il sistema difensivo entrerebbe perciò in funzione solo alla prima ed unica occasione in cui esso fosse chiamato ad operare sul campo.
L'espressione più grave del problema esposto sarebbe visibile nell'aspetto informatico del sistema, il coordinamento del quale necessiterebbe di un apparato, di dimensioni e di sofisticatezza senza precedenti, per la gestione delle milioni d'informazioni che dovrebbero essere prodotte e comunicate. Non è tanto la difficoltà intrinseca all'"hardware" o al "software" che spaventa, quanto la constatazione che un sistema tanto complesso e delicato dovrebbe funzionare al primo tentativo. Normalmente, un programmatore dedica più della metà del suo tempo alla correzione degli errori che non risaltano immediatamente all'attenzione alla fine della stesura di un nuovo programma ma che emergono a mano a mano che il programma viene sottoposto a prove di controllo. Esistono ovviamente programmi ``correttori'' che rilevano una parte degli errori nella stesura originaria, ma il programmatore deve inevitabilmente intervenire per correggere i rimanenti. Non esistono oggi ragioni per credere che il programma che gestirebbe l'
Sdi, che avrebbe dimensioni di almeno un ordine di grandezza superiori a qualsiasi altro esistente (si stimano intorno ai dieci milioni di istruzioni), sarebbe immune da tali problemi.
La seconda difficoltà tecnologica è data dal fatto che non sarebbe qui solo necessario costruire un sistema che compia una missione ``x'' in astratto, ma bisognerebbe anche tenere conto di un'intelligenza nemica che si adopererebbe per prevenire che ``x'' venga completata. Le grandi imprese tecnologiche della storia recente (lo sbarco sulla luna viene spesso citato a riprova delle potenzialità della tecnologia se sufficienti risorse vengono dedicate ad uno scopo) non hanno dovuto preoccuparsi di ciò: non è affatto chiaro che la conquista della luna sarebbe stata completata in così breve tempo e con così pochi problemi se fossero esistite delle batterie anti-aeree di ipotetici lunatici impegnate a prevenirla.
La terza difficoltà è che, anche se si potesse arrivare ad un sistema che potesse efficacemente sconfiggere le forze missilistiche sovietiche nella loro attuale configurazione tecnologica, è sicuramente pretenzioso pensare di poter prevedere oggi quali saranno le tecnologie che si dovranno sconfiggere domani ed anticiparle con sistemi difensivi ad esse superiori. Non c'è motivo di pensare che se le tecnologie difensive progredissero così sensibilmente quelle offensive segnerebbero il passo: finora, semmai, è accaduto il contrario.
Infine, anche se i missili balistici presenti e futuri divenissero realmente ``impotenti ed obsoleti'', altri e non meno micidiali sistemi nucleari, come ad esempio bombardieri e missili da crociera, resterebbero più o meno intoccati dall'Sdi. Le prospettive di un'efficace difesa contro i secondi, in particolare, sono ancora più remote di quelle della difesa anti-balistica.
Desiderabilità strategica (7). L'ultima e forse più delicata problematica aperta dall'Sdi riguarda la desiderabilità di una difesa strategica qualora essa risultasse tecnologicamente ed economicamente possibile. Molti esperti, delle più diverse estrazioni politiche, ritengono che, "se fosse possibile", una difesa che eliminasse lo spettro della distruzione nucleare sarebbe desiderabile. Noi crediamo invece che la questione, per quanto non ancora definitivamente risolta e forse non risolvibile, vada vista in termini più ampi: è necessario cioè definire i problemi dell'attuale situazione strategica generale, nucleare e non; esaminare quindi quali alternative la potrebbero sostituire; e valutare infine le conseguenze di un ipotetico cambiamento verso una di esse (diciamo "verso", e non "in", perché la fase di transizione da una situazione strategica ad un'altra presenterebbe problemi suoi propri che non potrebbero essere trascurati).
La filosofia di base che sta dietro all'Sdi è che oggi il mondo vive nella paura della devastazione nucleare dove prevale l'equilibrio del terrore reciproco tra blocchi (è ironico che questa visione sia più o meno la stessa di molti gruppi pacifisti e di sinistra un po' ovunque). Questa interpretazione della situazione strategica distorce però la realtà. Il terrore presuppone paura, e la paura presuppone a sua volta che esista un'incertezza circa la possibilità che un qualche evento indesiderato possa per un qualche motivo avere luogo. Al contrario, oggi le varie potenze nucleari, e in primo luogo le superpotenze, sanno con certezza che ad un loro attacco nucleare (e forse anche ad uno non nucleare) ne seguirebbe uno più o meno altrettanto devastante della parte offesa, ed è su questo che la stabilità della deterrenza si basa.
Ciò non vuol dire che il mondo vive oggi in una condizione ideale: rimane la possibilità, se pur piccola, di una guerra accidentale o di azioni irrazionali da parte di uno degli attori che potrebbe scatenare l'inferno nucleare sul pianeta. E' ovviamente desiderabile che si cerchi di limitare la probabilità che ciò avvenga: c'e senz'altro ancora molto da fare nel settore del comando e controllo delle forze nucleari.
Ma cercare di erigere uno scudo davanti (o al di sopra) degli ICBM sovietici potrebbe ottenere l'effetto opposto. Esaminiamo per prima la possibilità (non inverosimile) che uno scudo anti-balistico parzialmente efficace venisse realizzato da una o più delle potenze nucleari (tralasciamo qui per semplicità la complicazione degli altri sistemi nucleari).
Si creerebbe così una situazione strategica in cui non sarebbe più chiaro come lo è oggi che nessuna delle parti rimarrebbe immune dalla minaccia di distruzione totale in caso di guerra nucleare. Una o più delle parti potrebbe quindi credere (a ragione o a torto, non ha importanza) di essersi sufficientemente protetta da poter attaccare impunemente un avversario. Sarebbe questa una condizione estremamente instabile, specialmente in caso di crisi internazionali, che aumenterebbe senz'altro la propensione di tutte le parti all'uso dell'arma nucleare.
Infatti, da una parte un paese che si fosse reso quasi invulnerabile o si credesse tale sarebbe ovviamente meno incentivato a rinunciare all'uso delle armi nucleari. Dall'altra un paese che temesse un imminente attacco di un nemico parzialmente protetto sarebbe più incentivato ad usare le proprie al più presto per trarne il massimo vantaggio prima che sia troppo tardi, specialmente se anche esso credesse di possedere un sistema difensivo almeno parzialmente efficace. In altre parole, in una situazione di difesa parziale le parti avverse sono spinte ad attaccare per prime allo scopo di minimizzare la forza che il nemico potrebbe lanciare in risposta e che potrebbe penetrare la propria difesa.
L'instabilità di una simile situazione sarebbe ancora più pericolosa se le parti in causa avessero (tramite trattati o unilateralmente) ridotto i rispettivi arsenali a livelli molto bassi. Infatti, in tal caso, sarebbe forse possibile ad una o più delle parti attaccare per prima e ridurre così l'arsenale nemico a livelli nominali di armi residue che una volta lanciate potrebbero essere neutralizzate anche da un sistema di difesa di capacità limitate. E' comunque improbabile che si arrivi mai ad una situazione di questo tipo. E' molto più probabile che allo sviluppo di difese strategiche, specialmente se solo parzialmente efficaci, segua l'aumento, e non la riduzione, delle armi offensive, in quanto ciascuna delle parti cercherebbe di assicurarsi una capacità di risposta che potesse penetrare le difese nemiche e di negare tale capacità a tutti i potenziali nemici.
Esaminiamo ora la possibilità che si riesca a costruire un sistema di difesa strategica efficace al 100%, una difesa cioè totale, che rendesse effettivamente le odierne armi nucleari ``impotenti ed obsolete'' come vorrebbe Reagan. Sarebbe questo uno sviluppo desiderabile? Agli occhi di molti, certamente sì: come non può essere benvenuto un sistema, puramente difensivo, che rendesse inutilizzabili le armi più micidiali esistenti?
Ci sono tuttavia almeno due motivi per sostenere il contrario: il primo concerne la relazione tra armi nucleari e guerra non-nucleare, ed il secondo la fase di transizione dall'odierna prevalenza dell'offesa ad una eventuale futura prevalenza della difesa.
E' opinione diffusa che la presenza delle armi nucleari abbia facilitato il mantenimento della pace tra blocchi, evitando lo scoppio di guerre nucleari o convenzionali in Europa negli ultimi quarant'anni. Questa proposizione è stata discussa in migliaia di libri, articoli e conferenze, ma non è ovviamente possibile provare che essa sia vera o falsa in modo definitivo: forse la pace ci sarebbe stata lo stesso.
Ciò che si può invece argomentare è che la presenza delle armi nucleari introduce nei calcoli strategici e militari dei blocchi la possibilità del loro uso e la possibilità che tale uso non sia controllabile e degeneri in una guerra nucleare generalizzata in cui non ci sarebbero ``vincitori'' e ``vinti'' ma solo ceneri radioattive. In altre parole, indipendentemente dal fatto che ci siano state o meno delle situazioni negli ultimi quarant'anni in cui le armi nucleari abbiano contribuito a preservare la pace, sicuramente è possibile ipotizzare tale situazione per il futuro. E' quindi nell'interesse della pace che i leader delle potenze nucleari non arrivino mai a pensare di poter scatenare una guerra convenzionale senza correre il rischio di scatenare con ciò l'inferno nucleare sul pianeta. Ciò è particolarmente importante per l'Europa, in quanto una guerra convenzionale tra i blocchi si combatterebbe principalmente, e forse esclusivamente, in Europa.
Il secondo motivo per opporsi a un sistema di difesa strategico anche se perfetto è che tale sistema non potrebbe certamente essere approntato all'istante: si dovrebbe certamente passare per una lunga fase di transizione. Tale transizione sarebbe molto probabilmente asimmetrica e pericolosa.
Sarebbe asimmetrica perché le varie potenze svilupperebbero le proprie tecnologie a ritmi diversi e certamente una potenza arriverebbe ad approntare il sistema prima delle altre. Sarebbe pericolosa perché ciò altererebbe l'odierno equilibrio delle forze e la tentazione della potenza resasi invulnerabile alla prevaricazione sulle altre sarebbe forte.
Inoltre, come già accennato, non c'è motivo di credere che al raggiungimento di un efficace sistema difensivo contro i sistemi offensivi di oggi non seguirebbero ulteriori sviluppi tecnologici che riaprirebbero la perenne rincorsa tra offesa e difesa: quindi, l'asimmetricità e la pericolosità di cui sopra sarebbero destinate a ricorrere in perpetuo, in parallelo con cicli dello sviluppo delle tecnologie militari. Ciò è chiaramente contrario agli interessi di tutti.
8. Prospettive
Sono passati oltre tre anni dal discorso di Reagan ed il futuro dell'Sdi è ancora incerto. Vediamo quali sono le più probabili alternative per i prossimi anni, per quanto concerne le successive fasi del programma, e cioè la ricerca, lo sviluppo e lo spiegamento (messa in opera).
La ricerca di base molto probabilmente continuerà, per vari motivi. Primo, essa non è mai stata vietata da alcun trattato, compreso quello del 1972 tra Usa e Urss che proibisce lo spiegamento di difese anti-balistiche.
Secondo, avere una conoscenza di come un sistema di difesa strategica potrebbe funzionare fornisce una garanzia nel caso l'Unione Sovietica (che si oppone all'Sdi ma porta avanti da anni un programma proprio con fini molto simili) decidesse di dotarsi di tale sistema in futuro, in quanto l'occidente potrebbe più facilmente adottare contromisure per sconfiggerlo.
Terzo, il programma di ricerca Sdi è avviato e procede già con una forza d'inerzia sua propria che non si fermerà facilmente.
Quarto, verificare il rispetto da parte dei contraenti di un accordo che vieti la ricerca è praticamente impossibile, in quanto ciascuna parte dovrebbe garantire alle altre l'accesso ai laboratori dove si custodirebbero i più importanti segreti dello stato, militari e non; è impensabile che si possa arrivare a questo tipo di accordo nel prevedibile futuro.
All'estremo opposto, per quanto riguarda l'effettivo spiegamento di un sistema, è probabile che si assista ad una ripetizione della serie di eventi che caratterizzò il declino e l'abbandono del sistema "Safeguard" all'inizio degli anni '70, e per più o meno gli stessi motivi, e cioè l'impossibilità di una difesa perfetta e la dubbia desiderabilità di una difesa imperfetta.
Ci sono state due posizioni di principio dell'amministrazione Reagan che lasciano pensare a questo, anche se ovviamente non lo dichiarano esplicitamente. Primo, Reagan nel novembre del 1985 dichiarò che lo spiegamento dell'Sdi sarebbe avvenuto solo dopo l'eliminazione totale dei missili offensivi da parte delle due superpotenze. Data l'estrema improbabilità di tale evenienza, è pensabile che l'Amministrazione abbia scelto questa formula per posticipare in un futuro lontano ed inimmaginabile, ma senza ammetterlo, l'impegno a dotare il paese di una difesa le cui difficoltà si stanno dimostrando forse più insormontabili di quanto si pensasse tre anni fa.
La seconda posizione americana che fa pensare all'improbabilità dello spiegamento è la continua promessa di fornire anche l'Unione Sovietica di un pari sistema difensivo non appena approntato. Se, come è stato per gli scorsi tre anni, Washington continuerà a promettere questo, sarà sempre più difficile poi rinnegare la parola (questa promessa ha senz'altro contribuito all'immagine pubblica dell'Sdi, ma il rinnegarla la danneggerebbe seriamente). Se si assume però come è ragionevole fare, che gli Usa mai fornirebbero all'Urss le tecnologie più sofisticate e che la promessa è pura propaganda, allora si deve concludere che l'amministrazione crede che il momento di mantenere la parola non arriverà nel prevedibile futuro, cioè non ci sarà uno spiegamento.
Tra la ricerca di base e lo spiegamento corre la vasta fascia grigia della sperimentazione. In particolare, il confine tra sperimentazione e ricerca non è definito chiaramente. Un problema che ciò comporta è che la sperimentazione, a differenza della ricerca, è vietata dal trattato anti-balistico del 1972, che anche gli Usa vogliono mantenere e la cui violazione potrebbe danneggiare forse irreparabilmente il processo di controllo degli armamenti che procede, con alti e bassi, da oltre vent'anni.
Data l'improbabilità di uno spiegamento e la probabile continuazione della ricerca di base, è nella fascia grigia della sperimentazione che i negoziati s'incentreranno ed è qui che forse un ragionevole compromesso potrà essere raggiunto, a cominciare con una definizione più chiara del limite tra ricerca e sperimentazione.
Al momento la difesa strategica, basata nello spazio o a terra, fondata su nuove o vecchie tecnologie, non è né auspicabile né probabile. Il predominio dell'offesa sulla difesa continuerà nell'era atomica almeno per un'altra generazione, e, anche se l'attuale non è certamente un assetto strategico perfettamente stabile e rassicurante, le prospettive offerte dall'Sdi non sono affatto migliori.
NOTE
1. Testo in "Survival", mag.-giu. 1983, pp. 129-130.
2. Per una esposizione più completa della storia della difesa anti-balistica, cfr. SCHWARZ D. N., ``Past and Present: the Historical Legacy'' in SCHAWARTZ D. N. e CARTER A. B. (a cura di), "Ballistic Missile Defence", Brookings Institution, Washington, D.C., 1984, pp. 330-350.
3. Cfr. SCHELLING T.C. e HALPERIN M. H., "Strategy and Arms Control", The Twentieth Century Fund, New York, 1961, p. 58.
4. Cfr. GLASER C. L., ``Why Even Good Defences May Be Bad'', in "International Security", vol. 9 no. 2, p. 92.
5. Per un'ottima spiegazione del problema della missione della difesa e delle prospettive di una difesa più o meno perfetta, cfr. CARTER A. B., "Directed Energy Missile Defense in Space", Background paper preparato per l'Office of Technology Assessment, Congresso degli Stati Uniti, apr. 1984, pp. 65-81.
6. Per una trattazione ed esaurientemente delle problematiche tecnologiche e dell'architettura della difesa, cfr. OFFICE OF TECHNOLOGY ASSESSMENT, "Ballistic Missile Defence Technologies", Congresso degli Stati Uniti, set. 1985, pp. 139-197.
7. I vari aspetti strategici del l'Sdi sono stati trattati in innumerevoli pubblicazioni specializzate. Cfr., tra l'altro, "Ballistic Missile Defence Technologies, op. cit.", pp. 119-139; e DRELL S. D., FARLEY P. J., HOLLOWAY D., "The Reagan Strategic Defence Initiative", Ballinger Publishing Company, Cambridge (Ma), pp. 7-39. Per una trattazione in appoggio alla linea dell'amministrazione Usa sull'Sdi, cfr. JASTROW R., "How to Make Nuclear Weapons Obsolete", Little, Brown Co., Boston, 1985.