di Mauro MarèIRDISP-ISTITUTO DI RICERCHE PER IL DISARMO, LO SVILUPPO E LA PACE
SOMMARIO: Va bene la corsa al riarmo, ma che c'entra l'Italia? Non sono gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica i promotori di tale corsa? Che le due superpotenze siano i principali responsabili della corsa al riarmo è vero. I principali, ma non gli unici. Anche l'Italia ha la sua parte di responsabilità. Minore, ma non trascurabile. In cifre assolute la spesa militare dell'Italia è stata nel 1985 l'ottava al mondo. Quanto al numero di uomini alle armi siamo tra i primi quindici. E tra gli esportatori mondiali di armamenti, gli italiani figurano nei primi sei posti. Il peso del settore militare sul complesso dell'economia italiana è ancora piuttosto contenuto: la spesa assorbe il 2,7% del prodotto interno lordo; le armi rappresentano il 2,7% della ricchezza prodotta dall'industria e il 2,3% delle esportazioni. Inoltre le minacce militari alla sicurezza dell'Italia sono meno gravi di quelle che si trovano a fronteggiare numerosi altri attori internazionali - compresi molti nostri alleati. Siamo quindi in una sit
uazione che offre molte opportunità di contenimento della spesa, di sperimentare conversioni al civile delle produzioni militari, di promuovere una politica di sicurezza realista e distensiva. Sfortunatamente queste opportunità non vengono colte. Al contrario nell'ultimo decennio s'è affermata la tendenza all'espansione che è urgente arrestare. E' dalla metà degli anni '70, infatti, che l'Italia comincia a figurare tra i principali esportatori di sistemi d'arma, e che la spesa militare supera i tassi di crescita annuale concordati in sede NATO. Ed è sempre in quelo periodo che cominciano a farsi sentire i sostenitori di un "nuovo ruolo" militare dell'Italia nel Mediterraneo. Il "Libro bianco", presentato dal ministro della Difesa Spadolini nell'inverno 84-85, sintetizza e mette a punto questi sviluppi, ovviamente dalla parte di chi li ha sostenuti e si augura che proseguano. Questo volume, invece, fa emergere i dubbi, gli interrogativi, le proposte alternative rispetto a quello che sinora è stato un monologo
dell'establishment.
("L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO" - Un contro-libro bianco della difesa - a cura di Marco De Andreis e Paolo Miggiano - Prefazione di Roberto Cicciomessere - Franco Angeli Libri, 1987, Milano)
3. I BENI PUBBLICI, IL "FREE RIDING" E LA RIPARTIZIONE DELL'ONERE DELLA DIFESA NELLA NATO
di Mauro Marè
1. Introduzione
Le relazioni tra gli stati a livello internazionale assumono in genere le forme della cooperazione e/o del conflitto. Più concretamente, le situazioni reali si avvicinano a posizioni intermedie tra questi due estremi. All'interno di momenti stabili di cooperazione, ad esempio, sorgono di frequente situazioni di conflitto più o meno accentuate e viceversa; ne è testimonianza, ad esempio, il funzionamento e l'operare di molte organizzazioni internazionali tra le più note - il Fmi, il Gatt, ecc.
Non sorprende quindi che al centro dello studio delle relazioni internazionali ci siano, già da molto tempo, i temi della cooperazione, della sua evoluzione e delle sue prospettive, dei rapporti di cooperazione e di conflitto tra i diversi paesi. Un caso specifico di cooperazione di notevole importanza è, ad esempio, quello che riguarda la fornitura e l'offerta da parte di alcuni stati di beni e servizi collettivi.
Una simile materia può naturalmente essere affrontata con diverse prospettive e avere come esemplificazione casi alquanto diversi tra loro. L'offerta collettiva da parte di più paesi di alcuni beni e servizi può infatti riguardare il campo monetario, come il campo politico, il campo economico come anche il campo della sicurezza militare.
In questo capitolo ci soffermeremo sui problemi relativi alla fornitura collettiva a livello internazionale (cioè di una offerta congiunta di più paesi) di un particolare tipo di bene: la sicurezza e in particolare quella offerta dalla Nato ai paesi membri.
In virtù delle particolari caratteristiche di questo bene si è soliti, nella letteratura su questo argomento, fare ricorso alla teoria tradizionale dei beni pubblici per analizzare l'offerta di questo bene e le condizioni della sua efficienza e ottimalità.
L'approccio usuale che è prevalso negli anni passati è stato quello di riconoscere al bene ``sicurezza'' lo status di bene pubblico internazionale per la cui offerta si ponevano e si pongono problemi e difficoltà di non facile soluzione.
Un approccio mediante la teoria dei beni pubblici rende possibile in effetti uno studio approfondito dei beni offerti dalle organizzazioni internazionali (in special modo la difesa), delle loro caratteristiche e condizioni di offerta, della ripartizione dei costi connessi a questa offerta. Esso consente, al contempo, di introdurre notevoli espedienti semplificatori nello studio dei meccanismi e degli incentivi che spingono diversi paesi ad entrare e ad unirsi ad altri in alcune organizzazioni internazionali.
Nel corso di questo capitolo verranno richiamate: a) nel primo paragrafo, la teoria dei beni pubblici e in particolare le caratteristiche di "indivisibilità" e di "esternalità" di questi beni; b) si cercherà, inoltre, nel secondo paragrafo, seguendo i più recenti sviluppi della letteratura sull'argomento, di giungere ad una definizione più circostanziata e realistica del bene pubblico internazionale ``difesa collettiva''; c) si discuterà brevemente, nel terzo paragrafo, l'ipotesi del "free riding" (1), le conseguenze, una volta accettata questa ipotesi, di tipo teorico ed empirico sul funzionamento degli organismi internazionali (in particolare della Nato), le sue implicazioni strategiche; d) si analizzerà in seguito, nel quarto paragrafo, il tema centrale di questo capitolo, oggi come in passato di grande rilevanza strategica: il problema del "burden sharing", ovvero la questione della ripartizione dell'onere della difesa tra i paesi membri della Nato; e) si effettuerà, infine, qualche breve osservazione co
nclusiva.
2. I beni pubblici
E' utile, per la nostra discussione, richiamare, seppur brevemente, la definizione e le caratteristiche di un bene pubblico. L'economista americano P. Samuelson ha fornito al riguardo una definizione alquanto esplicita, secondo la quale i beni di consumo collettivo (come egli li chiama) sono dei beni di cui tutti godono in comune; il consumo di questi beni da parte di ciascun individuo non comporta alcuna riduzione del consumo da parte di qualsiasi altro individuo (2).
John Head ha invece distinto due caratteristiche principali dei beni pubblici (3).
La prima è quella che è stata definita "indivisibilità" o anche "offerta congiunta". Una volta che un bene con caratteristiche pubbliche è stato offerto ad un individuo, eguali quantità di questo bene con qualità identiche potranno poi essere rese disponibili ad altri individui senza costi addizionali. Il bene pubblico è ad offerta congiunta nel senso che, una volta prodotta, una qualsiasi data unità del bene pubblico è disponibile a tutti nella stessa misura. L'offerta di una data unità di bene pubblico ad un individuo e l'offerta della stessa unità ad altri individui sono, chiaramente, prodotti congiunti (4).
Una definizione così rigida di bene pubblico, cioè l'ipotesi dell'esistenza di un bene pubblico "puro", solleva inevitabilmente dei problemi. Gli esempi più frequentemente riportati di beni pubblici (l'illuminazione fornita da un faro alle navi, la difesa, i programmi televisivi, l'aria pulita, le autostrade ecc.) non sembrano infatti soddisfare, ad una analisi più ravvicinata, in maniera così precisa le caratteristiche della definizione. Solitamente si incontrano dei ``limiti di capacità'' molto prima che il bene sia reso egualmente disponibile a tutti e, spesso, ancor prima di incontrare limiti di capacità in senso stretto si verificano variazioni della qualità. Nel caso, ad esempio, di una strada congestionata, si è soliti riconoscere che il servizio offerto in una simile situazione sia qualitativamente inferiore a quello offerto dagli stessi beni meno intensamente utilizzati (5).
Da queste considerazioni ne segue che è necessario adottare una definizione meno rigida di bene pubblico e che il concetto di bene pubblico puro deve essere ritenuto più propriamente un ``caso limite estremo'' (6). Se, da una parte, l'"offerta congiunta" rimane una caratteristica essenziale del bene pubblico, dall'altra, tuttavia, si deve ammettere che oltre un certo punto il consumo addizionale di una persona implica la necessità di una corrispondente riduzione nel consumo di altri (7).
La seconda caratteristica che denota un bene pubblico à la sua capacità, una volta offerto, di generare economie esterne, cioè la proprietà di "non esclusione". Un bene pubblico è un bene per il quale non è possibile confinare i benefici che derivano dalla sua offerta soltanto a coloro disposti a pagare per questo bene (8). L'esternalità di un bene pubblico consiste nel fatto che i suoi benefici diventano disponibili a tutti una volta che questo bene sia stato offerto. Questi benefici non possono essere ripartiti tra gli individui in base alla loro volontà di contribuire per il bene pubblico, poiché una volta che un simile bene è stato fornito collettivamente nessun individuo può essere facilmente escluso dal suo consumo se non a costi elevati - il costo di offerta di una data quantità fissa di un bene pubblico ad un individuo supplementare è zero (9). Come consumatori di beni pubblici, ciascuno di noi non è rivale di nessun altro: poiché ciò che è disponibile ad un dato individuo è disponibile a tutti, il c
onsumo individuale di un bene pubblico non riduce in nessun modo la quantità consumabile da altri individui (10).
Anche per l'esternalità, come già per l'indivisibilità, non sembrano esserci però, nella realtà, beni con caratteristiche di economie esterne così rigide, cioè dei beni per i quali si possa parlare di ``"completa impossibilità" di esclusione'' (11) - l'impossibilità di escludere altri individui da almeno una parte dei benefici. Head ha discusso e dimostrato che nella realtà ci sono parecchi beni che presentano economie esterne anche di notevole entità, senza per questo avvicinarsi però ad una completa impossibilità di esclusione.
Il caso di un bene pubblico "puro" va quindi visto come un caso limite, rispetto al quale individuare il grado di ``pubblicità'' più o meno elevato di ciascun bene.
Nella vita concreta si possono rinvenire numerosi casi di beni pubblici: si può così andare da beni pubblici solitamente ritenuti puri, come i programmi televisivi o radiofonici di un emittente, l'informazione e la difesa nazionale (12), a beni con minori caratteristiche di ``purezza'' come, ad esempio, un parco o una strada congestionata, fino a beni, secondo alcuni, in una posizione intermedia tra pubblico e privato, con consistenti caratteristiche di esternalità e di indivisibilità quali, ad esempio, la sanità e l'istruzione.
Sul piano internazionale, inoltre, esistono varie forme di beni pubblici solitamente prodotti e offerti dalle organizzazioni internazionali: si va così dal bene prodotto da una alleanza militare tra alcuni stati, quale la Nato - la difesa e la sicurezza collettiva dei membri dell'Alleanza, alla tutela delle risorse comuni (mari, oceani, regolamentazione della caccia alle balene, lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi negli oceani, ecc.), fino al caso di un sistema monetario internazionale (o anche di accordi valutari e ``regimi'' monetari) (13). In larga parte questi beni pubblici internazionali sono il risultato della cooperazione tra alcuni stati, frequentemente associati in organismi internazionali, che hanno un comune interesse nella produzione e nell'offerta di questi beni.
3. Il bene pubblico internazionale ``difesa''
La difesa è stata utilizzata tradizionalmente per rappresentare un bene pubblico puro con le sue proprietà di non rivalità e non escludibilità (14). Nello stesso modo che in uno stato, un'organizzazione di stati alleati per la difesa collettiva produce un bene pubblico, solo che ora al posto dei cittadini dello stato ci sono i paesi membri dell'organizzazione. I beni pubblici sono i tipici prodotti dell'attività dei governi come anche degli organismi e delle istituzioni internazionali.
Il modello della teoria economica della alleanze di Olson e Zeckhauser era volto a spiegare la tendenza, riscontrata da questi due autori, dei paesi più piccoli e poveri della Nato a comportarsi da "free rider", che era ed è tuttora alla base della controversia sul cosiddetto ``problema del "burden sharing"'' (per il quale si rinvia ai paragrafi successivi). Le conclusioni a cui giungevano Olson e Zeckhauser (15) erano che, a differenza di una situazione nella quale il gruppo interessato all'offerta di un bene pubblico è molto largo e in cui la quota dei benefici goduti da ogni individuo è molto piccola - ove, cioè, nessuno avrà un incentivo ad offrire il bene e probabilmente prevarranno comportamenti di totale "free riding" - in una organizzazione che rappresenta un numero ben circoscritto di stati, si avrà che questi potranno avere un incentivo ad offrire il bene pubblico e a sopportare i costi connessi alla sua offerta, ma tenderanno tuttavia ad offrire una quantità subottimale di questo bene. E' molto pr
obabile, inoltre, che si verifichi una tendenza, per i membri più grandi, a sopportare una quota più che proporzionata dell'onere dei costi di offerta del bene pubblico.
Comunque, anticipando parzialmente ciò che verrà detto in seguito, sembra difficile oggi accettare come valido il modello di Olson e Zeckhauser. Da un lato, infatti, i presupposti teorici del loro modello sono alquanto mutati: l'Alleanza atlantica, a guardar bene, non produce più "solo" un bene pubblico puro - la deterrenza fornita dai missili nucleari - ma anche congiuntamente altri beni con caratteristiche private o con caratteristiche pubbliche ``impure''. Dall'altro lato, inoltre, è necessario assumere molta cautela nel trarre conclusioni definitive circa i contributi dei vari paesi ai costi dell'Alleanza atlantica, quando, infatti - lo si vedrà più avanti - gli indicatori che misurano questi contributi sono così poco affidabili e suscettibili di consistenti critiche.
La visione tradizionale della difesa come di un bene pubblico puro ha inoltre suscitato, in alcuni casi, vivaci discussioni e alcuni tentativi di qualificare in maniera più circostanziata le caratteristiche di questo bene. Si è sostenuto che sebbene l'idea di un bene pubblico puro ha avuto nelle discussioni teoriche una indubbia validità, essa si caratterizza, in particolare nel caso della difesa, per alcuni limiti e carenze descrittive ben definite.
In alcuni contributi recentemente pubblicati, Todd Sandler e alcuni suoi colleghi (16) hanno sviluppato un diverso approccio volto ad indagare la natura di bene pubblico "impuro" (17) della difesa. Sandler ha infatti avanzato la tesi che i mutamenti verificatisi agli inizi degli anni '70 nella strategia militare della Nato, lo sviluppo di nuovi sistemi d'arma e altri fattori ancora hanno determinato dei cambiamenti del prodotto dell'Alleanza militare occidentale, rendendo quindi problematica l'applicazione, nello studio delle alleanze militari, del modello dei beni pubblici puri, quale quello proposto ed utilizzato da Olson e Zeckhauser.
I principali mutamenti della strategia militare della Nato a cui fa riferimento Sandler sono, ad es.: l'adozione della dottrina della risposta flessibile ("flexible response"), l'installazione delle armi nucleari tattiche e i Colloqui sulla limitazione delle armi strategiche (Salt). Il modello di produzione congiunta ("joint product model") sviluppato da Sandler (18) è volto ad analizzare gli aspetti di "deterrenza" (cioè un bene pubblico puro) e di "protezione" (nel senso di limitazione dei danni, che ha caratteristiche sia pubbliche che private) della difesa, sottolineando quindi le sue caratteristiche di bene pubblico "impuro".
La difesa collettiva offerta da un'alleanza militare è un bene misto (o un bene pubblico impuro) che presenta aspetti sia di bene privato che di bene pubblico; essa si situa in una posizione tra gli estremi polari dei beni puramente privati e di quelli puramente pubblici (19).
Secondo Sandler, in analogia con lo studio dei beni privati, i prodotti congiunti sono di grande rilevanza per i beni pubblici. Si ha produzione congiunta quando lo stesso input intermedio (o gli stessi input intermedi) produce (producono) due o più prodotti: l'esempio classico è dato dal petrolio da cui si ricava, ad es., la benzina, il kerosene e le fibre sintetiche. Allo stesso modo, nel caso dei beni pubblici, un input intermedio potrebbe produrre uno o più beni pubblici, dei beni privati così come dei beni pubblici impuri (20).
La tesi avanzata da Sandler è che i beni della difesa siano ripartibili in tre categorie: "deterrenti, difensivi e misti".
Un bene di difesa è esclusivamente di dissuasione, "deterrente", quando ha come unico scopo quello di rendere nota una minaccia credibile di ritorsione da parte dell'alleanza militare; è esclusivamente "difensivo" quando è usato per ``proteggere, ritardare, respingere o prevenire'' un attacco; ed è, infine, un bene "misto" quando racchiude con vari gradi, elementi sia deterrenti che difensivi (21).
Le spese per la difesa di un'alleanza militare, come la Nato, producono, in altri termini, "deterrenza" (un bene pubblico puro) - ad es. i missili intercontinentali; "protezione interna" (un bene pubblico impuro, in quanto esibisce alcune caratteristiche di bene privato) la cui funzione è la salvaguardia e la difesa da un attacco - ad es. un reggimento di fanteria posto a protezione di una linea di confine e più in generale le forze convenzionali; come anche dei "benefici del tutto privati", come quelli prodotti dall'impiego delle forze armate per il mantenimento dell'ordine interno, o le ricadute di tipo economico e industriale che il settore militare può avere su quello civile, come anche dei benefici politici interni (22).
Va tuttavia segnalato che concretamente, al di là dei modelli teorici, all'interno dell'Alleanza atlantica non c'è stata in passato una unanime accettazione del carattere pubblico "puro" della deterrenza nucleare fornita quasi esclusivamente dagli Stati Uniti. Una delle motivazioni principali che ha spinto infatti i francesi - ma con motivazioni simili se si vuole anche gli inglesi - ad acquisire un loro deterrente nucleare autonomo, la "force de frappe", è appunto quella basata sulla percezione di una insufficienza del deterrente americano ai fini di una efficace protezione del territorio europeo e, quindi, francese. Un cattivo uso di questo deterrente o, ancor meglio, il timore di un suo "non-utilizzo", nel caso di una invasione delle truppe del Patto di Varsavia dell'Europa occidentale, da parte degli statunitensi, per scongiurare così un'escalation nucleare, sono i principali timori che hanno convinto i francesi a rendersi ``autonomi'' sul piano nucleare.
4. Il problema del "free riding"
L'impiego della teoria dei beni pubblici nello studio delle alleanze militari rende necessario discutere un'ipotesi di particolare rilevanza strategica, solitamente Connessa a questa teoria: l'ipotesi, cioè, del "free riding".
Il problema viene sollevato, infatti, rammentando le proprietà già discusse in precedenza dei beni pubblici - indivisibilità e esternalità nel consumo, dalla capacità imperfetta del produttore del bene pubblico di escludere alcune persone dal consumo di questo bene (23).
Gli individui che agiscono da "free rider" sono gli individui che tentano di beneficiare (o, meglio, beneficiano) di un bene pubblico senza contribuire (o contribuendo meno del dovuto) ai costi di produzione di questo bene (24). In effetti quasi ogni lavoro sui beni pubblici contiene almeno un riferimento al problema del "free rider"; nel corso degli ultimi anni, poi, la teoria dei beni pubblici è parsa concentrarsi in maniera sempre crescente sul problema della corretta rilevazione delle preferenze individuali (di individui, gruppi e nazioni) circa i beni pubblici e la loro offerta.
Le difficoltà per la teoria dei beni pubblici che l'ipotesi del "free rider" produce possono essere agevolmente esposte: supposto infatti che ogni membro di una società è a conoscenza che altri componenti, come lui, sono interessati all'offerta e al consumo di un bene pubblico (e stante la condizione che nessuno può essere escluso dal beneficiare del bene pubblico una volta che questo sia stato offerto), si ha che ciascun individuo può quindi sperare di diventare un "free rider", cioè di beneficiare del bene pubblico senza dover sopportare i costi connessi alla sua offerta (25).
Tuttavia, da un esame più ravvicinato del problema emerge che tale strategia si rivela ottimale dal punto di vista individuale ma non lo è in un ottica collettiva di reciprocità: infatti, se tutti gli individui scelgono una strategia di "free riding", non ci sarà poi nessuna produzione né offerta del bene pubblico in questione.
Buchanan, d'altro canto, ha messo in evidenza che pur riconoscendo che ``un comportamento di tal genere da parte di tutti produrrebbe risultati indesiderati - cioè non vi sarebbero benefici per nessuno -'', tuttavia bisogna ammettere che ``l'individuo non ha interesse a partecipare volontariamente all'accordo poiché egli può raggiungere l'effetto ottimo lasciando che gli altri producano il bene pubblico nella maggiore quantità possibile, mentre egli godrebbe dei vantaggi di essere un "free rider", si assicura cioè i benefici senza partecipare ai costi. Persino nel caso in cui egli dovesse sottoscrivere un accordo di partecipazione ai costi, egli avrebbe un forte incentivo a rompere il contratto e a barare sui termini'' (26).
Riconoscendo in parte la validità delle ipotesi avanzate da Buchanan e da Olson e Zeckhauser, ci sembra tuttavia che il problema del "free rider" sia "essenzialmente" legato al problema dell'"ampiezza" del gruppo di individui o stati per i quali i benefici sono non divisibili (come in realtà hanno riconosciuto gli stessi Olson e Zeckhauser).
In effetti si riscontra che al crescere della dimensione del gruppo cresce la rilevanza di un potenziale comportamento ispirato al "free riding" e quindi aumenta la probabilità che il bene pubblico non possa essere finanziato da contributi volontari (27); o, in altri termini, che all'aumentare della dimensione del gruppo cresca la probabilità di comportamenti da "free rider". Quindi il bene pubblico può finire per non essere né prodotto né offerto.
Più concretamente, il problema può in effetti diventare rilevante in una situazione con ``n'' individui o stati (con ``n'' molto elevato), ove risulta difficile captare le ``vere'' preferenze individuali e in base a queste far pagare i costi di offerta del bene pubblico.
Ci sembra, invece, che l'ipotesi del "free rider", in situazioni comprendenti un numero limitato di attori interessati all'offerta del bene pubblico (quale, ad esempio, la Nato), non abbia una forte rilevanza, o almeno una rilevanza così ampia come quella tradizionalmente prevista dalla teoria.
Chi realmente agisse da "free rider" verrebbe poi facilmente scoperto e ciò provocherebbe minacce e ritorsioni da parte degli altri membri dell'Alleanza fino a una serie di reazioni a catena di cui è difficile prevederne l'esito.
Il comportamento di uno stato e i suoi effetti sull'Alleanza saranno osservati dagli altri membri e influenzeranno il loro comportamento futuro (28).
Va infine messo in evidenza che l'esistenza di minacce e di ritorsioni - quale ad es. quelle oggi riscontrabili all'interno della Nato - di per sé non testimonia l'esistenza del "free riding". Possono essere sufficienti, infatti, delle "percezioni" individuali di un paese, basate su valutazioni soggettive, di comportamenti da "free rider" di altri paesi per innescare una ``guerra'' di minacce e di controminacce e di vere e proprie ritorsioni.
5. La ripartizione dell'onere della difesa della Nato tra i paesi membri
La teoria economica delle alleanze e in particolare le ipotesi sviluppate da Olson e Zeckhauser di un diverso contributo dei vari paesi ai costi comuni dell'Alleanza, ci conducono direttamente al problema della ripartizione dell'onere comune del finanziamento delle spese (o dei costi) della Nato tra i paesi membri.
In effetti, nel corso degli ultimi anni la questione del "burden sharing" ha fatto regolare comparsa nell'agenda della Nato: con maggiore o minore frequenza, la questione di come l'onere delle risorse, necessarie a predisporre e garantire la sicurezza della Nato, debba essere calcolato e distribuito equamente tra vari membri, ha provocato ampie discussioni e vivaci contrasti tra gli alleati (29). Questo problema ha avuto un grande rilievo soprattutto negli Stati Uniti, essendo convinti gli americani di sopportare e finanziare una quota più che proporzionale dell'onere comune della Nato.
Nei primi anni dei rapporti atlantici, gli Stati Uniti sopportarono in modo abbastanza normale una larga parte dell'onere della sicurezza occidentale. Essi erano infatti convinti che la realizzazione di una Europa sicura sia militarmente che economicamente fosse nel loro interesse e sarebbe risultata loro di grande vantaggio: l'Europa infatti avrebbe fornito un mercato essenziale per l'economia americana, a quel tempo in forte espansione e in necessità di reperire mercati di sbocco.
Non appena però l'Europa divenne più ricca economicamente e quindi più autonoma (30), cominciò a nascere e a diffondersi tra gli americani il sospetto e la percezione di un sostanziale comportamento di "free riding" degli europei nel finanziamento della difesa del l'Alleanza (31).
Alla base del dibattito relativo alla ripartizione dell'onere della difesa della Nato, e del perché questo problema è principalmente una "preoccupazione americana", sta, infatti, la percezione degli americani che gli Stati Uniti provvedano alla difesa dell'Europa molto di più degli stessi europei (32).
Più recentemente, e in particolare con l'avvento dell'amministrazione Reagan, si è avuta una consistente ripresa, specie da parte americana, di questa controversia (33). L. J. Sullivan, un consulente per la sicurezza a Washington, ha addirittura sostenuto (34) che nessun problema divide l'Alleanza atlantica quanto la questione del "burden sharing": secondo alcune cifre da lui fornite risulterebbe, infatti, che il 57% delle spese per la difesa degli Usa - che equivalgono al 4% del prodotto interno lordo (pil) e al 17% del totale delle uscite federali statunitensi - sono relative alla difesa collettiva della Nato; in base a ciò egli giudica gli accordi dell'Alleanza atlantica non più sostenibili e ritiene fortemente necessaria l'apertura di un ampio dibattito nel mondo occidentale sulle divisioni delle responsabilità strategiche.
D'altro canto, tutta la controversa questione dell'emendamento ``Nunn-Roth'', preso in esame dal Senato statunitense nel giugno del 1984, ha alquanto lucidamente dimostrato lo stato d'animo americano e in particolare di una larga parte del Congresso.
L'emendamento ``Nunn-Roth'', dal nome dei proponenti, formulava di ridurre il livello delle truppe statunitensi destinate alla Nato di 30 mila unità ogni anno, per la durata di tre anni, a partire dal 1987; questo avrebbe ridotto, dall'attuale livello di 326 mila unità, il numero delle truppe statunitensi di stanza in Europa di 90 mila unità.
Queste riduzioni potevano essere evitate solo se gli europei avessero rispettato il loro impegno, assunto in sede Nato (1978), di aumentare in termini reali le loro spese per la difesa al tasso annuo del 3%.
Un emendamento più o meno con gli stessi fini, ma senza il meccanismo delle riduzioni automatiche contenuto nell'emendamento ``Nunn-Roth'' - e quindi privo della parte più incisiva per gli alleati - fu invece approvato (emendamento ``Cohen'', dal nome del senatore repubblicano del Maine che lo propose) in quel periodo: esso conteneva la risoluzione che gli Usa non avrebbero aumentato il numero del loro personale militare per la Nato dopo il 1985.
Sebbene l'emendamento ``Nunn-Roth'' non riuscì poi concretamente a passare nel Senato (con un margine tuttavia molto ristretto di voti, 55 contro 41), esso contribuì a rafforzare negli statunitensi la convinzione, già largamente radicata, che i partners europei della Nato non contribuiscono abbastanza alla sforzo comune di difesa dell'Alleanza atlantica.
In breve, il messaggio agli europei è molto chiaro: se i paesi europei della Nato non agiscono abbastanza per difendere se stessi (contribuendo cioè alle spese comuni in maniera inadeguata) perché lo dovrebbero fare gli Stati Uniti? (35). Sebbene, infatti, come vedremo la questione del "burden sharing" sia per lo più trattata in modo insufficiente e semplicistico e che il contributo effettivo degli europei alla difesa dell'Alleanza sia largamente sottostimato, un numero sempre crescente di americani crede in effetti che l'Europa non vuole difendere se stessa.
Volgendoci ad analizzare in dettaglio la questione del "burden sharing", si deve discutere prima di tutto il problema di "come l'onere sia definito", e poi analizzare il problema della misurazione e della confrontabilità delle spese per la difesa dei diversi paesi.
L'utilizzo infatti di una espressione quale "burden sharing" comporta la necessità di un consenso su cosa effettivamente l'onere comprende; e questo invece raramente esiste (36). Se infatti l'onere è definito in termini di "risorse necessarie a garantire la sicurezza" dei paesi appartenenti alla Nato, è poi evidente che sorgano delle divergenze di opinione tra i vari membri su cosa costituisca la "sicurezza" di una nazione e di conseguenza su cosa costituisca l'onere.
Il principale motivo di queste differenze è da individuarsi nei diversi ``punti di vista'' espressi dai paesi alleati circa la minaccia esistente per l'Alleanza e nelle diversità di opinioni su cosa è giusto e necessario fare per la difesa nazionale (37).
Analizzando, invece, la valutazione dello sforzo di difesa dei paesi alleati, si può procedere considerando sia la "contribuzione", cioè la quantità di risorse che ogni paese devolve alla difesa - in sostanza fare riferimento agli "input" e al loro "costo" - sia il "rendimento", cioè l'effettiva capacità militare messa in atto dalle spese per la difesa - ovvero l'"output" di queste spese (38).
La valutazione degli input, cioè delle risorse dedicate alla difesa, per confrontare le spese dei vari paesi della Nato, può essere fatta impiegando numerosi indicatori economici (39). I principali sono: a) l'importo totale delle spese per la difesa; b) il tasso di incremento annuo reale delle spese per la difesa; c) la percentuale del prodotto interno (o nazionale) lordo dedicata alla difesa; d) le spese per la difesa per abitante; e) le spese per la difesa in percentuale della spesa statale totale; f) e, infine, degli altri indicatori volti a rilevare congiuntamente la ricchezza (cioè la capacità contributiva potenziale di ciascun paese) e le spese militari dei vari paesi.
Se si guarda così alle spese per la difesa dei vari paesi della Nato espresse in percentuale del prodotto interno lordo (tab. 1) si nota in effetti una consistente contribuzione degli Stati Uniti (secondi soltanto alla Grecia) della Turchia e della Gran Bretagna che presentano insieme percentuali quasi sempre superiori al 5%; segue un gruppo di paesi (Francia, Portogallo, Germania Federale, Belgio, Olanda e Norvegia) che si caratterizza per una quota delle spese della difesa sul pil oscillante tra il 3 e il 4 per cento; infine gli ultimi quattro paesi (Italia, Danimarca, Canada e Lussemburgo) con le quote più basse.
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Tab. 1 Spese per la difesa dei vari paesi della Nato in % del pil
paese 1980 1981 1982 1983 1984 1985*
Belgio 3,4 3,5 3,4 3,3 3,2 3,3
Danimarca 2,4 2,5 2,5 2,4 2,3 2,3
Francia 4,0 4,2 4,1 4,2 4,1 4,1
Germania Ovest 3,3 3,4 3,4 3,4 3,3 3,3
Gran Bretagna 5,0 4,8 5,0 5,3 5,3 5,4
Grecia 5,7 7,0 6,9 6,3 7,2 7,1
Italia 2,4 2,5 2,6 2,7 2,7 2,7
Lussemburgo 1,2 1,2 1,2 1,2 1,2 1,2
Norvegia 2,9 2,9 3,0 3,1 2,8 3,2
Olanda 3,1 3,2 3,2 3,2 3,2 3,1
Portogallo 3,5 3,5 3,4 3,4 3,3 3,2
Turchia 4,3 4,9 5,2 4,8 4,4 4,4
Nato Europa 3,7 3,8 3,8 3,8 3,8 3,8
Canada 1,8 1,8 2,1 2,0 2,2 2,2
Stati Uniti 5,5 5,8 6,4 6,6 6,5 6,9
Totale Nato 4,4 4,7 5,1 5,3 5,3 5,6
* = Stime provvisorie. Va inoltre ricordato che per la Germania le cifre sono state calcolate senza includere le spese per Berlino Ovest; inoltre le cifre per la Francia sono soltanto indicative, non facendo parte quest'ultima della struttura militare integrata della Nato.
Fonte: "Nato's Sixteen Nations", dic. 1985-gen. 1986, pp. 86-87.
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Tali cifre però, e il quadro che ne emerge - come anche quello che risulta dalla tab. 2 (spese per la difesa per abitante), ove si nota, tuttavia, ancora una forte contribuzione degli Stati Uniti ma, ad esempio, un ruolo più modesto per Grecia, Portogallo e soprattutto Turchia e un aumento del peso della Norvegia - vanno assunti con estrema cautela date le profonde differenze dei sistemi di difesa dei vari paesi della Nato.
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Tab. 2 Spese per la difesa procapite dei vari paesi della Nato, dollari Usa
paese 1980 1981 1982 1983 1984 1985*
Belgio 270 273 272 272 273 289
Danimarca 265 267 266 269 266 269
Francia 375 388 390 396 393 390
Germania Ovest 358 369 367 371 371 379
Gran Bretagna 396 402 422 429 442 452
Grecia 205 249 245 223 260 258
Italia 160 159 163 167 171 174
Lussemburgo 100 105 109 112 113 112
Norvegia 374 383 397 411 391 452
Olanda 281 291 296 296 305 305
Portogallo 71 71 71 69 65 65
Turchia 54 54 55 52 50 51
Nato Europa 270 276 280 282 285 289
Canada 235 240 248 263 281 285
Stati Uniti 786 820 875 926 970 1040
Totale Nato 473 491 515 538 558 589
* = Stime provvisorie. Va inoltre ricordato che per la Germania le cifre sono state calcolate senza includere le spese per Berlino Ovest; inoltre le cifre per la Francia sono soltanto indicative, non facendo parte quest'ultima della struttura militare integrata della Nato.
Fonte: "Nato's Sixteen Nations", dic. 1985-gen. 1986, pp. 86-87.
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La valutazione dell'output o del rendimento delle spese per la difesa viene solitamente effettuata, data la difficoltà a disporre di reali misure di output, analizzando il modo con cui le spese per la difesa sono impiegate: ad es., la percentuale di risorse in termini di personale e di equipaggiamento dedicata a certe aree ``chiave'', o la devoluzione all'interno delle spese per la difesa a investimenti in attrezzature e macchinari o anche in addestramento per l'esercito anziché a voci di minore rilevanza, in termini di efficacia di combattimento, come le pensioni (40).
Ora, entrambi i tipi di indicatori - quelli dell'input e quelli dell'output - presentano notevoli inconvenienti, sia concettualmente nella loro definizione sia empiricamente, che rendono complessa l'analisi del "burden sharing" all'interno della Nato.
Notevoli problemi sono creati infatti dalla fluttuazione dei tassi di cambio delle monete dei vari paesi, nonché dalla differenza della qualità e degli indici utilizzati per depurare i dati dall'inflazione (41). Un andamento negativo del dollaro sui mercati internazionali, ad esempio, può far sembrare le spese degli europei più elevate di quanto non lo siano nella realtà e viceversa (quindi, dato l'andamento del dollaro negli ultimi anni, le spese degli europei espresse in dollari 1984 e 1985 sono sottostimate).
Per ciò che concerne l'inflazione, la Nato ha cercato di ovviare a queste difficoltà adottando una definizione concordata delle spese per la difesa dei vari paesi alleati ma ancora non è riuscita a stabilire un deflattore omogeneo comune che elimini gli effetti dell'inflazione dalle spese per la difesa dei paesi membri.
Si dovrebbe tener conto, inoltre, nell'utilizzo degli indici che raffrontano per le varie nazioni i costi del personale e ancor meglio le spese per la difesa in percentuale del pil, del fatto che i paesi della Nato hanno sistemi diversi di reclutamento e di direzione del personale; nei paesi ove il servizio militare è obbligatorio, infatti, i più bassi salari corrisposti al personale di leva mantengono le spese per la difesa per abitante e in percentuale del pil a livelli molto bassi e non consentono di effettuare confronti circostanziati e realistici con gli altri paesi. Alcune stime hanno reso noto che se le spese degli europei fossero corrette per la diversa remunerazione data al personale, quest'ultime aumenterebbero del 20%, raggiungendo all'incirca un importo pari a quello degli Stati Uniti (42).
Altri ancora hanno sottolineato l'influenza che, negli indicatori che mostrano la percentuale del bilancio nazionale dedicata alla difesa, ricoprono l'ampiezza e le diverse forme dei rispettivi bilanci - definizioni più o meno ampie di bilancio nazionale; differente struttura delle imposte.
Parimenti importante è, infine, che gli indicatori, oltre a informazioni puntuali relative ai singoli anni, evidenzino i trend di sviluppo delle spese per la difesa dei vari paesi (43).
La conclusione sembra essere quindi quella che nessuna misura singola (gli indici relativi alla ripartizione dell'onere della difesa tra i paesi membri della Nato) fornisce una misura valida dei contributi degli alleati ad un'equa distribuzione dell'onere (44). In altre parole, come già indicato alcuni anni fa nel "Rapporto del Dipartimento della difesa" statunitense (45), non esiste alcuna formula matematica che renda possibile combinare, con pesi appropriati, tutti gli elementi più importanti del "burden sharing" in un indicatore "ottimale" da utilizzare per una ripartizione in quote eque dell'onere comune della Nato.
6. Conclusioni
Il "burden sharing" è quindi, in conclusione, un problema di difficile soluzione. Ricorrendo infatti a dati di un tipo anziché di un altro - o esprimendoli in una moneta anziché in un altra - sembra che si possa dimostrare una tesi e il suo esatto contrario.
Tuttavia, la questione della ripartizione dei costi non ha solo una dimensione ``oggettiva''; ne ha una ``soggettiva'' che forse è anche più rilevante.
Se, infatti, i costi e le risorse che un paese deve sostenere e devolvere alla difesa nazionale e a quella collettiva dell'Alleanza atlantica devono essere tali da garantire la sicurezza del paese in questione, quest'ultima oltre che da dati oggettivi dipenderà anche da percezioni e valutazioni soggettive della propria capacità di difesa e di attacco (compresa quella ovviamente dei propri alleati) e di quelle dell'avversario (le forze del Patto di Varsavia).
Se si assume quindi una situazione di ``lealtà'' nei comportamenti di tutti i paesi alleati nel valutare cosa è necessario fare per la propria sicurezza, si possono lo stesso avere delle diversità di valutazioni dovute ad alcuni diversi fattori: ad esempio, divergenze sulla gravità della minaccia o sul come affrontarla (più o meno diplomazia o più o meno azioni militari) o, ancora, sulla strategia con cui fronteggiare questa minaccia (46).
D'altro canto è stato recentemente messo in evidenza (47), molto correttamente a nostro avviso, che una più bassa quota di spese per la difesa che caratterizza alcuni paesi (ad es. il Lussemburgo, ma se si vuole anche l'Islanda che non ha spese per la difesa) potrebbe semplicemente esprimere non tanto un comportamento da "free rider", quanto l'insensibilità della sicurezza militare di questi paesi rispetto alla loro forza militare. La sicurezza del Lussemburgo non sarebbe infatti raddoppiata se questo paese duplicasse le proprie spese militari.
Sempre K. Knorr ha inoltre sottolineato l'importanza di un variegato insieme di fattori qualitativi che, oltre a quelli quantitativi già discussi, entrano a far parte del problema del "burden sharing", e di cui si dovrebbe tener conto quando lo si misura: dall'addestramento delle truppe, al morale dell'esercito, al numero delle riserve disponibili fino alle misure di efficienza degli eserciti e delle spese per la difesa. Misurare tutti questi fattori è però molto difficile e complesso; tuttavia questo non li rende meno importanti e significativi degli altri fattori quantitativi.
Nonostante ciò, l'elemento davvero decisivo a nostro avviso nella questione del "burden sharing", elemento quasi mai considerato, è che non si può calcolare (e discutere su) una misura equa nella ripartizione dei costi senza tenere conto anche delle differenze nella distribuzione dei "benefici" tra i vari paesi, che l'appartenenza all'Alleanza comporta.
Una contribuzione ai costi dell'Alleanza molto onerosa (o più che proporzionale) potrebbe infatti essere controbilanciata da una quota di benefici altrettanto ampia (48). Purtroppo, anche la stima dei benefici, essendo quest'ultimi sostanzialmente degli elementi qualitativi, è molto difficile e complessa.
Il fatto quindi che un alleato sopporti un onere economico più ampio di quello sopportato dagli altri alleati, di per sé non prova l'esistenza di uno ``sfruttamento'', in quanto questo onere economico può essere compensato da una quota di benefici netti, derivanti dal saldo di costi e benefici di altro tipo, più grande (49).
Si possono a questo proposito ricordare i consistenti benefici che gli Stati Uniti traggono, sul piano economico, politico e militare dal loro ruolo di leader dell'Alleanza atlantica. Nella politica militare, nella politica estera, come anche nella politica economica le posizioni e la volontà statunitensi risultano poi, il più delle volte, quelle determinanti e decisive. Si potrebbe, inoltre, anche addirittura sostenere che esista una relazione tra il contributo americano e la posizione di leader degli Stati Uniti nell'Alleanza. I dati, tuttavia, in ogni caso, sembrano evidenziare un comportamento leale e corretto degli alleati europei.
K. Knorr (50), diversamente, ha evidenziato gli eventuali ``prezzi'' che la leadership americana potrebbe far pagare agli altri paesi dell'Alleanza: ad es., una politica estera e militare troppo aggressiva o per certi versi ``provocatoria'' degli Stati Uniti nei confronti di paesi ostili potrebbe provocare rappresaglie, scontri armati o vere e proprie guerre in cui poi si potrebbero trovar coinvolti gli altri paesi della Nato.
Molti di questi punti controversi derivano, a nostro avviso, a guardar bene, principalmente dal diverso ruolo che a livello mondiale già ricoprono, e aspirano a ricoprire nel futuro, gli Stati Uniti e i paesi europei: un ruolo globale con interessi mondiali gli Stati Uniti, un ruolo e un profilo molto più circoscritto i paesi europei. Dietro queste ambizioni strategiche risiede una diversa percezione che gli Stati Uniti e l'Europa hanno del rischio e della minaccia sovietica nel mondo.
Queste diversità tra i vari paesi alleati ci sembra che confermino ancora di più la tesi secondo cui la questione del "burden sharing", per essere correttamente analizzata, richieda in definitiva un approccio più ampio, non limitato solo al ``chi paga quanto'', ma in cui si tenga conto dell'insieme complessivo dei costi e dei benefici e, più in generale, delle divisioni delle responsabilità strategiche; ovvero, delle divisione all'interno della Nato dei ruoli e dei compiti dei diversi paesi.
In conclusione, negli studi sull'argomento non sembra che i contributi degli europei alle spese dell'Alleanza atlantica, pur nelle loro differenze e variabilità nazionali, siano riconosciuti nella loro giusta misura e nelle loro esatte dimensioni.
Alcune stime particolarmente attendibili (i "Rapporti sui contributi degli alleati alla difesa comune" del segretario alla Difesa americana Weinberger - ad esempio, quelli del 1982, 1984 e 1985 - e le stime dell'Eurogruppo della Nato) (51) sostengono, in ogni caso, che ``gli alleati nel loro complesso sembrano sopportare in gran parte un'equa porzione dell'onere di difesa della Nato''.
NOTE
1. Per "free riding" si intende il comportamento di alcuni individui o gruppi di stati che, in relazione all'offerta di un bene pubblico (interno o internazionale), ne beneficiano sopportando però una quota inferiore dei costi dovuti. Si veda per una più ampia definizione del problema, il quarto paragrafo del presente capitolo.
2. SAMUELSON P. A., ``The Pure Theory of Public Expenditure'', "Review of Economics and Statistics", nov. 1954, p. 387.
3. HEAD J. G., ``Public Goods and Public Policy'', "Public Finance", 1962, n. 3.
4. HEAD J. G., "op. cit.", pp. 200-201; HEAD J. G., ``Public Goods and Multilevel Government'', in DAVID W. L. (a cura di), "Public Finance, Planning and Economic Development: Essays in Honour of Ursula Hicks", McMillan and St' Martin Press, London and New York, 1973, pp. 20-43.
5. HEAD J. G., ``Public Goods and Public Policy'', "op. cit.", pp. 200-201.
6. SAMUELSON P. A., ``Diagrammatic Exposition of a Theory of Public Expenditure'', "Review of Economics and Statistics", nov. 1955, p. 350.
7. HEAD J. G., "op. cit.", p. 201.
8. HARTLEY K., PEACOCK A., ``Combined Defence and International Economic Cooperation'', "World Economy", giu. 1978, n. 3, p. 332.
9. ATKINSON A. B., STIGLITZ J. E., "Lectures on Public Economics", McGraw-Hill, Maidenhead, 1980, p. 484.
10. KENNEDY G., "Defense Economics", Duckworth, London, 1983, p. 24.
11. HEAD J. G., "op. cit.", p. 206.
12. ATKINSON A. B., STIGLITZ J. E., "Ibidem".
13. Una brillante e completa trattazione dei problemi relativi all'esistenza e all'offerta dei beni pubblici internazionali si può trovare nel lavoro di FREY B. S., "International Political Economics", Blackwell, Oxford, 1984, (in particolare il cap. 7). Per i beni pubblici relativi al campo monetario si può vedere KRASNER S. (a cura di), "International Regimes", Cornell University Press, 1983.
14. 0LSON M., ZECKHAUSER R., ``An Economic Theory of Alliances'', "Review of Economics and Statistics", ago. 1966,p. 267; OLSON M., ZECKHAUSER R., ``Collective Goods, Comparative Advantage, and Alliance Efficiency'', in McKEAN R. N. (a cura di) "Issues in Defense Economics", National Bureau of Economic Research, N. Y., 1967; SANDLER T., ``Impurity of Defence: An Application to the Economics of Alliances'', "Kyklos", n. 3, 1977, p. 444; KENNEDY G., "Burden Sharing in NATO", Duckworth, London, 1979, p. 25; HARTLEY K., PEACOCK A., ``Combined Defence and International Economic Cooperation'', "World Economy", n. 3, giu. 1978, p. 332.
15. OLSON M., ZECKHAUSER R., 1966, "op. cit.", p. 268.
16. SANDLER T., 1977, "op. cit."; SANDLER T., FORBES J. F., ``Burden Sharing, Strategy, and the Design of NATO'', "Economic Inquiry", lug. 1980; CORNES R., SANDLER T., ``Easy Riders, Joint Production, and Public Goods'', "Economic Journal", set. 1984; MURDOCH J. C., SANDLER T., ``A Theoretical and Empirical Analysis of NATO'', "Journal of Conflict Resolution", giu. 1982, MURDOCH J. C., SANDLER T., ``Complementarity, Free Riding, and the Military Expenditure of NATO Allies'', "Journal of Public Economics", nov. 1984.
17. Un bene pubblico ``impuro'' è un bene che presenta vari gradi di rivalità e/o di escludibilità. Beni di questo tipo sono, ad esempio, i sistemi dell'informazione, le riserve di caccia, i canali artificiali, le trasmissioni via satellite dei programmi televisivi, ecc.
18. SANDLER T., 1977, "op. cit."
I9.SHAFFER S. M., ``Alliance Politics: A Model Based on Divisibility of Payoff'' in LOEHR W., SANDLER T. (a cura di), "Public Goods and Public Policy", Sage Publications, Beverly Hills, 1978, p. 151.
20. LOEHR W., SANDLER T., ``On the Public Character of Goods'' in LOEHR W., SANDLER T., (a cura di), 1978, "op. cit.", p. 23.
21. 5ANDLER T., 1977, "op. cit.", p. 445; KENNEDY G., 1983, "op. cit.", p. 42.
22. SANDLER T., 1977, "ibidem"; LOEHR W., SANDLER T., 1978, "ibidem"; SANDLER T., FORBES J. F., 1980, "op. cit.", pp. 339-341; WHYNES D. K., BOWLES R. A., "The Economic Theory of The State", M. Robertson, Oxford, 1981, p. 178.
23. LOEHR W., SANDLER T., 1978, "op. cit.", p. 27.
24. HYMAN D. N., "Public Finance", Dryden Press, Chicago, 1983, p. 138.
25. JOHANSEN L., ``The Theory of Public Goods: Misplaced Emphasis?'', "Journal of Public Economics", feb. 1977, p. 147; SCHNEIDER F., POMMEREHNE W. W., ``Free Riding and Collective Action: An Experiment in Public Microeconomics'', "Quarterly Journal of Economics", nov. 1981, p. 689.
26. BUCHANAN J. M., "The Demand and Supply of Public Goods", Rand Mc Nally, Chicago, 1968, p. 101.
27. BROWNING E. K., BROWNING J. M., "Public Finance and the Price System", McMillan, N. Y., 1979, p. 24.
28. SCHNEIDER F., POMMEREHNE W. W., 1981, "op. cit.", p. 691.
29. LUNN S., "Burder-Sharing in NATO", Routledge Kegan, London, 1983, p. 1.
30. LUNN S., "op. cit.", pp. 2-3.
31. La critica principale che gli statunitensi rivolgevano agli europei era in realtà che la crescita economica europea non era stata accompagnata da una crescita di pari intensità delle risorse che le nazioni europee devolvevano alla difesa. Si veda su questo punto la ricostruzione che ne ha fatto LUNN S., "op. cit.", pp. 1-3.
32. LUNN S., "ibidem".
33. SULLIVAN L. J., ``A New Approach to Burden Sharing'' "Foreign Policy", autunno 1985; ROTH W. V., ``After the Nunn-Roth Amendment'', "NATO's Sixteen Nations", lug. 1985; CONGRESSIONAL DIGEST, "Controversy Over NATO Cost Sharing: Pro e Con", Washington, D.C., ago.-set. 1984; GOLDEN J. R., "NATO Burden Sharing", Praeger, N. Y., 1983; RUPP R. W., ``La ripartizione dell'onere della difesa'', "Notizie Nato", ott. 1982.
34. SULLIVAN L. J., "op. cit.", p. 91.
35. RUPP R. W., "op. cit.", p. 170.
36. LUNN S., "op. cit.", p. 53.
37. DEPARTMENT OF DEFENSE, "Report on Allied Contributions to the Common Defense, A Report to the US Congress", by Caspar W. Weinberger, Secretary of Defense, Washington, D.C., mar. 1982.
38. RUPP R. W., "op. cit.", p. 172; LUNN S., "op. cit.", pp. 54.
39. RUPP R. W., "ibidem"; LUNN S., "ibidem", pp. 54-56.
40. LUNN S., "ibidem".
41. LUNN S., "ibidem"; RUPP R. W., "ibidem".
42. RUPP R. W., "op. cit.", p. 174; LUNN S., "op. cit.", p. 55.
43. GOLDEN J. R., "op. cit.", p. 26.
44. GOLDEN J. R., "op. cit.", p. 25; RUPP R. W., "op. cit.", p. 174.
45. DEPARTMENT OF DEFENSE, 1982, "op. cit."
46. KNORR K., ``Burden-Sharing in NATO: Aspects of U.S. Policy'', "Orbis", autunno 1985, pp. 521-522.
47. KNORR K., "op. cit.", p. 518.
48. KNORR K., "op. cit.", p. 520.
49. KNORR K., "ibidem".
50. KNORR K., "op. cit.", p. 519.
51. HUMPHREYS C., ``Telling It As It is'', "NATO Review", feb. 1986.