di Marco De Andreis, Alessandro LiberatiIRDISP-ISTITUTO DI RICERCHE PER IL DISARMO, LO SVILUPPO E LA PACE
SOMMARIO: Va bene la corsa al riarmo, ma che c'entra l'Italia? Non sono gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica i promotori di tale corsa? Che le due superpotenze siano i principali responsabili della corsa al riarmo è vero. I principali, ma non gli unici. Anche l'Italia ha la sua parte di responsabilità. Minore, ma non trascurabile. In cifre assolute la spesa militare dell'Italia è stata nel 1985 l'ottava al mondo. Quanto al numero di uomini alle armi siamo tra i primi quindici. E tra gli esportatori mondiali di armamenti, gli italiani figurano nei primi sei posti. Il peso del settore militare sul complesso dell'economia italiana è ancora piuttosto contenuto: la spesa assorbe il 2,7% del prodotto interno lordo; le armi rappresentano il 2,7% della ricchezza prodotta dall'industria e il 2,3% delle esportazioni. Inoltre le minacce militari alla sicurezza dell'Italia sono meno gravi di quelle che si trovano a fronteggiare numerosi altri attori internazionali - compresi molti nostri alleati. Siamo quindi in una sit
uazione che offre molte opportunità di contenimento della spesa, di sperimentare conversioni al civile delle produzioni militari, di promuovere una politica di sicurezza realista e distensiva. Sfortunatamente queste opportunità non vengono colte. Al contrario nell'ultimo decennio s'è affermata la tendenza all'espansione che è urgente arrestare. E' dalla metà degli anni '70, infatti, che l'Italia comincia a figurare tra i principali esportatori di sistemi d'arma, e che la spesa militare supera i tassi di crescita annuale concordati in sede NATO. Ed è sempre in quelo periodo che cominciano a farsi sentire i sostenitori di un "nuovo ruolo" militare dell'Italia nel Mediterraneo. Il "Libro bianco", presentato dal ministro della Difesa Spadolini nell'inverno 84-85, sintetizza e mette a punto questi sviluppi, ovviamente dalla parte di chi li ha sostenuti e si augura che proseguano. Questo volume, invece, fa emergere i dubbi, gli interrogativi, le proposte alternative rispetto a quello che sinora è stato un monologo
dell'establishment.
("L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO" - Un contro-libro bianco della difesa - a cura di Marco De Andreis e Paolo Miggiano - Prefazione di Roberto Cicciomessere - Franco Angeli Libri, 1987, Milano)
7. L'INDUSTRIA BELLICA ITALIANA E LE ESPORTAZIONI DI ARMAMENTI
di Marco De Andreis e Alessandro Liberati
1. Introduzione
Questo capitolo prende in esame l'industria degli armamenti italiana. Tenteremo per prima cosa di mettere a fuoco gli indicatori economici principali del settore, ponendo a confronto stime fatte nel recente passato da diversi autori con le conclusioni cui siamo giunti nel corso della nostra ricerca. Successivamente valuteremo l'impatto del comparto militare sul complesso dell'economia italiana. I restanti paragrafi tratteranno di altri importanti aspetti della produzione bellica, quali le pratiche protezionistiche che la favoriscono, i suoi limiti tecnologici, i flussi di esportazione e la loro regolamentazione legislativa, la ricerca e sviluppo nel settore militare. Tenteremo poi di capire se questa industria ha una strategia, chi la sostiene e dove mira, nonché quali conclusioni si possono trarre dalla situazione presente e dai suoi prevedibili sviluppi. Chiudono il capitolo alcune mappe delle partecipazioni nell'industria bellica di Iri, Efim e Fiat.
2. Le dimensioni dell'industria d'armamenti italiana
Per quanto sia di difficile lettura, il bilancio della Difesa resta un documento pubblico le cui cifre non sono controvertibili. Certo, si può giocare coi numeri, si possono fare confronti di comodo, come abbiamo visto. Ma i dati sono lì.
Coll'industria bellica la situazione peggiora notevolmente: dati ufficiali attendibili non ve ne sono. La responsabilità principale è chiaramente del governo, perché è il governo l'unica fonte di domanda interna e insieme quello che rilascia le licenze d'esportazione. L'esecutivo è quindi perfettamente in grado di darci le dimensioni fondamentali della produzione d'armamenti italiana. Ma non lo fa, nemmeno in occasioni ``storiche'' come la Conferenza sull'industria della Difesa del luglio '84 promossa dalla Difesa stessa. Da parte loro, le industrie - pubbliche e private - non sono da meno: chiunque si sia occupato di questo settore ha una lunga storia da raccontare, fatta di dati mancanti, di bilanci irreperibili, di questionari ignorati. Va infine menzionato anche l'Istituto centrale di statistica, le cui registrazioni del commercio con l'estero sono inutilizzabili per il problema in questione, in quanto non contemplano una categoria in grado di segnalare esaustivamente i trasferimenti di materiale bellico
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In un panorama del genere è logico che le stime tengano il campo. Purtroppo, il distacco e l'obiettività della maggior parte di tali stime sono molto simili a quelli usati dai vertici militari e politici nei confronti del bilancio della Difesa.
Nel "Libro bianco" della Difesa del 1977, ad esempio, la manipolazione delle cifre era addirittura grossolana. Si leggeva in quel documento, che nel 1975 ``il valore degli affari trattati con l'estero da parte delle industrie italiane operanti nel settore'' era stato di 2.300 miliardi (1). Già, ma quanti degli affari trattati si erano conclusi con un accordo? Pochi, tenendo conto che il valore delle esportazioni si era aggirato quell'anno attorno ai 500 miliardi. Nel 1978 Gustavo Stefanini, allora presidente dell'Oto-Melara, parlando al Centro alti studi militari, inflazionava di un buon 50% l'entità dello stesso fenomeno. Negli stessi anni, poi, sia industriali che militari sostenevano che gli occupati nel settore bellico si aggiravano attorno alle 150-180 mila unità. Il dato degli addetti alla produzione militare è l'unico sul quale ci sia oggi un certo accordo: sono circa 80 mila.
Viene da chiedersi per quale motivo governo, industriali e militari ci tenessero tanto ad ingigantire l'industria bellica ed, in particolare, i relativi indicatori dell'occupazione e delle esportazioni. Il calcolo deve essere stato, più o meno, che in un paese come l'Italia l'attrazione per la valuta pregiata e posti di lavoro ha la meglio su qualsiasi scrupolo morale: le armi, sino a prova contraria servono ad uccidere. Tra l'altro, dati gonfiati come quelli appena visti, finivano per essere presi per buoni proprio da coloro che scrupoli ne hanno: è abbastanza logico pensare che più grave e diffuso è un fenomeno più forte è la denuncia. Col tempo, tuttavia, chi ha dubbi sulla bontà della scelta di produrre quante più armi possibile ha imparato a diffidare. Contemporaneamente l'uso più spregiudicato dei dati a fine di parte è venuto a cessare. Il problema con le stime recenti più diffuse è diverso e si può riassumere nei seguenti aspetti: troppo spesso gli autori non specificano il procedimento e le fonti; i
n alcuni casi il governo utilizza tali stime al posto dei dati puntuali dei quali, avendoli, si dovrebbe servire. Rispondendo ad un'interrogazione del deputato radicale Rutelli, ad esempio, il ministro del Commercio con l'estero Capria citava alla Camera il 28 novembre 1984 i dati sul fatturato e l'esportazione di armi italiane stimati da un ricercatore privato, Sergio Rossi, alla Conferenza sull'industria per la Difesa. In altre occasioni l'esecutivo si è servito di dati di istituti stranieri. Il risultato è comunque lo stesso: semplici stime ricevono un crisma di ufficialità, coprendo allo stesso tempo la reticenza governativa in materia.
Nella tabella 23 abbiamo messo a confronto un certo numero di stime rese pubbliche negli ultimi tre anni da osservatori italiani qualificati. Nessuno di costoro ha spiegato come è arrivato alle proprie conclusioni. Salvo Rossi, il quale ha sommato i fatturati e gli occupati militari di alcuni gruppi industriali in base a dati fornitigli dalle aziende stesse. Su tutte queste stime, torneremo comunque in seguito. Come si vedrà faremo spesso riferimento a quelle elaborate da Sergio Rossi: in parte perché sono le più dettagliate e in parte a causa del carattere semi-ufficiale che hanno finito per assumere. Meglio ora presentare le nostre, chiarendo ogni volta il procedimento.
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Tab. 23 Stime sull'industria bellica italiana
A B C D E F G H I L
Piovano 82 2.000 80% 5.000 3.000 (60%) 80.000 - -
Falciai 83 2.800 80% 7.000 4.200 (60%) - 2 4
Romiti 82 - - 5-6.000 - - - - -
Romiti 83 - - 6.000* 3.500 (58%) - - -
Prodi 82 - - 6.000 3.000 (50%) 80-100.000 - -
Spadolini 82 2.500 - 6.000 3.500 (58%) 80.000 2 5
Rossi 82 2.500 85% 6.300 3.800 (60%) 80.000 - -
Rossi 83 - - 7.400 4.400 (60%) 80.000 2 4,3
Rossi 83 - - 6.000** 3.500 (58%) 80.000 - -
Nones ? - - - - - - 1,2 5,6
Capria 84 - - - 3.900 - - - -
* = ``esclusi gli interscambi''
** = ``stime del fatturato netto, eliminando cioè le forniture e
Legenda: A = Autore della stima. Il gen. Giuseppe Piovano è stato direttore nazionale agli armamenti: i dati sono tratti da un suo intervento ad un convegno della rivista "Città e Regione" (cfr. n. 54). Il contrammiraglio Gian Paolo Falciai è stato capo ufficio pianificazione finanziaria presso lo stato maggiore della Marina e membro della Commissione tecnica per la spesa pubblica presso il Ministero del tesoro: i dati sono tratti da "Ipd", n. 9-10-11, 1985, pp. 103-104. Cesare Romiti è l'amministratore delegato della Fiat: per il primo gruppo di dati, cfr. n. 54; per il secondo cfr. "Ipd", n. 16-17, 1984, pp. 54-55. Romano Prodi è il presidente dell'Iri: i dati sono tratti da "Ipd", n. 11, 1983, pp. 6-10. Giovanni Spadolini è ministro della Difesa e segretario del Partito repubblicano: i dati sono tratti da "Ipd" n. 19-20, 1983, pp. 35 e sgg. Sergio A. Rossi è un giornalista del quotidiano "Il Sole 24 Ore": per il primo e il secondo gruppo di dati cfr. n. 5; per il terzo cfr. "Difesa Oggi", n. 77, set. 1984
. Michele Nones è un ricercatore del Centro studi per la difesa di Genova: per i suoi dati cfr. n. 16. Nicola Capria è ministro del Commercio con l'estero: per il suo dato cfr. n. 19.
B = Anno cui si riferisce la stima.
C = Vendite dell'industria bellica nazionale al Ministero della difesa italiano.
D = C come percentuale della domanda di materiale bellico generata dal Ministero della difesa italiano.
E = Fatturato dell'industria bellica italiana
F = Esportazioni dell'industria bellica italiana
G = F/E in percentuale
H = Occupati dell'industria bellica italiana
I = H come percentuale degli occupati dell'industria manifatturiera italiana
L = E come percentuale del fatturato dell'industria manufatturiera italiana
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Per quanto riguarda gli occupati, il ragionamento più convincente è ancora, a nostro avviso, il seguente: ``secondo l'Aia (Associazione industrie aeronautiche, ndr) nel 1980 le industrie aeronautiche hanno dato lavoro a 40.700 persone; per quanto riguarda l'elettronica i dati dell'Associazione nazionale industrie elettroniche (Anie) sono fermi al 1976: allora gli occupati in produzioni militari erano in un rapporto di 1 a 2 con quelli dell'industria aeronautica; supponendo che l'incremento avvenuto nel frattempo abbia rispettato questa proporzione, l'elettronica militare dovrebbe oggi dare lavoro a 20.000 persone circa (due-tremila unità in più se si vuole ipotizzare uno sviluppo più sostenuto). Infine, secondo il libro bianco del ministro delle Partecipazioni statali De Michelis ("Rapporto sulle partecipazioni statali", Marsilio, Padova 1980; cfr. pp. 142-45), gli occupati nella cantieristica militare di proprietà pubblica erano 5.600 nel 1980; è da escludere che le costruzioni navali militari di ditte priv
ate diano lavoro a più di 1.000 persone. Scontando una certa sovrapposizione (5.000 unità) tra il settore elettronico e quello aeronautico, nonché un 10% circa dei lavoratori di quest'ultimo addetti a produzioni civili si arriva a un totale (cantieristica, aeronautica ed elettronica) di 58.000-60.000 occupati. Meccanica e chimica non dovrebbero, in ogni caso, dare lavoro a più di 15.000-20.000 persone'' (2).
In totale, dunque, gli occupati erano valutabili tra le 70.000 e le 80.000 unità nel 1980. Cinque anni dopo, il dato dovrebbe soltanto pendere con più decisione verso l'estremo superiore: 2.000 occupati in più nella cantieristica pubblica; altri 2.000 dipendenti in più per l'Aia (parte dei quali, comunque, assegnati al civile). Per il resto, scorrendo i bilanci, le varie aziende prese singolarmente hanno fatto registrare incrementi contenuti nell'ordine delle poche decine e persino, negli ultimi due-tre esercizi, qualche flessione. Troppo poco per alterare drasticamente il quadro. Rimane fuori da tutto questo discorso l'indotto, che a noi sembra attualmente impossibile stimare con un minimo di attendibilità.
Più complesso è il discorso relativo agli altri indicatori: fatturato, valore aggiunto ed esportazioni. Qui il problema, ci sembra, è acquisire un dato, fissare dei parametri e risalire a determinare le incognite restanti. Secondo noi un metodo abbastanza attendibile è quello di stabilire il volume della domanda interna (commesse di materiale bellico del Ministero della difesa, dedotte le importazioni); fissare un rapporto tra domanda interna ed esportazioni e quindi stimare le seconde a partire dalla prima.
Per avere un'idea della domanda italiana non resta che ricorrere al bilancio della Difesa, sommando le poste che riguardano l'acquisto e la manutenzione d'armamenti. Includiamo la manutenzione non tanto perché il bilancio italiano sia fatto talmente male da non consentire di distinguerla dall'acquisto in un gran numero di capitoli, quanto piuttosto perché la gran parte dei lavori di revisione e manutenzione vengono affidati alle aziende, finendo pertanto nei relativi fatturati. Inoltre, poiché è il fatturato che andiamo cercando (vendite, quindi, e non ordini) ci serviamo del rendiconto di cassa, cioè dei pagamenti effettuati nei vari anni sulle poste che ci interessano (3).
Otteniamo così la seguente serie: 1.860 miliardi nel 1980; 2.109 nel 1981; 2.455 nel 1982; 3.267 nel 1983; 3.709 nel 1984. A questo punto vanno però dedotte le importazioni e il problema è logicamente capire in che misura le forze armate italiane comprano armi dall'estero. Come si può vedere, tornando alla tab. 23, quelli che si sono occupati del problema hanno stimato attorno al 20% la parte della spesa italiana in armamenti diretta all'estero. Sottoposto a una delle poche verifiche possibili il dato sembra accettabile. Difatti nel periodo luglio '79 - agosto '85 sono stati stipulati contratti per le tre leggi promozionali pari a 4.552 miliardi: di questi 872 sono andati a ditte non italiane, cioè il 19,2% (4).
Togliendo il 20% circa dai valori della serie 1980-84 vista prima si ottiene questa nuova serie: 1.500 miliardi nel 1980; 1.700 nel 1981; 2.000 nel 1982; 2.600 nel 1983; 3.000 nel 1984. Pur con tutte le cautele con cui vanno giudicate stime come questa, le somme pagate dal Ministero della difesa all'industria bellica italiana non dovrebbero essere troppo diverse.
Per arrivare a una stima del fatturato nel suo complesso è ora necessario ipotizzare un rapporto tra domanda interna ed estera il più possibile vicino alla realtà dei fatti. Poiché non esistono indagini sistematiche, è presumibile che le ipotesi circolate sinora si siano basate sui risultati d'esercizio delle aziende più importanti - nel caso di Rossi ciò sembra certo. E in effetti questi risultati - come pure i dati dell'Aia - negli ultimi anni mostrano una sensibile tendenza alla crescita della quota di fatturato esportata. Vediamo alcune di queste cifre.
L'incidenza dell'export nella produzione dell'Oto-Melara, ad esempio, ha avuto negli ultimi anni il seguente andamento: 1978 = 51%; 1979 = 57%; 1980 = 52%; 1981 = 48%; 1982 = 65%; 1983 = 84%. Il valore degli ordini acquisiti dall'estero dalla stessa ditta è stato pari al 75% (1982) e all'89% (1983) del totale degli ordini. I 12 gruppi industriali citati da Rossi (5) esportano tutti più di quanto vendano in Italia, in una percentuale variabile dal 53 della Fincantieri al 90 dell'Oerlikon italiana. Unica eccezione la Bastogi, le cui vendite all'estero rappresenterebbero il 37% del totale. Il tutto per l'anno 1983.
Dello stesso segno è il trend che emerge dai dati ufficiali dell'Aia (cfr. tabella 24). Nel complesso, dunque, tutti questi dati sembrerebbero dar ragione a chi ritiene che la esportazioni siano ormai un fattore preponderante della produzione militare italiana.
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Tab. 24 Fatturato ed esportazione dell'industria aerospaziale italiana* (miliardi di lire correnti)
A B B/A %
anni fatturato esportazione incidenza
esportazione
1977 740 330 44,6%
1978 900 430 47,8%
1979 1.120 565 50,5%
1980 1.500 900 60,0%
1981 2.200 1.550 70,5%
1982 2.900 1.900 65,6%
1983 3.600 2.300 63,9%
1984 3.900 2.500 64,1%
Nota: * = la produzione è prevalentemente militare, anche se negli ultimi anni c'è stata una certa crescita dell'aeronautica civile e delle attività legate allo spazio.
Fonte: Associazione industrie aerospaziali
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Tuttavia il punto fondamentale è che se si guardano le cose dal punto di vista dei risultati d'esercizio delle ditte, domanda interna ed estera rappresentano due realtà non omogenee, non confrontabili direttamente. Vediamo perché.
Il Ministero della difesa nell'acquistare i propri sistemi d'arma ha una rapporto per così dire ``frantumato''. In altri termini non si affida ad una sola ditta pattuendo il costo complessivo del sistema e lasciando a questa la responsabilità di comprare i sottosistemi dai propri sub-fornitori. Stipula invece contratti separati per ciascuna componente del sistema d'arma. Alla "prime contractor" va perciò il costo delle parti prodotte autonomamente più il costo del lavoro di assemblaggio.
Ciò significa che quella parte di fatturato che la industrie collocano all'interno è da considerarsi quasi del tutto priva di duplicazioni. In un regime del genere nessuna ditta ha per cliente un'altra ditta: l'unico cliente è praticamente il Ministero della difesa.
Non così per il fatturato estero dove le duplicazioni sono numerosissime. In più, non c'è modo di calcolare l'acquisto di componenti principali dall'estero - anch'esse comprate a parte quando il cliente è l'amministrazione italiana.
Facciamo un esempio: quando la Difesa acquista dall'Aermacchi un MB-339 paga il motore direttamente alla Rolls Royce o alla Rinaldo Piaggio, il seggiolino eiettabile alla Martin-Baker o alla Sicamb, alcune parti elettroniche (come il Tacan o l'IFF) alla Collins o all'Italtel e così via. Nel fatturato dell'Aermacchi questi apparati non entrano. Quando è un'aviazione straniera a comprare lo stesso aereo, il valore della vendita che entra nel fatturato dovrebbe comprendere gli stessi apparati.
Bisogna fare attenzione quindi, in particolare con le ditte che vendono sistemi molto complessi (navi, aerei, veicoli corazzati, ecc.): quel 30 o 40% di vendite in Italia pesa assai di più dell'altro 60 o 70% di vendite all'estero, in quanto ha un valore aggiunto di certo più consistente.
Di nuovo qualche esempio servirà a chiarire meglio quello che stiamo tentando di dimostrare. Nel 1981 il bilancio dell'Oto-Melara parlava di ordini acquisiti per circa 1.350 miliardi. In realtà vi erano inclusi 700 miliardi di forniture della Selenia, della Breda Meccanica Bresciana e della Motofides, più 280 miliardi di forniture della Emerson: per l'Oto-Melara rimanevano circa 370 miliardi. Si trattava in gran parte di ordini dall'estero (l'83%) - come abbiamo visto nel caso di ordini italiani questo fenomeno non si verifica. In un'intervista concessa ad una rivista italiana (6), il presidente dell'Oto-Melara, Sergio Ricci, ha dichiarato del resto che sui 380 miliardi di fatturato stimato per il 1982 ``il fatturato fisiologico dell'Oto-Melara ammonta a 150-200 miliardi; il resto deriva dall'attività dei sub-fornitori''. A giudicare dai dati di una pubblicazione annuale di un'autorevole rivista (7), sempre l'Oto-Melara nel 1984 ha fatto registrare un valore aggiunto pari al 24,2% del proprio fatturato, che
è una delle percentuali più basse tra le ditte del settore militare - cosa questa che dovrebbe segnalare il fatto che l'azienda spezzina ha spesso il ruolo di capocommessa. Nel corso di un'audizione in parlamento, il presidente della Ernesto Breda, Carlo Lattuada, ha dichiarato: ``Le tre principali aziende (del gruppo Breda, ndr) che producono direttamente per il mercato militare (Oto-Melara, Breda Meccanica Bresciana, Officine Galileo) hanno complessivamente fatturato nel 1983 circa 592 miliardi con un'occupazione di 4.635 addetti. Le esportazioni hanno superato i 422 miliardi, pari al 71% del fatturato'' (8). Evidentemente Lattuada si riferiva al fatturato delle tre aziende al netto delle vendite tra consociate, poiché la somma delle vendite delle medesime società nello stesso anno dà il risultato di 1.067 miliardi (9).
Anche il presidente dell'Iri, Romano Prodi, ha preso in considerazione fattori del genere. Indicando in 858 miliardi il fatturato militare della Fincantieri nel 1982 ha tenuto a specificare che la cifra ``comprende il valore delle coforniture, di cui circa 100 miliardi da altre aziende dell'IRI'' (10).
Ancora: il fatturato del gruppo Agusta non è mai pari alla somma dei fatturati delle aziende che ne fanno parte. Il cosiddetto fatturato consolidato deduce infatti le vendite a consociate o controllate. Nel 1983 questo secondo metodo di calcolo dava 863 miliardi, contro i 1.078 risultanti dalle vendite sommate di: Costruzioni Aeronautiche Giovanni Agusta, Elicotteri Meridionali, Siai Marchetti, Iam, Omi e Caproni-Vizzola (11). Finora abbiamo trattato delle duplicazioni che hanno origine nei singoli raggruppamenti finanziari. Sarebbe interessante poter calcolare tutte le altre, quelle che tagliano trasversalmente un po' tutti i gruppi e che sono numerosissime. Con le navi, ad esempio, ci guadagnano in molti se nel fatturato della Fincantieri dovesse entrare il valore della vendita all'estero ``chiavi in mano'' - cioè della nave completa di tutti gli equipaggiamenti e i sistemi da combattimento - la parte delle sub-forniture sarebbe quella prevalente. Basta tener conto che, second
o l'ex-capo di stato maggiore della Marina, ammiraglio Marulli, in media su una fregata classe Maestrale lo scafo o piattaforma vale il 17%, contro il 20% del sistema propulsivo e il 63% dei sistemi da combattimento (12).
In conclusione appare abbastanza fuorviante il metodo di sommare i fatturati delle singole aziende (o gruppi di aziende), come ha fatto Rossi. Anche se va dato atto a questo autore di aver specificato che lo sconto per le duplicazioni ``è variamente stimato tra il 20 e il 40%'' (13). Chi faccia questa stima e come ci arrivi però, non è dato sapere.
Il problema sollevato dalle duplicazioni, comunque, ci sembra riguardi direttamente la composizione Italia-estero delle vendite dell'industria d'armamenti. Dicevamo, infatti, poco sopra che le commesse del Ministero della difesa sono fatte in modo tale da escludere in larga parte il conteggio multiplo dei beni intermedi. Quindi, se si sta cercando una stima del fatturato dell'industria bellica italiana per quanto possibile al netto delle duplicazioni, la prima cosa da fare è riequilibrare il rapporto tra vendite in Italia e vendite all'estero.
Come farlo? Appunto assegnando interamente alle esportazioni quello che Rossi chiama ``lo sconto per le duplicazioni''. Usando i dati dello stesso Rossi, con uno ``sconto'' del 20%, il fatturato del 1983 passa da 7.400 a 6.000 miliardi circa, ma il rapporto tra vendite in Italia e vendite all'estero diventa 50-50, nell'esempio 3.000 e 3.000. Forse casualmente questi valori coincidono con quelli indicati da Prodi, ma per il 1982 (cfr. tab. 23).
Applichiamo ora il nuovo rapporto ai dati sulla domanda interna da noi ricavati a partire dal bilancio della Difesa. Il risultato è esposto nella tabella 25.
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Tab. 25 Fatturato dell'industria bellica italiana (miliardi di lire correnti)
Anni 1980 1981 1982 1983 1984
Fatturato* 3.000 3.400 4.000 5.200 6.000
Nota: * = la ripartizione Italia-estero è 50-50 Fonte: nostre stime
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Inutile ricordare che, trattandosi di stime, è bene interpretare le cifre della tabella 25 come indicative, suscettibili di un margine d'oscillazione in alto e in basso di almeno il 10%. Quanto alla ripartizione Italia-estero, inoltre, va detto che nel mondo reale niente accade con tanta precisione: in uno degli anni considerati, l'esportazione può effettivamente aver superato quel 50% da noi arbitrariamente fissato, mentre in un altro può essersi mantenuta al di sotto. Era nostra intenzione limitarci a fornire degli ordini di grandezza. Che è l'unica cosa da fare e che tutti hanno fatto, in assenza di indagini sistematiche.
A sostegno della tesi di un ridimensionamento del peso dell'export sul fatturato dell'industria bellica italiana, altre considerazioni possono esser fatte - al di là di quanto già osservato trattando del problema delle duplicazioni. Ad esempio, se si guarda ai numeri puri e semplici dei pezzi venduti, in particolare per i grandi sistemi d'arma, non si ricava che il rapporto è così squilibrato verso l'estero. L'Oto-Melara ha esportato carri e obici semoventi in misura certo minore delle commesse italiane degli ultimi anni di mezzi corrispondenti. Lo stesso può dirsi, per ora, dell'aereo MB-339 o del G-222. Il Tornado è italiano al 10% circa e tanta sarà la quota della nostra industria nelle esportazioni dell'aereo verso l'Oman e l'Arabia Saudita. Per contro, grazie a un complicato sistema di compensazioni industriali, va a ditte italiane la quasi totalità dei pagamenti per i 100 esemplari dello stesso aereo ordinati dalla nostra Aeronautica. I cantieri navali hanno esportato, in anni recenti, un buon numero d
i fregate e corvette. Ma siamo sempre al di sotto, comunque, delle commesse della legge promozionale e, in tempi più vicini a oggi, del bilancio ordinario (corvette classe Minerva, altri sommergibili classe Sauro, seconda nave da sbarco ecc.).
Nel caso degli elicotteri, delle armi leggere, di alcuni apparati elettronici e soprattutto dell'artiglieria (in particolare navale) i singoli sistemi venduti fuori dei confini sono certamente più numerosi di quelli corrispondenti andati alle nostre forze armate. Elicotteri a parte, tuttavia, in questi casi il valore unitario scende; il fenomeno dovrebbe poi essere largamente compensato dalla massa di sussidi che la nostra industria riceve dal Ministero della difesa (cfr. più avanti).
Già che siamo in materia di sussidi, ci sembra almeno lecito azzardare l'ipotesi che il cliente straniero sia un po' più attento al prezzo di quello italiano. Sui mercati esteri la concorrenza c'è, ed è dubbio che un ammiraglio venezuelano abbia lo stesso interesse del pari grado italiano a promuovere la Fincantieri. E' proprio così impensabile che, pur di esportare, si pratichino all'estero prezzi più bassi? Ecco l'opinione in proposito dell'Arms Control and Disarmament Agency (Acda), un agenzia governativa americana: ``Spesso i prezzi delle armi non riflettono i reali costi di produzione. Inoltre, gran parte del commercio internazionale di armamenti si basa su compensazioni, baratti, crediti pluriennali, pagamenti effettuati da terze parti e abbonamenti parziali dei debiti'' (14).
Vanno infine menzionati i compensi d'intermediazione: mance elargite a terzi che avrebbero il potere di convincere i clienti all'acquisto. Tali mance raggiungono talvolta il 15% del valore dell'affare, che in proporzione va pertanto ridimensionato (15).
Vi sono poi alcuni confronti internazionali che, se presi alla lettera, portano a risultati paradossali. Ad esempio, la Germania Federale ha più o meno la stessa quota del mercato mondiale d'armamenti che ha l'Italia. Tuttavia l'esportazione incide sul fatturato della sua industria per circa l'11%, contro il 60% di cui si dà credito all'Italia (16). Ne consegue che il mercato interno tedesco dovrebbe essere undici volte più consistente di quello italiano - il che, con spese militari che sono poco più del doppio (e una percentuale leggermente inferiore di acquisti per equipaggiamenti sul totale di tali spese, secondo la Nato), non può essere (17). Stesso discorso per la Francia, la cui quota del mercato mondiale è il triplo di quella italiana, ma le cui esportazioni sono solo il 36% del fatturato della sua industria bellica. Anche qui, con un bilancio che è poco più del doppio rispetto al nostro, la domanda interna dovrebbe essere pari a otto volte quella italiana. Il fatto che da noi si importi di più non ri
esce, da solo, a rendere ragione di queste discrepanze. Per la Germania può anche esserci, forse, una sottovalutazione della sua effettiva presenza sui mercati mondiali. Tuttavia i conti non tornano se non si ammette che il volume e il peso delle esportazioni italiane sono stati sovrastimati.
C'è infine il giallo del gap tra i dati sulle licenze d'esportazione concesse dal governo e le stime del volume d'affari italiani all'estero. Nella stessa relazione in cui Rossi indicava tale volume in 4.400 miliardi, veniva scritto che il valore delle licenze di esportazione di armi era stato pari a 836,4 miliardi per il primo semestre del 1983, 847,7 per il secondo e 982,8 per i primi cinque mesi del 1984 (18). Dunque nello stesso anno, il 1983, ci sarebbero stati permessi per 1.700 miliardi circa, a fronte di 4.400 miliardi di trasferimenti effettivi. Vero è che le licenze potrebbero riferirsi a consegne da effettuarsi in anni successivi. Tuttavia il buco tra i due dati rimane. Esistono tre possibili spiegazioni: a) gli ordini esteri ricevuti dall'industria bellica negli ultimi tempi prefigurano un vero e proprio crollo dell'export; b) c'è un'esportazione illegale - cioè senza autorizzazione delle autorità italiane - persino più consistente di quella legale; c) il dato di 4.400 miliardi di fatturato ester
o è fortemente sovrastimato.
Ancora più sorprendente è forse l'interpretazione governativa di tutto ciò. Rispondendo alla già citata interrogazione, il ministro Capria dichiarava: ``...le attuali strutture ministeriali non consentono, soprattutto in tempi brevi, rilevazioni dirette ed elaborazioni di dati relativi alle esportazioni di materiale bellico o ad uso bellico; rilevazioni che, in ogni caso, avrebbero limitata significatività, riguardando le sole operazioni autorizzate e non quelle realmente effettuate''. In parole povere il ministro stava sostenendo che il governo italiano tollera il commercio clandestino di armi. Diciamo tollera perché, per quanto si possa pensare che lo stato italiano non sia un modello d'efficienza, appare incredibile che non abbia i mezzi per tenere sotto controllo tale fenomeno.
Per quanto riguarda i dati del 1984, la vicenda appena vista ha avuto una replica. Nell'85 Capria ha risposto a una interrogazione del solito Rutelli, che appunto aveva richiesto un aggiornamento della situazione dell'export al 1984. Dunque quell'anno si sarebbero avuti: ``2.700 miliardi circa in termini di autorizzazioni rilasciate e... 3.900 miliardi in termini di esportazioni effettuate a fronte di autorizzazioni rilasciate negli anni precedenti e successivamente prorogate'' (19). Come si vede, stavolta il ministro ha corretto il tiro e ci tiene a spiegare che la discrasia tra autorizzazioni ed esportazioni effettuate è dovuta allo slittamento nel tempo delle prime. Ancora: concentrandosi sulle licenze, si vede che il giro d'affari è persino inferiore a quello da noi stimato per lo stesso anno.
Giacché siamo tornati sulle stime qui fatte del valore delle esportazioni italiane di armi, riportiamo per la cronaca il dato calcolato dall'Acda: si tratta di un miliardo di dollari correnti nel 1983, cioè circa 1.500 miliardi di lire. Meno ancora, quindi, dei 2.600 miliardi da noi indicati. Sempre secondo l'agenzia americana le esportazioni di armi inciderebbero sul totale delle esportazioni italiane per l'1,4% (20). Viceversa, accettando il nostro dato, tale incidenza è del 2,3%.
3. Produttività e incidenza sull'economia italiana del settore bellico
Veniamo ora al fatturato per addetto: molti osservatori non hanno mancato di sottolineare, al riguardo, il buon andamento assunto da tale indicatore nell'industria bellica, rispetto all'insieme dell'industria manufatturiera. A seconda dei calcoli (cfr. ultime due colonne della tabella 23), risulta che la produttività del lavoro, così misurata, nel settore degli armamenti è da due a quattro-cinque volte quella nel settore civile. E' quasi inutile aggiungere che anche in questo caso nulla si sa sui criteri che hanno guidato tali calcoli.
Per parte nostra, valgano le seguenti osservazioni: a) l'uso del fatturato come misura della produttività ripropone il problema delle duplicazioni; b) il concetto di industria manufatturiera è stato sostituito nelle statistiche dell'Istat da quello di ``Prodotti della trasformazione industriale''. Quest'ultimo è un sottoinsieme della categoria ``Industria in senso stretto'' dei conti nazionali, una volta dedotti i ``Prodotti energetici'' e le ``Costruzioni''. Dei ``Prodotti della trasformazione industriale'' è disponibile il numero degli occupati e il valore aggiunto. Valore aggiunto che, a differenza del fatturato, è l'unico indicatore della ricchezza realmente prodotta.
Detto questo cominciamo col vedere l'incidenza dell'occupazione: gli addetti ai ``Prodotti della trasformazione industriale'' erano in Italia, nel 1984, 5.112.000. Ottantamila lavoratori del settore bellico rappresentano, quindi, l'1,6% circa.
Meno semplice è calcolare il peso dell'industria militare sul valore aggiunto. Tuttavia ci abbiamo provato col seguente metodo: abbiamo ricavato i dati del valore aggiunto delle varie aziende dai dati pubblicati dall'annuario de "Il Mondo" (21). Ovviamente non sempre tali cifre potevano essere prese "sic et simpliciter": molte ditte producono anche per il civile. In tutti questi casi ci siamo regolati così: abbiamo visto quale era l'incidenza del fatturato militare '83 sul totale del fatturato allo stesso anno, incrociando i dati dell'annuario con quelli della relazione di Rossi (22), oppure valendoci di altre fonti ove disponibili. Una volta stabilito un certo rapporto militare/civile per il fatturato, lo abbiamo trasferito ai dati sul valore aggiunto '84. Il risultato è riassunto nella tabella 26. I gruppi industriali considerati sono gli stessi usati da Rossi. Per la Bastogi e, a maggior ragione, per il gruppo chiamato da Rossi ``altre società'' non ci è stato possibile reperire dati. La stima che abbiamo
fatto va quindi assunta con maggiore cautela: 80 miliardi di valore aggiunto per il gruppo Bastogi e 500 per le ``altre società''. Si tenga presente che, sempre secondo le valutazioni di Rossi, nel 1983 la Bastogi aveva un fatturato militare di 130 miliardi e le ``altre società'' di 1.250.
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Tab. 26 Valore aggiunto dell'industria di armamenti italiana per l'anno 1984 (miliardi di lire correnti)
Finanziaria Breda 360
Agusta 510
Oerlikon 120
Aeronautica Macchi 120
Elettronica 120
Borletti 80
Stet 300
Snia-Bpd 220
Finmeccanica 480
Fiat 340
Fincantieri 240
Bastogi 80
Altre società 500
Totale 3.470
Fonte: nostre stime
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Ci ripetiamo, avvertendo per l'ennesima volta che le nostre stime, non meno delle altre, vanno giudicate con grande cautela. D'altronde, saremmo ben felici se qualcuno, disponendo di dati più precisi, li rendesse noti. Quanto all'ordine di grandezza, comunque, un valore aggiunto di circa 3.500 miliardi è un'entità considerevole: quasi il 60% del fatturato 1984, stimato da noi in 6.000 miliardi.
In ogni caso, pesando per l'anno 1984 il settore bellico sul totale dei ``Prodotti della trasformazione industriale'' in termini di valore aggiunto significa vedere quanto incidono 3.470 miliardi su 167.235. Si tratta del 2,1%.
Si vede benissimo che:
a) lo scarto tra la produzione e gli occupati è assai più contenuto di quanto venga comunemente conclamato: 1'1,6% degli occupati dà luogo al 2,1% della produzione industriale. La produttività per addetto è maggiore della media, certo, ma non in modo eclatante.
b) il 2,1% della ricchezza prodotta dall'industria manufatturiera è poca cosa. E lo stesso si può dire della sua incidenza sulle esportazioni (pari al 2,3%, come abbiamo già visto). Il settore bellico resta, in altre parole, un fenomeno marginale in termini quantitativi. Vedremo in seguito quali sono le implicazioni politiche che si possono trarre da questa marginalità. Tuttavia il nodo è questo e non gli si può sfuggire. Anche ammettendo che il valore aggiunto dell'industria bellica da noi stimato abbia un margine d'errore del 10%, le conclusioni puntano sempre nella stessa direzione. Si passerebbe infatti a un'incidenza del 2,3%. Che rimane poca cosa. Con buona pace di chi insiste a voler vedere nella produzione d'armamenti chissà quale elemento-chiave dell'industria e dell'economia italiana.
Passiamo ora a vedere, comunque, altri aspetti importanti del problema che stiamo esaminando.
4. Un'industria protetta
La protezione delle industrie belliche nazionali e pratica comune all'interno dell'Alleanza atlantica. E l'Italia non fa eccezione. Nel dicembre 1983, il nostro ministro della Difesa ha emanato una direttiva (23) che esorta i responsabili della programmazione di acquisti di materiali a tener conto ``sin dalla fase di impostazione dei programmi di approvvigionamento, l'esigenza d privilegiare per quanto possibile, la produzione del l'industria nazionale''. In caso di produzioni su licenza estera - prosegue il documento - ``considerate le benefiche ricadute sull'industria nazionale, in termini occupazionali e socio-economici... può essere considerato in linea di massima accettabile un onere relativamente maggiore''.
Si tratta di capire cosa si intende col termine ``relativamente''. Ad esempio, nel caso della produzione su licenza del missile anticarro Milan, la Difesa ha trovato ``accettabile'' un costo maggiore del 60%, rispetto all'acquisto diretto dello stesso sistema dall'estero (24). Quanto alle ``benefiche ricadute in termini occupazionali'' la Oto-Melara prometteva allora 700 posti di lavoro al Sud, a Gioia Tauro, scesi successivamente a 465 (25). Il costo dell'intero programma Milan si aggira sui 940 miliardi di lire; dunque circa 350 rappresentano la parte devoluta a sostegno dell'occupazione. Ammesso che questo fosse lo scopo, viene da chiedersi se sono stati valutati impieghi alternativi. Al di là dell'esempio specifico, comunque, resta la valutazione dell'ex direttore generale agli armamenti, generale Piovano: ``la produzione su licenza può superare anche del 40-50% il costo alla fonte'' (26). Poiché tali produzioni sono davvero molte nel nostro paese nel settore militare, non è difficile immaginarsi il flus
so di sussidi impliciti così incassati dall'industria.
Va anche tenuto conto di un volume di finanziamenti ad hoc. Come la legge per il finanziamento della ricerca e sviluppo di AM-X, EH-101 e Catrin, che sta devolvendo alle aziende interessate circa mille miliardi. E' poi in discussione una ``legge aeronautica'' - approvata dal Senato il 27 settembre 1985 - che dovrebbe devolvere ad una serie di aziende del settore 690 miliardi in cinque anni. Ancora il comparto aeronautico è uno dei beneficiari dei circa 4.000 miliardi messi a disposizione dalla legge 46 del 1982 sull'innovazione tecnologica: gli altri sono l'elettronica, la chimica, la siderurgia e l'auto. Almeno tre, quindi, interessano la produzione militare.
Vi sono poi tante piccole attenzioni. Se, ad esempio, un prodotto non trova clienti - pur essendo, talvolta, espressamente concepito per l'esportazione - se lo accollano le forze armate. E' il caso del P-166, un biturboelica della Rinaldo Piaggio, che nessuno voleva e che la Difesa ha comprato in sei esemplari con i fondi della Protezione civile. Anche la versione K (monoposto) dell'addestratore Aermacchi MB-339 non ha avuto ordini: puntualmente ora si parla di un possibile acquisto della Difesa (27). Nella fattispecie ciò sarebbe una violazione della legge promozionale dell'Aeronautica, dove si parla di aerei d'addestramento (appunto gli MB-339) e non di velivoli da attacco al suolo e da controguerriglia come l'MB-339K.
Ancora: se sopraggiunge un cliente straniero per un prodotto ordinato dalle forze armate italiane, le consegne danno la precedenza al primo a scapito delle seconde, come è accaduto nel caso dell'ordine saudita di obici campali dell'Oto-Melara FH-70 (28). Per quanto riguarda la Marina, si sa che si occupa dell'addestramento degli equipaggi dei paesi stranieri che comprano navi italiane. ``Questo ruolo costituisce per la forza armata un impegno notevole'' - ha commentato il capo di stato maggiore della Marina (29). Per fortuna nostra, tuttavia, ``viene svolto con dedizione e serietà nell'interesse del Paese e della sua immagine estera''.
Si dà per scontato, insomma, che l'industria bellica debba essere assistita e protetta. A questo riguardo la conferenza del luglio '84 ha rappresentato una vera e propria passerella di appelli in tal senso. ``La Difesa -ha affermato il generale Carlo Jean - ha interesse diretto non solo a soddisfare le proprie esigenze contingenti (ottimizzazione dell'impiego delle proprie risorse in relazione ai compiti operativi che le sono commessi ciò potrebbe indurla a sistematici approvvigionamenti dall'estero di sistemi d'arma migliori, meno costosi e più tempestivamente disponibili di quelli prodotti dall'industria nazionale), ma anche a promuovere lo sviluppo di un'industria degli armamenti adeguata alle proprie esigenze come dimensioni e come livello tecnologico'' (30).
Siamo quindi al paradosso: un generale dell'Esercito che ci spiega che il ruolo della Difesa non è garantire la sicurezza militare del paese - al quale scopo, sembra logico che occorrano ``sistemi d'arma migliori, meno costosi e più tempestivamente disponibili'' - ma ``promuovere lo sviluppo'' dell'industria bellica.
5. Limiti e carenze della tecnologia militare italiana
Quanto alle caratteristiche della produzione italiana, la prima da ricordare è la dipendenza tecnologica. Secondo il Sipri (31) l'Italia è il terzo importatore al mondo, dopo Giappone e India, di licenze di produzione di ``grandi sistemi d'arma'' (aerei, elicotteri, missili, navi e veicoli corazzati). Nel complesso si tratta, o si è trattato, di mezzi di non secondaria importanza nell'economia delle nostre forze armate: il principale carro da battaglia, il Leopard, e il cingolato trasporto truppe M-113; tutti gli elicotteri (ad eccezione di due modelli della Agusta, l'A-109 e l'A129); il caccia F-104; il missile anticarro Milan, per non citare che gli esempi più comuni.
Anche progetti recenti concepiti autonomamente montano componenti-chiave importate. Il carro armato ``tutto italiano'' OF-40 (Oto-Melara e Fiat) ha le seguenti parti comprate all'estero: il motore (un diesel tedesco della Mtu), la trasmissione (tedesca, della Zf), i visori, ordinario e notturno, del capocarro (della francese Sfim), il visione notturno del cannoniere (della tedesca Aeg), la mitragliatrice coassiale da 7.62 (della belga Fn) (32). Sono importati o prodotti su licenza tutti i propulsori a turbina che equipaggiano gli aerei e gli elicotteri italiani. Di nuovo, su un elicottero ``tutto italiano'' come l'A-109, il 40% del costo è costituito da due turbine comprate negli Stati Uniti (33). Le componenti estere montate sull'aereo da addestramento dell'Aermacchi MB-339 si aggirano attorno al 30% del valore dell'intero velivolo. La turbina navale LM-2500 della Fiat Aviazione, altri non è che la ``marinizzazione'' della turbina General Electric TF-39 (quella del B-747); stesso discorso per la LM-500, che
deriva dalla turbina General Electric TF-34 montata sul caccia A-10. In valore, comunque, tali ``marinizzazioni'' non dovrebbero rappresentare più del 40% del prodotto finito. Per quel che riguarda il Tornado MRCA, una nostra coproduzione con inglesi e tedeschi, la quota italiana è pari al 12%. Vi sono altre coproduzioni in campo aeronautico, la cui percentuale di lavoro italiano è ancora più irrisoria: sulla turbina Pratt Whitney PW 4000, il valore del contributo della Fiat Aviazione è del 2% (34). La stessa ditta prende parte al consorzio International Aero Engines per lo sviluppo del turbofan V 2500 per aerei passeggeri, con una quota del 6% (35). In campo elettronico, al di là di alcuni discreti risultati della Selenia e della Elettronica, c'è il deserto: una rivista di materiale da guerra, che ha recentemente passato in rassegna i radar per aerei, ha classificato i prodotti dell'italiana Fiar tra gli "outsider" (36).
Questa, dunque, è la realtà. Altra cosa è la fantasia: nel febbraio 1983, l'allora ministro della Difesa Lagorio, ritornava da un viaggio a Washington per dichiarare alla rivista "Italia Internazionale" quel che segue. ``Tre anni fa, quando sono arrivato alla Difesa, ho trovato che per ogni lira che gli Usa spendevano in Italia nel settore Difesa, noi ne spendevamo più di sette in America. Ho cercato di correre ai ripari e lo scorso anno il rapporto era migliorato: quattro a uno. Non è un volume di scambi da far paura ai nostri bilanci, ma non è incoraggiante per noi. L'ho detto e ridetto a Weinberger ("sic!") e, insieme, abbiamo riconosciuto che dobbiamo arrivare a un più giusto equilibrio. Abbiamo fissato un nuovo obiettivo al nostro interscambio: 2,5 a 1''.
Ora, è più che noto dall'attività dell'Eurogruppo e del Gruppo europeo indipendente dei programmi (due organismi, al secondo dei quali prende parte anche la Francia, che si occupano della produzione d'armamenti dei paesi europei della Nato), che il rapporto di scambio di materiale strategico tra Usa e Europa nel suo complesso, è di circa 10 a 1 a favore degli americani. Secondo l'annuario dell'agenzia statunitense Acda, sino a tutto il 1979 l'Italia non esportava una sola lira di armi nel Nord America, diversamente da altri paesi del vecchio continente (37). Non si vede pertanto come l'Italia potesse, già nel 1980, avere un rapporto più favorevole della media europea (7 a 1 contro 10 a 1); ancor meno si vede come potesse aver raggiunto nel 1982 un rapporto addirittura di 4 a 1; e non si vede affatto come possa in futuro, vicino o lontano, arrivare al fantastico rapporto di 2,5 a 1.
Difatti Lagorio, più o meno consciamente, mentiva: secondo l'ultima edizione disponibile dell'annuario Acda, nel periodo 1979-83 l'interscambio di armamenti tra Italia e Usa ha avuto un rapporto di 1 a 30 - a favore degli americani ovviamente, dai quali abbiamo comprato per 600 milioni di dollari, vendendo nel contempo per 20 (38). D'altronde, le poche notizie di esportazioni italiane di armi in America parlano chiaro quanto a contenuto tecnologico: pistole Beretta e cannoni navali da 76/62 della Oto-Melara.
E' in questo quadro che va giudicato il realismo delle "avances" italiane in materia di Sdi. Si è scritto fino alla nausea di quanto la torta di 26 miliardi di dollari - la somma che l'amministrazione Usa vuole investire nelle ricerche sulle guerre stellari - faccia gola agli industriali di tutto il mondo. Prospettive di sostanziose commesse e di mirabolanti ricadute tecnologiche sono state addotte per giustificare una partecipazione al programma americano - da noi non meno che altrove. Se si dà retta alla Fiat, un buon numero di sue consociate (Fiat mezzi speciali, Snia Bpd, Telettra, Comau, Borletti, Fiat Avio e Sepa) potrebbero inserirsi addirittura in 17 dei 30 settori di ricerca individuati dal responsabile dell'Sdi, il generale Abrahamson (39). L'Agusta ha capeggiato un gruppo di aziende (Oto-Melara, Breda Meccanica Bresciana, Officine Galileo, Elettronica e Sma) nel costituire il Cites - Consorzio italiano per le tecnologie strategiche. Scopo dichiarato di tale consorzio è quello di proporsi come part
ner italiani nell'Sdi. Aeritalia e Ansaldo hanno aperto apposta un ufficio di rappresentanza a Washington. Dunque un'industria che non riesce nemmeno a realizzare motori diesel per carri armati dovrebbe inserirsi, stando alle sue stesse affermazioni, in settori come "software" per computer ad altissime velocità, radar e sensori, fasci laser a media e alta potenza, ecc.
Molto rumore per nulla: la probabile quota di commesse Sdi dovrebbe aggirarsi attorno all'1% per il complesso dei partner non americani (40). In più, il Congresso Usa sta decurtando di anno in anno gli stanziamenti per la ricerca sulle guerre stellari: continuando di questo passo è probabile che i 26 miliardi di dollari già citati si dimezzino. In lire gli alleati degli Stati Uniti avrebbero da dividersi dai 200 ai 400 miliardi molto meno del costo dello sviluppo del caccia italiano AM-X. Considerata la concorrenza, tra cui inglesi, tedeschi e giapponesi, per le ditte italiane resterebbe la polvere. Polvere di stelle. Come si vede, dell'Sdi è meglio giudicare sulla base dei suoi risvolti strategici (41), invece che concentrarsi sulle tanto propagandate ricadute tecnologiche.
Alla luce di tutti i seri limiti - produttivi e tecnologici - di cui soffre l'industria italiana è anche possibile farsi un opinione degli appelli all'autosufficienza negli approvvigionamenti di materiali per la Difesa. Tale autosufficienza, viene detto, è un ``obiettivo a cui, entro limiti ragionevoli, si può difficilmente rinunciare, pena la conseguente perdita della capacità di condurre un'autonoma politica di difesa e di sicurezza'' (42). In realtà è un obiettivo al di fuori della portata del nostro paese, a meno di non investire somme ingentissime nel settore militare, per avere qualche ritorno nel lungo periodo. Dal punto di vista della politica di sicurezza, però, l'autosufficienza ha senso per un paese che ha imboccato la strada della neutralità armata; non per l'Italia che fa parte di un'alleanza. Lo stare in un'alleanza ha appunto, tra gli altri vantaggi, quello della possibilità di economie di scala: abbiamo la possibilità, in altre parole, di beneficiare della tecnologia dei nostri partner. Perch
é non dovremmo farlo? Ci sono due risposte possibili. La prima è: perché non ci fidiamo dei nostri alleati. Ma è un approccio così rozzamente nazionalistico che, ne siamo certi, è alieno dal ministro Spadolini. Anche quando afferma che non saremmo più uno stato sovrano se ``dovessimo dipendere da altri Stati stranieri per la nostra difesa'' (43).
Se invece la risposta è ``per promuovere l'industria degli armamenti e le associate tecnologie'', allora sorge un altro quesito. Perché promuovere proprio questa industria e queste tecnologie, e non altre? Sono tematiche, queste, che tenteremo di riprendere nelle conclusioni.
6. Altri aspetti delle esportazioni italiane di armi
La stima più attendibile del giro d'affari dell'industria italiana d'armamenti negli anni settanta è quella fatta da Gianluca Devoto (44). Per il 1972 la valutazione di questo autore era di 500 miliardi di fatturato e 100 d'esportazione. Quest'ultima - allora pari a un quinto del fatturato - prese poi a crescere con un passo sostenuto, in particolare a partire dal 1975. E' questo l'anno d'approvazione della prima delle tre leggi promozionali. Leggi che, assicurando più di un decennio di sostegno della domanda, hanno consentito l'allargamento della base produttiva e, per conseguenza, la capacità di penetrazione sui mercati internazionali.
Da un'analisi della distribuzione geografica delle esportazioni italiane, emerge come il mercato per eccellenza sia stato il Terzo mondo.
Si nota sin troppo bene dai dati dell'Acda riportati nella tab. 27: la scarsa incidenza delle armi italiane nei mercati dei paesi sviluppati; il nesso armi-petrolio: più della metà delle esportazioni di armamenti hanno riguardato produttori di greggio. L'Africa ha assorbito quasi un terzo del valore dei nostri trasferimenti nel periodo considerato, va tenuto presente che tale continente comprende la Libia, che con importazioni di armi italiane per 700 milioni di dollari risulta il cliente più affezionato. Infine America Latina e Medio Oriente sono i destinatari di un altro quarto ciascuno dell'export italiano.
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Tab. 27 Valore delle esportazioni italiane di armi (per aree economiche e geografiche, anni 1979-83, in milioni di dollari correnti)
Totale 4.650
di cui: paesi sviluppati 135
paesi in via di sviluppo 4.515
di cui: paesi Opec 2.455
Africa 1.485
Asia orientale 320
Europa 290
America latina 1.090
Medioriente 1.255
Nord America 20
Oceania 10
Asia meridionale 90
Nota: il totale non coincide con la somma dei valori delle aree geografiche a causa dell'arrotondamento.
Fonte: dati Acda, "World Military Expenditures and Arms Transfers", 1985.
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Qualche parola va spesa a commento di alcune di queste vendite. Pur non avendo mai adottato i nostri governi una politica ufficiale di sostegno alle esportazioni di armi - anzi: l'esecutivo, chiamato a rispondere ha sempre negato ogni addebito - di fatto è stato permesso di trasferire tutto a tutti, consentendo all'industria italiana di profittare di qualsiasi interstizio della domanda mondiale lasciato sguarnito dalla concorrenza.
Sono stati, ad esempio, violati gli embarghi dell'Onu sull'esportazione di armi in Sudafrica. Sino al punto di fare del nostro paese il secondo fornitore di materiale bellico al regime di Pretoria, dopo la Francia.
Malgrado una guerra si vada combattendo da più di cinque anni tra Iraq e Iran, l'Italia non si è fatta alcuno scrupolo di rifornire entrambi i belligeranti e nel pieno delle rispettive sanguinose operazioni (45). Ciò è ampiamente documentato, sia da portavoce dei due governi - che a turno accusano paesi europei, tra cui l'Italia, di armare l'avversario - sia da fotografie apparse sulla stampa italiana. Una di queste - pubblicata dal mensile JP4 nel numero 5 del 1982 - ritraeva carghi iracheni e iraniani giunti all'aeroporto della Malpensa per caricare ``armi e pezzi di ricambio per aerei ed elicotteri''. E' infine quasi terminato l'allestimento di un'intera flotta da guerra, ordinata nel 1980 dal governo di Bagdad ai cantieri italiani. Alla fine del 1985 le navi - quattro fregate, sei corvette e un rifornitore di squadra - erano ormai prossime alla consegna. Il rifornitore di squadra pare invece sia stato già consegnato agli inizi dello stesso '85 (46). Il che deve essere avvenuto con molta discrezione malgr
ado il cerimoniale preveda, in queste occasioni, una messinscena elaborata e persino chiassosa - perché non se ne è vista traccia sui grandi organi d'informazione.
C'è infine il caso della Libia. L'elenco delle armi italiane là esportate è veramente impressionante. Il fenomeno si spiega in parte col fatto che Tripoli ha nell'Italia il primo partner commerciale essendo, nel contempo, una delle principali fonti dei nostri approvvigionamenti petroliferi. Tuttavia dubitiamo che il nostro governo abbia solo acconsentito, "obtorto collo", a delle richieste di Gheddafi, stante la quantità di commesse ottenute dall'industria italiana. Al solito deve aver prevalso quello che è l'unico criterio guida in materia: la logica dell'affare. Poco importa poi se armi italiane finiscono in mano a uno dei regimi più destabilizzanti - se non il più destabilizzante - della regione.
La cosa paradossale è che talvolta la ``minaccia libica'' esce dai confini dove è effettivamente tale (Nord Africa, Magreb, Medio Oriente) per arrivare a essere presa sul serio sulle nostre coste. Il che sembra poco credibile - almeno sul piano militare. Eppure l'allora capo di stato maggiore della Marina, ammiraglio Monassi, intervenendo all'assemblea dell'Unione dell'Europa occidentale alla fine del 1981, ricordava ai parlamentari la minaccia rappresentata nel Mediterraneo dalla marina libica, ``dotata di moderne unità missilistiche''. Quattro corvette libiche (armate con i missili antinave Otomat della Oto-Melara) sono state costruite in Italia, mentre una fregata libica, di costruzione britannica, è stata da poco riequipaggiata con armamento italiano (tra cui gli Otomat). Sembra chiaro che se i responsabili della nostra Marina ritengono queste armi una minaccia alla sicurezza dell'Italia, esse non dovevano essere esportate.
Lasciando da parte i casi specifici, resta il fatto che l'Italia si è affermata come uno dei principali esportatori di ``grandi sistemi d'arma'' (aerei, elicotteri, navi, missili e veicoli corazzati). I dati dell'istituto svedese Sipri (cfr. tab. 28), che attestano ciò, offrono lo spunto per qualche commento.
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Tab. 28 Principali nazioni esportatrici di grandi sistemi d'arma:
i valori e le relative percentuali nel periodo 1980-84
% del totale
esportato al
Terzo Mondo
paese 1980 1981 1982 1983 1984 1980-84 1980-84
Stati Uniti 5.577 5.559 6.186 5.655 4.685 27.662 48,2
(36,7) (38,5) (42,9) (40,1) (40,4) (39,7)
Urss 6.538 4.741 4.184 4.174 2.532 22.170 76,8
(43,1) (32,9) (29,0) (29,6) (21,9) (31,8)
Francia 1.144 1.347 1.241 1.360 1.242 6.335 80,6
(7,5) (9,3) (8,6) (9,7) (10,7) (9,1)
Gran Bretagna 431 532 667 519 822 2.972 73,5
(2,8) (3,7) (4,6) (3,7) (7,1) (4,3)
Germania Ovest 316 435 250 613 746 2.359 61,0
(2,1) (3,0) (1,7) (4,4) (6,4) (3,4)
Italia 366 531 576 374 372 2.219 91,9
(2,4) (3,7) (4,0) (2,7) (3,2) (3,2)
Terzo mondo 192 306 438 467 311 1.714 96,1
(1,3) (2,1) (3,0) (3,3) (2,7) (2,5)
Cina 82 148 221 222 430 1.103 99,4
(0,5) (1,0) (1,5) (1,6) (3,7) (1,6)
Altri 533 831 668 707 444 3.182 62,9
(3,5) (5,8) (4,6) (5,0) (3,8) (4,6)
Totale 15.179 14.430 14.431 14.091 11.584 69.715 65,8
Nota: Le cifre sono valori del Sipri che esprimono una indicazione di tendenza, espressa in milioni di dollari, a prezzi costanti del 1975. La loro somma può non coincidere con il totale a causa dell'arrotondamento. Nella tabella le quote percentuali sono riportate tra parentesi.
Fonte: "SIPRI Yearbook" 1985, p. 346.
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In primo luogo si conferma la forte dipendenza italiana dai mercati del Terzo mondo, dove finisce quasi il 92%, per il Sipri, delle armi esportate dall'Italia. Gli altri paesi industrializzati - e in particolare Stati Uniti e Germania Federale - hanno una quota maggiore di clienti tra altri paesi industrializzati. Altro elemento importante è che il picco di vendite italiane si è avuto nel 1982, e ciò sia in cifra assoluta, sia come incidenza sul totale delle transazioni. A partire da quell'anno la presenza sul mercato di tedeschi e inglesi si è fatta più aggressiva, tanto che entrambi superano l'Italia nel totale del quinquennio. L'altro venditore emergente è il Terzo mondo - qui considerato nel suo complesso - che, partito nel 1980 con una quota di mercato pari all'1,2%, si attesta negli ultimi due anni su quote dell'ordine di quelle italiane. Non va trascurato, infine, che tra gli ``altri'' vi sono paesi come la Spagna, che hanno negli ultimi tempi mostrato un notevole dinamismo nelle proprie esportazioni
di armi (47).
I dati del Sipri, pur escludendo sistemi d'arma meno complessi e armi leggere, rappresentano un campione ragionevolmente significativo dell'andamento del mercato mondiale. E' quindi possibile farsi un'idea di quali siano le tendenze prevalenti. Per quanto riguarda il nostro paese, sembra proprio che esso cominci a patire l'attacco della concorrenza, e ciò sia dall'alto (Gran Bretagna, Germania Federale), sia dal basso (Spagna, paesi di nuova industrializzazione). Il senso di quest'ultima è abbastanza chiaro: altri produttori stanno ripercorrendo la strada già battuta dall'industria italiana, ovvero si stanno dotando di una limitata capacità industriale nel settore, basata sulle tecnologie mature, sulle produzioni su licenza e, in più, sul basso costo della manodopera. Le esportazioni italiane vengono così ad essere ostacolate sia dal fatto che qualche cliente sta cominciando a sostituire le proprie importazioni con prodotti indigeni, sia dalle stesse esportazioni di tali nuovi produttori.
Quanto alla concorrenza dall'alto, invece, per l'industria italiana significa confrontarsi con prodotti più sofisticati e di migliore qualità. Il che si riflette parzialmente nel tipo di domanda, meno dipendente dai paesi in via di sviluppo. A sua volta ciò significa mercati più stabili, meno esposti alla caduta del prezzo del petrolio e alla crisi finanziaria internazionale.
In conclusione si assiste a una marcata tendenza al ribasso nelle esportazioni di armamenti italiani. Lo confermano i dati del Sipri, i dati rilasciati dal governo sul valore delle licenze d'esportazione negli ultimi due anni, la contrazione in termini reali, tra l'84 e l'85, del fatturato dell'Associazione industrie aeronautiche (cfr. tab. 24). Ci sono poi altri segnali sparsi: i cantieri navali, completato l'ordine iracheno, lavorano solo su commesse della nostra Marina; un accordo del governo peruviano con l'Aermacchi per la produzione su licenza di MB-339 è stato interrotto, l'Agusta, da sempre grande esportatrice, è in gravissima crisi. Gli accordi di cooperazione firmati dal ministro della Difesa con Cina e India sono lettera morta, ovvero non hanno portato sinora a nessun risultato concreto in termini di contratti.
7. La legge sull'esportazione di armamenti
La pratica dei trasferimenti selvaggi di armi all'estero e stata resa possibile dalle norme vigenti in materia. A tutt'oggi le licenze vengono rilasciate da un comitato, composto da rappresentanti di vari dicasteri: esteri, difesa, industria, finanze, interni. Costoro sono affiancati da due ``esperti'', in pratica rappresentanti dell'industria bellica. Per rendersi conto della limpidezza con cui questo comitato agisce, si tenga presente che il decreto del 20 marzo 1975 che lo ha istituito non è mai stato pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale". Chiamato a renderlo pubblico, il governo ha sempre rifiutato. Infine l'esecutivo, sempre secondo l'attuale normativa, non è tenuto ad informare il parlamento nemmeno "ex post" (48). La situazione attuale equivale, quindi, a una patente di irresponsabilità che garantisce tutti i protagonisti: il governo, l'amministrazione della Difesa, le industrie.
E' solo logico, dunque, che gli appelli a una riforma della normativa siano andati moltiplicandosi nel tempo. Da almeno tre legislature vengono presentate e ripresentate proposte di legge di quasi tutti i gruppi politici.
Nella primavera del 1985, il governo ha finalmente rotto il ghiaccio e ha presentato un proprio disegno di legge. In sé la cosa è stata salutata come positiva, in quanto si sperava avrebbe almeno avviato la discussione. A un anno di distanza tutto è di nuovo fermo. Resta il testo governativo coi suoi meriti e i suoi demeriti. Vediamoli.
Nel preambolo si legge della ``necessità di rafforzare il controllo politico e amministrativo sull'attività di commercializzazione di materiale bellico''. Ciò allo scopo ``di evitare che correnti di traffico di armi, aventi origine o punto di intersezione nel nostro paese, alimentino focolai di tensione, di destabilizzazione, di aggressività'' (49). Subito, tuttavia, si getta acqua sul fuoco: il governo è infatti contrario a ``vincoli distruttivi per l'esportazione in questo settore'' che ``per la sua sopravvivenza... ha necessità di esportare''. Pertanto il ddl ``si preoccupa di razionalizzare, rafforzare e riordinare gli interventi governativi di supporto alle esportazioni''. Pare lecito domandarsi con cosa il testo governativo abbia a che fare: se col controllo o col sostegno delle esportazioni d'armamenti.
Proseguendo la lettura aumentano gli interrogativi. Si prevede infatti la creazione di un ``Comitato interministeriale per gli scambi in materia di difesa, con sede presso la Presidenza del consiglio''. Composto da rappresentanti di vari Ministeri, il Comitato definisce ``le linee di contenimento delle nostre correnti di esportazioni di materiale bellico''. Da esso dipendono, inoltre, alcuni uffici del Ministero della difesa - con funzioni informative - e un altro comitato, stavolta presso il Ministero del commercio con l'estero, che rilascia le licenze vere e proprie. E' anche prevista la creazione di un albo degli esportatori, cui deve iscriversi chiunque voglia vendere materiale da guerra all'estero. Il problema è, pero , che l'attività di tutti questi organismi, nella proposta del governo, sfugge al controllo parlamentare in senso proprio e a quello dell'opinione pubblica.
Difatti la relazione annuale sulle esportazioni che l'esecutivo dovrebbe approntare, verrebbe trasmessa al ``Comitato previsto dalla legge 24 ottobre 1977, n. 801'', cioè al Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Gira e rigira, quindi, in questa ridda di comitati tra il dedalo e le scatole cinesi, si finisce in un organismo per niente trasparente. ``Ciò in ragione... del particolare regime di riservatezza... connaturale alla materia di cui qui si tratta''.
Ora, che durante le trattative con un governo straniero, il nostro senta l'esigenza di riservatezza è forse comprensibile. Che la senta invece in sede consuntiva, quando le decisioni sono state prese e si tratta soltanto di assumersi la propria responsabilità politica, non lo è affatto. Il ministro della Difesa è arrivato a sostenere, in altra sede, che bisogna ``esorcizzare'' la ``demonizzazione'' dell'industria bellica (50). Non pare, però, che il modo migliore per farlo sia quello di attribuire a questa industria ``nature'' particolari, oltretutto bisognose di altrettanto particolare ``riservatezza''.
L'esame dell'articolato conferma i limiti appena visti. Manca il divieto esplicito, ad esempio, di esportare a paesi in guerra o a paesi colpiti da embarghi dell'Onu. La definizione di materiale bellico è troppo permissiva: per carri, veicoli, navi, aeromobili e apparati elettronici si specifica sempre che per rientrare nella normativa essi devono esser stati ``appositamente costruiti per uso militare'' - cosa questa difficile da dimostrare con assoluta certezza, in molti casi. Infine il punto a) di questa discutibile classifica di materiale bellico riguarda le ``armi nucleari, biologiche e chimiche''. Non sarebbe stato meglio scrivere semplicemente che l'Italia non produce - e quindi non può esportare - armi nucleari, biologiche e chimiche?
8. La ricerca e sviluppo nel settore militare
Un buon indicatore delle tendenze di un settore industriale sono gli investimenti in ricerca e sviluppo (R/S). Purtroppo però è proprio in questo campo che si tocca il fondo della disinformazione italiana nelle cose militari. I dati variano - senza che si riesca a rintracciare alcun nesso logico in tali variazioni - a secondo della fonte. E' questa l'esperienza fatta da un economista dell'Università Cattolica di Milano, Giancarlo Graziola, nel mettere a confronto cifre tratte dal bilancio della Difesa, dalla "Relazione generale sullo stato della ricerca scientifica e tecnologica" e dal Ministero delle partecipazioni statali (51).
La prassi vuole che quando non si sa più che pesci prendere, si prova con le fonti straniere. Secondo il Sipri, dunque, nel periodo 1981-84 in Italia le spese per R/S hanno oscillato attorno al 2% del totale delle spese militari e al 6% del totale delle spese governative per R/S. Lo stesso istituto indica in circa il 10%, 35% e poco meno del 50% la quota militare delle spese governative in R/S per, rispettivamente, Germania Federale, Francia e Gran Bretagna - il Giappone è invece tra l'1 e il 2% (52).
Per i militari italiani la fetta della torta di R/S che va alla Difesa è, manco a dirlo, inadeguata. Occorrerebbe una percentuale ``analoga a quella di altri paesi europei... comparabili con l'Italia''; cioè Francia e Gran Bretagna. Si invoca poi un ``coordinamento organico e permanente tra difesa, centri civili di ricerca scientifica e tecnologica e sistema produttivo'', nonché l'attribuzione alla Difesa di ``poteri vincolanti per la concessione di qualsiasi finanziamento pubblico nel settore (delle industrie che producono armamenti)''. Infine bisogna ``prevedere delle compensazioni al bilancio della Difesa per le ricadute della R/S militare sulle produzioni civili'' (53). Lasciamo da parte, in queste prese di posizione, l'abitudine dei nostri militari di usare come modello francesi e inglesi - come se l'Italia avesse identica storia, identici problemi di sicurezza, identiche risorse e identici obiettivi. Su questo torneremo nelle conclusioni. Qui vale la pena di notare l'originale idea di rimborsare la Dif
esa delle eventuali ricadute civili delle scoperte scientifiche militari. Che, va detto, è un ottimo argomento per convincere i civili a investire nel civile. Difatti sinora, l'assunto implicito di tutti i discorsi sulle ``benefiche ricadute'' era che queste fluissero liberamente, ripagando i costi opportunità inerenti nel dare la priorità al settore militare. Dal punto di vista di chi ha interesse a investimenti nella sfera civile dell'economia non c'è quindi più nessun vantaggio a passare attraverso il filtro militare: nemmeno quello delle ricadute. Ricadute che, a quanto pare, la Difesa vorrebbe vedersi ``compensate'' sul proprio bilancio.
9. La ``strategia'' dell'industria militare italiana
Che il governo italiano, i militari o gli industriali abbiano una strategia - idee precise sugli sviluppi futuri in base alle quali operare delle scelte - nel settore bellico è alquanto dubbio.
I governi, in questo paese, sono destinati ad essere governi di coalizione: poiché la Difesa può andare a un partito e a un partito solo, è difficile che gli altri non oppongano prima o poi qualche resistenza a un aumento dell'influenza del responsabile del Ministero di via XX Settembre. Questa è una specie di compensazione naturale al fatto che nessun partito italiano ha qualche idea in materia di sicurezza e, quindi, di industria d'armamenti. Chi studia queste questioni, da noi, dovrebbe ormai essere assuefatto allo spettacolo di ministri che si limitano, con varianti minime, a fare da cassa di risonanza dei loro consulenti militari - cercando consenso così tra chi, direttamente o indirettamente, dipende dall'economia della Difesa.
Quanto ai militari, ammesso che esistano opinioni tra loro, non se ne vede traccia. Diciamo questo perché è Stupefacente l'unanimismo con cui, chiunque abbia accesso a un microfono o alla carta stampata, di qualunque grado sia, tutto quello che riesce a dire è che occorrono più risorse, che ``lo strumento ha raggiunto la soglia della sopravvivenza'' e così via. Francamente non riusciamo a ricordare un solo intervento in cui pessimismo e ottimismo si equilibrassero in qualche modo, in cui per ottenere qualcosa si prendesse realisticamente atto che bisogna rinunciare a qualcos'altro. E' strano doverlo dire a proposito di militari, ma una strategia non si fa con gli allarmi e le pressioni. Così si fa "lobby"; il che è normale, ma è appunto cosa da tutti i giorni. Gli industriali, infine, in tutta la fase espansiva dell'industria bellica italiana hanno avuto un solo criterio-guida, chiaro e semplice come le idee cartesiane: l'affare. Assecondati in questo dal governo che, oltre a proteggerli e sussidiarli all'in
terno, ha permesso loro di esportare tutto a tutti. Qualcosa si muove, tuttavia, e sarebbe stupido negarlo. Spadolini ha scoperto che la politica di sicurezza ruota attorno alla definizione delle minacce, che le forze armate dovrebbero organizzarsi per missioni, che occorre uno ``spirito interforze'' e così via. Tutti concetti entrati nel "Libro bianco" - altra semi-rivoluzione - pur se in mezzo alle tradizionali reticenze, alla solita retorica militare, alla confusione concettuale risultante da interessi contrastanti - come quelli, perduranti, delle singole forze armate in competizione tra loro. Nel campo dei rapporti tra la Difesa e l'industria si assiste invece al tentativo di allacciare legami più stretti: è stato costituito per decreto, nell'agosto del 1984, il Comitato difesa-industria. E' suo scopo quello di coordinare le azioni di vari Ministeri nel settore della ricerca, sviluppo e produzione industriale che ``presentino interesse per le forze armate''. Il C
omitato è presieduto da un sottosegretario alla Difesa. I militari sono rappresentati dal segretario generale alla Difesa-direttore nazionale agli armamenti, con funzioni di vice-presidente del Comitato, e dal sottocapo di stato maggiore alla Difesa. I Ministeri dell'industria, degli esteri e delle partecipazioni statali prendono parte con funzionari a livello di direttore generale. Due dirigenti superiori rappresentano i Ministeri del commercio con l'estero e della ricerca scientifica. Infine quattro rappresentanti dell'industria d'armamenti partecipano senza diritto di voto.
Più interessante della capacità combinatoria della burocrazia, può essere l'opinione di quella parte dell'imprenditoria italiana che invece una strategia ha sempre mostrato di averla. Ci riferiamo alla Fiat.
Questo gruppo è andato allargando, negli ultimi anni, la propria attività nell'area della Difesa, sia tramite quelle consociate (Iveco, Fiat aviazione ecc.) da tempo nel settore, sia con l'acquisizione di nuove società (Snia). Per ampiezza di partecipazioni finanziarie (cfr. figura 31) e per varietà produttiva, il gruppo Fiat è chiaramente il capofila dell'imprenditoria privata nell'industria bellica. Capire perché questo gruppo è così interessato alla produzione militare, su quali tendenze scommette - insomma qual è la sua strategia - è quindi molto importante. Già nel marzo del 1983, l'amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti, aveva tracciato un quadro estremamente significativo dei trend prevalenti nel mercato internazionale di armamenti. Si tratta di una lunga citazione, ma crediamo valga la pena riportarla per intero.
1) La presenza dei due blocchi contrapposti continuerà... a vincolare il nostro paese nell'accesso alle tecnologie più avanzate, nelle definizioni operative degli equipaggiamenti, nella possibilità di affacciarsi ai tradizionali sbocchi di esportazione. 2) Questa situazione politica, combinata con la crisi finanziaria internazionale, e con la più recente crisi del petrolio... contribuirà ad accrescere l'importanza del ruolo degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica nel mercato dell'armamento. 3) ...In totale i due paesi controllano oltre il 70% del mercato (l'Italia el al quarto posto con il 4,3%, preceduta dalla Francia con il 9,7%). E' verosimile che nel prossimo futuro assisteremo ad un ulteriore incremento delle esportazioni dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti, riferite ad un mercato tendente alla staticità, o peggio, alla retrazione. 4) Questi incrementi saranno sottratti verosimilmente all'industria della Difesa dei paesi europei (Gran Bretagna, Francia e soprattutto Italia), insediati anche dal
basso dall'ingresso sui mercati più poveri e meno esigenti, di alcuni paesi di recente industrializzazione (esempio Brasile, Spagna e Corea del sud). 5) In un recentissimo studio dell'EPIN, che è l'ente che così bene coordina le iniziative nel settore navale, viene analizzato il futuro di questo mercato: le prospettive non sono espansive, ed i volumi totali del mercato a medio termine si preannunciano in diminuzione sia per la quantità che per la dimensione delle nuove costruzioni. Il mercato dell'usato, ceduto a prezzo molto basso, o addirittura gratuitamente, sarà controllato dalle due o tre nazioni più ricche e più dotate di mezzi. E quest'ultimo non è limitato alla marina: vale certamente anche per gli aerei e per i carri da combattimento. 6) Inoltre, l'attenzione che il Fondo monetario internazionale ha già posto verso l'indebitamento di alcuni paesi a causa delle loro politiche di acquisizione di armi, induce a pensare a future pressioni per il `raffreddamento' di questo tipo di importazione. Non reste
rà, quindi, per quei paesi, che accontentarsi di forniture in conto di aiuti militari da pagarsi con la moneta, essenzialmente politica, del vincolo di appartenenza all'uno o all'altro blocco. E' questo un tipo di fornitura che nell'attuale situazione, l'Italia non è certo in grado di pianificare da sola, ma che dovrà risolvere nell'ambito di precisi ruoli da concordare con il nostro principale alleato''.
``Ma vi sono anche - proseguiva Romiti - interessanti prospettive di tipo strategico-militare che meritano qualche riflessione. Con l'evoluzione della strategia Usa verso la cosiddetta teoria della Battaglia Aeroterrestre ("Airland Battle"), che persegue la strategia dell'attacco flessibile in profondità attraverso l'integrazione coordinata delle forze terrestri ed aeree è da prevedersi un maggiore impegno dell'industria degli armamenti negli Stati Uniti verso un mercato più efficace, sofisticato e diffuso. La densità dell'armamento per soldato tende, infatti, ad aumentare sostanzialmente anche sotto l'aspetto qualitativo. In parte questo programma è già in corso di realizzazione da parte degli Stati Uniti: dal nuovo carro armato ai veicoli corazzati da trasporto e esplorazione; al nuovo elicottero controcarro; ai lanciarazzi da saturazione; ai sistemi contraerei di comunicazione e controllo e di avvistamento in profondità. La capacità industriale americana, rilanciata sull'armamento convenzionale da questi
nuovi programmi, tenderà in seguito a trovare sbocchi sul mercato internazionale, anche eventualmente su prodotti della generazione precedente. Senza contare i `surplus' di materiale che il governo degli Stati Uniti può rendere disponibili per gli aiuti ai paesi Terzi. Né dobbiamo dimenticare, infine, la recente decisione del governo giapponese di aprire alla sua industria il settore della Difesa, che comincerà, verosimilmente tra qualche anno, a far sentire la sua presenza sui mercati internazionali (54).
Si è visto in questi ultimi due anni come l'analisi di Romiti sulla contrazione generale del mercato internazionale di armamenti fosse sostanzialmente corretta. Giusto era pure indicare nell'Italia uno dei paesi più esposti, dal lato dei venditori, a tale contrazione. Il vero motivo conduttore dell'amministratore delegato della Fiat era però un altro: il rilancio della leadership degli Stati Uniti, in campo occidentale, nella produzione di armi convenzionali. Il mercato più sostanzioso, sembra di capire, ridiventa per la Fiat quello dei paesi sviluppati. Si tratta di agganciarsi al treno delle nuove tecnologie, e ciò può essere fatto solo al traino della locomotiva americana. Bisogna dire che le scelte fatte in seguito dalla Fiat sono state perfettamente conseguenti: l'interesse chiarissimo mostrato verso l'Iniziativa di difesa strategica sin dal luglio dell'85 (55); l'ingresso insieme alla United Technologies nel pacchetto azionario della fabbrica di elicotteri britannica Westland nel febbraio dell'86, dopo
la lunga battaglia contro il consorzio europeo (Agusta, Aerospatiale, Mbb, British Aerospace e la General Electric inglese) - sono due importanti esempi in tal senso.
E' anche probabile che la Fiat veda nella "partnership" con gli americani, sia pure in posizione subalterna, il miglior modo di mantenere le proprie posizioni sul mercato interno: così facendo, infatti, la casa torinese si aggiudicherebbe una sorta di diritto di prelazione sulle produzioni su licenza da eseguire per conto delle forze armate italiane. D'altronde quello cui la Fiat sembra tenere di più è il mercato dei paesi industrializzati, del quale si prevede un'espansione della spesa militare - per giunta in direzione di equipaggiamenti sempre più sofisticati e costosi. Il nostro paese è tra questi: perché quindi non sfruttarne le pratiche protezionistiche, mettendosi in condizione di fare da filtro tra la Difesa e le case statunitensi?
Al dinamismo della Fiat fa riscontro il piccolo cabotaggio altrui. Si pensi, in tal senso, all'interminabile querelle sul polo aeronautico, cioè il raggruppamento in un'unica finanziaria dei maggiori produttori italiani di velivoli: Agusta e Aeritalia. Tutti capiscono che tale raggruppamento è ormai indispensabile per non continuare a disperdere risorse duplicando identiche funzioni. Tuttavia nessuno è in grado di prendere la decisione perché gli interessi dei partiti divergono (56).
Classicamente, l'alternativa al rapporto privilegiato con gli Stati Uniti sono le coproduzioni europee. Spesso il problema viene visto, secondo noi a torto, come una contrapposizione tra Europa e Stati Uniti. In realtà il dilemma è tra una collaborazione con gli americani in ordine sparso - come piace alla Fiat - oppure la stessa collaborazione ma dopo aver messo ordine tra gli europei. Pare ragionevole, quindi, privilegiare le coproduzioni europee non per fare un dispetto a Washington, bensì proprio per offrire agli americani un interlocutore più serio e credibile. Da un tale processo di razionalizzazione, tutti avrebbero di che guadagnare.
Quello di guardare al problema della produzione di armamenti su scala europea è da anni il suggerimento standard dei moderati e delle ``colombe'' (57). La speranza è quella di dimensionare l'industria bellica su un mercato più ampio dei vari mercati nazionali. Diminuirebbe così - si spera sino ad esaurirsi - la spinta delle industrie nazionali a cercare nei paesi in via di sviluppo mercati di sbocco. Si eviterebbero sprechi e duplicazioni, liberando risorse per impieghi meno mortiferi. In comune si riuscirebbe forse a tenere meglio sotto controllo la spirale dei costi crescenti dei sistemi d'arma. Aumenterebbe l'efficacia difensiva dell'alleanza e a costi minori per il fatto di poter contare su equipaggiamenti standardizzati e interoperabili. Si affievolirebbe la pressione sui singoli governi delle rispettive "lobby" industrial-militari, con la conseguenza di poter guardare più serenamente di ora al problema del controllo degli armamenti. Non sarebbe certo il ``Disarmo''. Pero un passo in quella direzione tu
tto ciò potrebbe pur esserlo.
Manca drammaticamente, tuttavia, l'immaginazione politica per far questo. Su scala europea si riproducono la mancanza di strategia e la confusione sugli obiettivi di politica di sicurezza che abbiamo visto dominare la scena italiana. Una volta sono gli inglesi (dando via libera alla United Technologies nell'affare Westland), più spesso tocca ai francesi (il ritiro dal progetto di caccia europeo): nessuno tuttavia può chiamarsi fuori dalle proprie responsabilità nel perseverare in pratiche protezionistiche di corto respiro. Meno che mai noi italiani.
10. Conclusioni
Qui di seguito alcune osservazioni che ci sembra lecito trarre da questa rassegna sull'industria d'armamenti italiana.
In primo luogo, produzione e occupati nel settore bellico sono a tutt'oggi un fenomeno marginale nel complesso dell'economia italiana. Per intenderci, la Francia ha 310.000 addetti all'industria militare, la Germania Federale 225.000, la Gran Bretagna 435.000, con un'incidenza del fatturato sul totale industriale nazionale rispettivamente del 9,3%, del 3,5% e del 10,9% (58). Dunque l'ordine di grandezza del caso italiano è ancora piuttosto contenuto. Il che non lo diciamo per minimizzare. Si tratta semmai di rendersi conto che in Italia un'eventuale conversione nel civile sarebbe meno difficile e dolorosa che altrove - la qual cosa speriamo suoni di incoraggiamento, se non altro a studiare il problema.
Detto questo, bisogna subito rammentare che - come abbiamo visto - gli appelli in favore dell'espansione si sono negli ultimi tempi moltiplicati. Abbiamo anche cercato di dimostrare che le argomentazioni portate a sostegno dell'industria bellica sono di solito poco convincenti. Ad esempio la questione dell'autosufficienza come garanzia dell'indipendenza nazionale è risibile: a) perché è al di fuori della portata italiana, perlomeno nel breve-medio termine; b) perché ha un sapore ottusamente autarchico e nazionalista.
Un po' più complesso è il discorso per quanto riguarda le ricadute sull'economia che si avrebbero proteggendo e sussidiando - come di fatto avviene - l'industria bellica nazionale e promuovendone l'espansione attraverso investimenti in R/S. Qui va detto francamente che con questa sorta di militarismo keynesiano si sta esagerando. Si è arrivati ormai all'assurdo: generali dell'Esercito che si sentono in diritto di compiere scelte di politica economica. Non sappiamo, infatti, come interpretare diversamente le dichiarazioni già viste del generale Jean, secondo il quale è del tutto naturale pagare in modo salato armi scadenti. Pena la rovina dell'industria (d'armamenti) italiana. La scelta sui settori dove investire il denaro pubblico, tuttavia, non è competenza dei generali. Questi pensino alla politica di sicurezza e aiutino a stabilire che tipo di organizzazione e quali mezzi occorrono per difendere il paese. Perché è questo il loro ruolo istituzionale.
Insomma il discorso sull'economia militare va rovesciato (59): bisogna insistere per preservare la priorità alle scelte di politica di sicurezza. In base a queste, e come secondo passo, si verifica se e quanto è necessario investire nel settore bellico. Viceversa, quando il problema è di politica economica, l'industria degli armamenti è solo uno dei possibili settori dove si possono impegnare risorse, e non è affatto detto che l'investimento in tale settore presenti vantaggi incontrovertibili. Valenti economisti ritengono anzi che investire nel militare danneggi l'economia di un paese.
La seconda osservazione riguarda le esportazioni di armi. Difatti noi siamo del parere che il motore dell'espansione dell'industria militare è stata, e continuerà ad essere, la domanda interna e non le esportazioni. Va pure detto che il fenomeno dell'esportazione di armi italiane è stato spesso esaltato o criticato in termini troppo generici. L'"establishment", sorvolando sulla natura di certi clienti, ne ha fatto spesso l'epitome delle ``benefiche ricadute'' sull'economia nazionale. Le colombe, altrettanto spesso, sono cadute nella trappola di esagerarne la portata economica. Non diversamente dall'industria bellica nel suo complesso, le vendite di armi all'estero vanno discusse sul piano che è loro proprio: quello della politica estera e di sicurezza. Si scopre così che l'aspetto economico rafforza l'argomento contro certe forniture (Libia, Sudafrica, paesi in guerra come Iraq e Iran) che nuocciono alla nostra sicurezza e all'immagine internazionale del paese. Lo rafforza perché è, se non trascurabile, cert
o limitato. Tanto per fare un esempio di segno opposto: se un nostro alleato, diciamo il Belgio, fosse interessato all'acquisto di un'arma italiana, che senso avrebbe opporsi alla fornitura? Purtroppo, comunque, tutta la questione continua a poggiare sulla testa, invece che sulle gambe. Per rendersene conto basta scorrere il già discusso disegno di legge del governo sull'esportazione di armamenti. In definitiva quando in Italia si discute di industria bellica, lo si fa con gli stessi limiti con cui si parla di politica militare. Si dà per scontato che l'esempio da seguire sono i maggiori paesi europei: Francia, Gran Bretagna, Germania Federale. Che hanno, tuttavia, diverse risorse, diverse storie, diverse ambizioni e, soprattutto nel caso della Rft, diverse minacce. Per quanto riguarda l'industria in particolare, poi, poco si tiene conto della classica controprova: il Giappone. Un paese con spese militari in percentuale molto basse - attorno all'1% del pil - una produzione d'armamenti assai limitata, eppure
una tecnologia invidiabile e un'economia floridissima che sono alla base della crescente statura internazionale di quel paese.
Dopo aver tanto insistito sulla mancanza di strategie coerenti con cui si muovono gran parte degli industriali, dei militari e dei responsabili politici della Difesa, vorremmo chiudere con uno sguardo all'opposizione intendendo con quest'ultimo termine i movimenti e le forze politiche che a un'espansione della sfera militare nell'economia e nella società mostrano di opporsi. E qui ci sembra di vedere la stessa mancanza di strategia -alternativa questa volta. E' autoevidente che non basta opporsi ad alcunché. Occorre l'indicazione di: a) cosa si è disposti ad accettare e cosa no; b) cosa si vuole sostituire a ciò che si rifiuta. Sarebbe già molto l'individuare settori da promuovere - per i quali raccogliere adesioni e consensi - in alternativa a quello militare. Come si è visto, quest'ultimo la sua "lobby" ce l'ha, e sempre più compatta.
Ancor meglio, comunque, sarebbe radunare le non ingentissime risorse necessarie a un'indagine seria sulla conversione - parziale o totale - dell'industria d'armamenti italiana. L'individuazione sistematica delle alternative potrebbe dare finalmente all'opposizione una strategia. E all'"establishment" un interlocutore degno di questo nome.
NOTE
1. MINISTERO DELLA DIFESA, "Libro bianco della Difesa", Roma, 1977, p. 305.
2. ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI (Iai) (a cura di), "L'Italia nella politica Internazionale 1980-81", Milano, Edizioni di Comunità, 1982, p. 196, nota 73.
3. Per le poste di bilancio che formano la spesa per armamenti, cfr. la nota 7 del capitolo 5. Rispetto ai criteri colà indicati sono state qui aggiunti i capitoli di bilancio relativi all'acquisto di armi dell'arma dei carabinieri. Per la distinzione tra cassa e competenza cfr. il paragrafo del capitolo 5.
4. La ripartizione Italia-estero delle commesse legate alle leggi promozionali è negli allegati ``c'' ai rapporti annuali sullo sviluppo di tali leggi; rapporti annessi al bilancio della Difesa. Cfr. tab. 12 del bilancio dello Stato, Disegno di legge, anni 1980-86. Più contenute sono le stime dell'Arms Control and Disarmament Agency, che indicano in 170 milioni di dollari (circa 260 miliardi di lire) le importazioni italiane di armi nel 1983 - da queste cifre sono però escluse le importazioni che passano per agenzie della Nato. Cfr. U.S. ACDA, "World Military Expenditures and Arms Transfer 1985", p. 109.
5. Essi sono: Fiat, Finanziaria Breda, Finmeccanica, Agusta, Snia-Bpd, Fincantieri, Stet, Oerlikon, Aeronautica Macchi, Elettronica, Borletti, Bastogi. Cfr. ROSSI S.A. "Il sistema economico della Difesa", relazione tenuta alia Conferenza nazionale sull'industria per la difesa, Roma 3-4 luglio 1984, Ministero della difesa, Roma, p. 38.
6. Cfr. "Panorama Difesa", n. 4, 1983.
7. Le 3000 principali società italiane", supplemento a "Il Mondo", 11 nov. 1985.
8. "Informazioni Parlamentari Difesa" (d'ora in avanti Ipd), n. 34-5, 1985, p. 50. Non è indicato in quale ramo del parlamento l'audizione avesse luogo, né in qual giorno.
9. Non possiamo fare a meno di notare, a questo punto, la confusione che regna tra le varie fonti a proposito dei risultati del gruppo Breda. Sergio A. Rossi indica in 1.100 miliardi il fatturato del gruppo nel 1983 (Cfr. ROSSI 5. A., "Il sistema..., op. cit.", p. 38): si tratta all'incirca dei 1.067 miliardi appena visti, più 97 miliardi risultanti dalle vendite di Ototrasm, Breda Fucine e Breda Fucine Meridionali - la differenza, 64 miliardi, può essere imputata all'arrotondamento. Tuttavia lo stesso Rossi indica in 600 miliardi, pari al 65%, l'incidenza dell'export sul fatturato del gruppo. Il che non può coincidere né in cifre assolute, né in percentuale, col dato indicato da Lattuada: infatti Ototrasm, Breda Fucine e Breda Fucine Meridionali non possono aver esportato più di quanto hanno fatturato, che è come dire la differenza tra 600 miliardi e 422. Ma c'è di più, se Rossi ha preso le vendite del gruppo al lordo delle vendite tra consociate, allora perché non fare la stessa cosa col dato dell'esportaz
ione? Non si spiega infatti come avrebbe fatto tutto il gruppo ad esportare 600 miliardi, quando la sola Oto-Melara avrebbe esportato 730 miliardi, cioè il già citato 84% del proprio fatturato 1983, pari ad 869,8 miliardi. Resta il fatto, comunque, che guardando ai risultati d'esercizio dell'Oto-Melara con un minimo di grano di sale, la componente Italia-estero tende a riequilibrarsi.
10. Cfr. "Ipd", n. 11, 1983.
11. Di nuovo il dato indicato da Rossi, 700 miliardi, non coincide né con l'uno né con l'altro, forse a causa della deduzione delle produzioni civili del gruppo. Cfr. ROSSI 5. A., "Il sistema..., op. cit.", p. 38.
12. Cfr. "Ipd", n. 16-17, 1984, p. 43.
13. Cfr. ROSSI 5. A., "Il sistema..., op. cit.", p. 39. Lo stesso autore, in un articolo apparso sulla rivista "Difesa Oggi" (n. 77, set. 1984) parlava di 6000 miliardi di ``fatturato netto, eliminando cioè le forniture e gli interscambi interni di componenti'' al 1983. E' appunto il 20% in meno circa, rispetto ai 7400 miliardi ``lordi''.
14. U.S. ACDA, "p. cit." p. 143. Traduzione nostra.
15. Cfr. CICCIOMESSERE R., "Italia armata. Rapporto sul Ministero della Guerra", Gammalibri, Milano, 1982, p. 281 e p. 296.
16. Cfr. NONES M., ``Le prospettive di collaborazione dell'industria militare europea'', "Ipd", n. 6-7-8, 1985. La fonte è la stessa anche per i dati sulla Francia che seguono nel testo.
17. In milioni di dollari correnti la spesa militare della Germania Federale è stata pari a 22.375, quella francese a 21 654, quella italiana a 9.698; il tutto per l'anno 1983. Cfr. INTERNATIONAL INSTITUTE FOR STRATEGIC STUDIES (Iiss), "The Military Balance 1985-1986", London, 1985, p. 170.
18. Cfr. ROSSI S. A., "Il sistema..., op. cit.", p. 48.
19. "Ipd" n. 18-19-20, 1985, p. 56.
20. Cfr. U.S. ACDA, "op. cit.", p. 109.
21. Cfr. "Le 3000 principali società italiane, op. cit."
22. Cfr. ROSSI S. A., "Il sistema..., op. cit.", p. 38.
23. N. 48246, 27-12-1983, ``concernente acquisti in Italia e/o all'estero''. Bilancio dello Stato, tabella 12 (difesa), Disegno di legge, 1986, p. 366.
24. Comitato per l'attuazione della legge 16/06/1977, n. 372, verbale della riunione del 9 febbraio 1981.
25. Cfr. "Ipd", n. 14-15, 1984, p. 43.
26. "Ipd", n. 9, 1983.
27. Cfr. "Difesa Oggi", n. 79, nov. 1984, p. 503.
28. Cfr. "L'industria Italiana della Difesa 85-86, annuario di "Difesa Oggi", Publi Consult International, Roma (1985), p. 503
29. "Ipd", n. 16-17, 1984, p. 44.
30. JEAN C. (generale di brigata), "La strategia industriale del sistema difesa", relazione tenuta alla Conferenza nazionale sull'industria per la difesa, Roma 3-4 luglio 1984, Ministero della difesa, Roma, p. 20.
31. Cfr. "SIPRI Yearbook 1985", pp. 424-39.
32. Cfr. ``Battle Tanks'', supplement to "International Defense Review", n. 9, 1985, pp. 64-71.
33. Cfr. ATTI PARLAMENTARI, Camera dei deputati, 9ª legislatura, discussioni, allegato al resoconto della seduta del 23 luglio 1984, ``Risposte scritte ad interrogazioni'', p. 1884.
34. Cfr. "Ipd", n. 14-15 del 1984, p. 44.
35. Cfr. "L'Industria Italiana della Difesa 85-86", op. cit.", p. 105.
36. Cfr. "International Defense Review", n. 6, 1985.
37. Cfr. U.S. ACDA, "World Military Expenditures and Arms Transfer", 1970-79.
38. Cfr. U.S. ACDA, "World Military Expenditures and Arms Transfer", 1985, pp. 131-34.
39. Cfr. SILVESTRI S., ``Fiat voluntas Reagan'', "L'Europeo", 3 ago. 1985.
40. Cfr. "Aviation Week and Space Technology", 20 gen. 1986.
41. Cfr. in questo stesso volume il saggio di Marco Carnovale.
42. ROSSI S. A., "Il sistema..., op. cit.", p. 2.
43. ``Intervento del Sen. Giovanni Spadolini, ministro della Difesa, all'apertura dei lavori'', in "Atti della Conferenza nazionale sull'industria della Difesa", Roma, "3-4 luglio 1984", vol. 1, Ministero della difesa, Roma, (1984), p. 1.2.
44. Cfr. DEVOTO G., ``L'espansione dell'industria bellica italiana nell'ultimo decennio: esportazioni, fatturato, occupazione'', in AAVV, "Il complesso militare industriale in Italia", Rosenberg e Sellier, Torino, 1979.
45. Cfr. "SIPRI Yearbook 1984", pp. 197-99. In particolare viene citata, con Urss, Francia, Spagna ed Egitto ``tra i maggiori fornitori di armi all'Iraq''.
46. Cfr. "L'Industria Italiana della Difesa 85-86, op. cit.", p. 29.
47. Cfr. LOOSE WEINTRAUB E., ``Spain new defence policy: arms production and exports'', in "SIPRI Yearbook 1984", pp. 137-49.
48. Cfr. CICCIOMESSERE R., "op. cit.", pp. 285 e sgg.
49. Questa e tutte le citazioni successive del ddl sono tratte dal testo pubblicato da "Ipd", n. 12-13-14, 1985. Al solito questa fonte ha la pessima abitudine di non specificare la data del documento originale.
50. "Ipd", n. 9-10-11, 1985, p. 100. Spadolini era in visita alla Beretta.
51. Cfr. "Ipd", n. 9-10-11, 1985, pp. 110-101.
52. Cfr. "SIPRI Yearbook 1985", pp. 288-289.
53. JEAN C., "op. cit."
54. ROMITI C., ``Concentrare le risorse su pochi e definiti obiettivi'' (relazione al convegno di "Città e Regione", Firenze, 19 mar. 1983), "Ipd", n. 9, 1983, pp. 26-28.
55. Cfr. KRAUSE A., ``Fiat Says It Wants to Compete for Work on SDI'', "International Herald Tribune", 17 lug. 1985.
56. Classicamente l'Iri, cui appartiene l'Aeritalia, è appannaggio della Democrazia cristiana. L'Efim, cui fa capo l'Agusta, è territorio socialista e socialdemocratico. Nessuno vuol cedere, acconsentendo a una fusione sotto l'altrui egida. Nel frattempo si fa avanti la Fiat, che ha proposto l'acquisto del 40% del pacchetto azionario dell'Agusta. Cfr. ``Italy Weighs Reorganizing Aerospace Manufacturers'', "Aviation Week Space Technology", 3 mar. 1986.
57. Recentemente anche un ``falco'', come l'ex presidente dell'Oto-Melara Gustavo Stefanini, ha dichiarato: ``Tutto lascia pensare che l'Italia cesserà di essere un paese esportatore... Per cui il business italiano dovrà concentrarsi sull'Europa: sulla difesa europea''. Cfr. "Mondo Economico", 5 ago. 1985.
58. NONES M., "op. cit."
59. ``The Case for Military Investment is Upside Down'' è appunto il titolo di un articolo di Flora Lewis, apparso sull'"International Herald Tribune", 10 feb. 1986.