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Rutelli Francesco - 15 settembre 1986
L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO (11) Una proposta di legge per la conversione dell'industria bellica
di Francesco Rutelli

IRDISP-ISTITUTO DI RICERCHE PER IL DISARMO, LO SVILUPPO E LA PACE

SOMMARIO: Va bene la corsa al riarmo, ma che c'entra l'Italia? Non sono gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica i promotori di tale corsa? Che le due superpotenze siano i principali responsabili della corsa al riarmo è vero. I principali, ma non gli unici. Anche l'Italia ha la sua parte di responsabilità. Minore, ma non trascurabile. In cifre assolute la spesa militare dell'Italia è stata nel 1985 l'ottava al mondo. Quanto al numero di uomini alle armi siamo tra i primi quindici. E tra gli esportatori mondiali di armamenti, gli italiani figurano nei primi sei posti. Il peso del settore militare sul complesso dell'economia italiana è ancora piuttosto contenuto: la spesa assorbe il 2,7% del prodotto interno lordo; le armi rappresentano il 2,7% della ricchezza prodotta dall'industria e il 2,3% delle esportazioni. Inoltre le minacce militari alla sicurezza dell'Italia sono meno gravi di quelle che si trovano a fronteggiare numerosi altri attori internazionali - compresi molti nostri alleati. Siamo quindi in una sit

uazione che offre molte opportunità di contenimento della spesa, di sperimentare conversioni al civile delle produzioni militari, di promuovere una politica di sicurezza realista e distensiva. Sfortunatamente queste opportunità non vengono colte. Al contrario nell'ultimo decennio s'è affermata la tendenza all'espansione che è urgente arrestare. E' dalla metà degli anni '70, infatti, che l'Italia comincia a figurare tra i principali esportatori di sistemi d'arma, e che la spesa militare supera i tassi di crescita annuale concordati in sede NATO. Ed è sempre in quelo periodo che cominciano a farsi sentire i sostenitori di un "nuovo ruolo" militare dell'Italia nel Mediterraneo. Il "Libro bianco", presentato dal ministro della Difesa Spadolini nell'inverno 84-85, sintetizza e mette a punto questi sviluppi, ovviamente dalla parte di chi li ha sostenuti e si augura che proseguano. Questo volume, invece, fa emergere i dubbi, gli interrogativi, le proposte alternative rispetto a quello che sinora è stato un monologo

dell'establishment.

("L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO" - Un contro-libro bianco della difesa - a cura di Marco De Andreis e Paolo Miggiano - Prefazione di Roberto Cicciomessere - Franco Angeli Libri, 1987, Milano)

8. UNA PROPOSTA DI LEGGE PER LA CONVERSIONE DELL'INDUSTRIA BELLICA

di Francesco Rutelli

1. Motivi per convertire l'industria di armamenti

Si è iniziato a discutere del costo diretto della spesa militare: le risorse monetarie assegnate alla Difesa e da questa girate in parte alle imprese che producono sistemi d'arma.

Gli studi economici sulla conversione sottolineano un altro tipo di costo. Ovvero il costo opportunità dei beni e servizi civili che la collettività viene a perdere quando delle risorse vengono destinate alla produzione militare. Si tratta di un principio valido in generale per la valutazione di qualsiasi intervento di politica economica, così come delle conseguenze che questo comporta in termini di riallocazione delle risorse.

Qui però interessa a causa delle particolari caratteristiche dei beni prodotti. Scrive in proposito l'economista americano Seymour Melman: ``Un bombardiere a reazione moderno, un caccia supersonico, un sottomarino od un missile nucleare, rappresentano eccezionali realizzazioni tecnologiche. Tuttavia essi, qualsiasi lo scopo cui possono servire, non servono minimamente a contribuire ai consumi ordinari, e quindi non incidono sul livello di vita; né possono essere utilizzati per ulteriori produzioni. Infatti, per quanto complesso possa essere un sottomarino a propulsione nucleare, nessuno può farci nulla di utile'' (1).

Secondo un altro studioso americano dell'economia militare, Hugh Mosley, sono tre gli usi più comuni del concetto di costo opportunità: un costo opportunità relativo al bilancio pubblico (in termini cioè di allocazione politica di risorse governative), uno in termini di risorse economiche reali, ed uno per così dire di "performance" (in termini di sviluppo economico al quale si deve rinunciare) (2). Il terzo tipo di uso del concetto è chiaramente il più complesso, richiedendo un'analisi della spesa militare in rapporto alle caratteristiche generali dell'economia di un paese. Lo scopo sarebbe quello di misurarne l'impatto sulla crescita, sulla competitività, sull'occupazione, sull'inflazione, e così via.

La sostanziale inutilità dei beni prodotti dall'industria bellica implica, secondo Melman, un ulteriore tipo di costo per la collettività: l'incremento della produttività marginale del capitale (in sostanza, l'aumento di efficienza nell'impiego di questo fattore produttivo) nel settore militare viene utilizzato per obiettivi che non possono condurre ad una nuova produzione.

Perciò esso viene perso per sempre. Lo stesso discorso vale per le risorse finanziarie ed umane utilizzate nella R/S militare, le quali conducono ad un "know-how" applicabile solo nel settore militare medesimo. Robert DeGrasse, un altro economista americano, nota in proposito come la ricerca e la produzione militare distolgano ingegneri e scienziati dal settore civile. Il che appare di particolare gravità quando, come ora, scarseggiano le risorse nel campo delle tecnologie avanzate (3).

Quanto alla questione delle ricadute tecnologiche nel settore civile, vale la pena di riportare l'opinione del Nobel per l'economia Wassily Leontief: ``Benché alcuni ricercatori sostengano che l'economia civile ricavi benefici secondari dall'addestramento militare e dalle infrastrutture, nei paesi meno sviluppati, e dalla ricerca e sviluppo, nei paesi industrializzati, e che tali benefici compensino gli effetti negativi dell'onere militare, si potrebbe anche affermare che un programma ben finanziato per l'esplorazione dello spazio, oppure la costruzione, o ricostruzione di una rete ferroviaria su larga scala - o la costruzione di... moderne piramidi - potrebbero servire allo stesso scopo'' (4).

Un altro aspetto sul quale insistono gli studi sulla conversione è la gestione inefficiente che caratterizza le aziende che producono per la difesa. In generale esse non seguono il criterio della minimizzazione dei costi, caratteristico di un'economia di mercato. Al contrario: massimizzano i costi e li compensano poi con l'aumento dei prezzi (o dei sussidi). I manager delle aziende belliche sanno infatti che una volta aggiudicatisi una commessa dal Ministero della difesa i prezzi potranno gonfiarsi grazie all'invisibile lievito della cosiddetta inflazione militare. Tutto ciò li porta ad assuefarsi all'inefficienza. Il che si palesa anche nell'inaffidabilità del prodotto militare. Nel settore civile si nota, sempre più diffusa, una tendenza all'aumento del periodo di garanzia del prodotto, il che segnala una crescente affidabilità del prodotto. La logica opposta sembra invece prevalere nel settore militare. Nota Melman che per ogni cento F-15 (il gioiello della tecnologia aeronautica americana) in servizio, q

uarantacinque sono nel contempo in manutenzione. A seguito di questo disinteresse per l'affidabilità del prodotto, anche la forza lavoro si abitua a produrre in modo inefficiente.

2. Le maggiori opportunità per la conversione nella situazione italiana

Le condizioni strutturali dell'industria bellica italiana - solitamente descritte ed analizzate in modo tortuoso, data l'indisponibilità di dati conoscitivi certi - sono tali da rendere praticabile un processo di conversione a fini civili.

I vincoli dell'esistente sono infatti consistenti, ma non di primaria grandezza: secondo le stime contenute nel precedente capitolo, l'industria bellica annovera l'1,6% degli occupati, il 2,1% della produzione, il 2,3% delle esportazioni dell'industria nazionale. Sono cifre che fanno riflettere; soprattutto se le colleghiamo al dibattito che si è aperto nei primi sei mesi del 1986 sulle colonne del "Bulletin of the Atomic Scientists" una durissima polemica tra gli organizzatori e i teorici delle campagne nazionali e locali per le "economic conversion" (Lloyd Dumas e Suzanne Gordon, Kevin Bean) e il direttore del "Defense Budget Project" di Washington, Gordon Adams, il quale ha puntigliosamente - sebbene tra numerosi errori e inesattezze - contestato i risultati di tutti i tentativi di conversione messi in pratica nel mondo occidentale nel secondo dopoguerra. Nel citato dibattito emerge comunque in modo nitido lo schiacciante squilibrio di forza reale a favore degli interessi coalizzati nel complesso militare

-industriale statunitense rispetto a quelli messi in campo dalle organizzazioni pacifiste, da alcune comunità locali e da ristretti settori di opinione (5).

Il complesso militare-industriale italiano, in forte crescita economica e di consapevolezza politica, resta tuttavia legato ad un'esperienza recente, caratterizzata dalla spregiudicatezza delle operazioni di export in Medio Oriente, in aree ``calde'', verso mercati sporchi. Un'esperienza la cui grande forza è rappresentata dalla massiccia, senza pari, capacità di distribuire profitti ingenti attraverso le intermediazioni. Come documentato dallo stesso governo, negli anni ``rampanti'' - relativamente ai quali disponiamo di cifre ufficiali - i soli compensi di mediazione - ovvero tangenti - autorizzati hanno assommato nel solo triennio 1981-83 a 471 miliardi di lire. Da queste cifre, la dimensione di quello che è probabilmente il principale ostacolo da sormontare per chi voglia mettere in atto un vasto programma di conversione (6).

La crescente disponibilità di stanziamenti pubblici per l'acquisto di mezzi militari e il lento trasferimento dell'area di iniziativa dal Terzo mondo alla cooperazione inter-occidentale determina ed accompagnerà fenomeni di crisi nell'industria italiana degli armamenti, ma saranno crisi relativamente ``frenate'' dalla natura in gran parte pubblica delle imprese. L'esperienza, comunque, dimostra che la capacità di programmazione non è caratteristica peculiare del settore.

Ai nostri fini, le nuove tedenze sono tali da non prefigurare un nuovo ``boom'' e da consentire, anzi, le condizioni per una politica di conversione settoriale o di più ampio respiro.

E noto infatti che la congiuntura internazionale ha messo in pesante difficoltà la nostra tradizionale politica di export, una politica che aveva garantito l'assorbimento di circa il 60% del fatturato (oggi è sceso al 50%) e il quarto posto al mondo all'Italia tra gli esportatori (oggi è il sesto posto, insidiato da presso dalla Cina Popolare).

In particolare, vi hanno contribuito la crisi economica gravissima dei paesi in via di sviluppo (verso i quali complessivamente si è orientato il 90% delle nostre esportazioni); la drastica diminuzione delle disponibilità finanziarie dei paesi dell'area Opec, grandi acquirenti di armi italiane nell'ultimo decennio; la crescente concorrenza sui mercati del Terzo mondo esercitata dai paesi di nuova industrializzazione; la minore agibilità, rispetto alla pubblica opinione italiana, di metodologie spregiudicate o illegali, determinate dall'esplodere di drammatiche contraddizioni di ordine politico e morale (si pensi alle forti esportazioni di armi verso il Sudafrica, oppure verso i teatri di guerra come quello Iran-Irak) ma anche relative alla sicurezza (si pensi alla vicenda libica, ed alla minaccia direttamente esercitata sull'Italia dallo stato nordafricano, che è il primo beneficiario delle esportazioni di armamenti italiani).

Il tramonto di una fase politica ben sintetizzabile con l'operare a Beirut del colonnello Giovannone, vero ambasciatore e mediatore permanente di molteplici relazioni ed interessi, comporta dunque precise conseguenze nell'operatività dell'export italiano di armamenti, sebbene non ne estingue le torbide vocazioni e caratteristiche. Ne varrà a sopprimerle il disegno di legge all'esame delle Camere concernente la regolamentazione del commercio di armi, il quale appare adeguato a introdurre solo gradualmente meccanismi di maggiore pubblicità e parziale responsabilizzazione degli operatori.

Quanto al rimanente 50% della produzione dell'industria italiana degli armamenti, destinato alle nostre forze armate, si rinvia all'analisi svolta nel quinto capitolo di questo volume; ne apparirà qui illegittima perché troppo semplificatrice la considerazione secondo cui spesso in Italia si è determinata una dottrina militare sulla base della disponibilità di un certo sistema d'arma; di rado si è acquistato un certo sistema d'arma sulla base delle dottrine e strategie adeguate a tutelare la sicurezza nazionale.

In definitiva, nel nostro paese, ci misuriamo con un'industria bellica che non rappresenta ancora un settore chiave, largamente controllata dalla mano pubblica, attraversata da una profonda trasformazione che comporterà necessariamente una razionalizzazione di comportamenti e strutture, rispetto alla quale è poco matura nella pubblica opinione e anche tra gli addetti ai lavori più motivati la riflessione circa le possibili alternative civili.

Da qui la grande importanza dell'adozione da parte del parlamento di uno strumento legislativo che sia in grado di consentire di orientare in una direzione nuova, consapevole, responsabile l'attività del settore industriale che attualmente produce a fini militari.

La carenza di conoscenze ed analisi sulla praticabilità della conversione economica ha molte cause, cui solo la nascita di un'attività pubblica di studio e programmazione può ovviare.

Assai importante, rispetto alle affermazioni di chi magnifica le cosiddette ``ricadute'' in campo civile degli investimenti nel settore militare, è l'osservazione di Carlo Rubbia: ``date anche a me 26 miliardi di dollari lo stanziamento iniziale per la ricerca sull'Sdi - e vi faccio vedere che bella ricaduta scientifica e tecnologica a fini civili che si può realizzare senza intervenire nel campo militare...''

E' nota, del resto, la peculiare e felicissima evoluzione dell'apparato produttivo giapponese in questo dopoguerra, favorita, se non proprio determinata, da un ammontare della ricerca e sviluppo a fini militari pari a una quota tra l'1 e il 2 per cento del totale della R/S. Osserva in proposito l'economista americano Lloyd Dumas: ``Il `mondo' militare è caratterizzato dalla vendita a un singolo acquirente (il governo), una fortissima pressione per le capacità di massima resa dei prodotti ed una attenzione ai costi relativamente piccola. Il `mondo' civile, viceversa, è caratterizzato da mercati con molti acquirenti, da un'attenzione ai beni prodotti ma non alla capacità di massima resa e da una fortissima enfasi sulla minimizzazione dei costi'' (7).

Indiscutibilmente, i recenti sviluppi della produzione di armamenti (efficacemente illustrati con l'espressione ``arsenali barocchi'' coniata da Mary Kaldor) dimostrano un'esasperazione tale della sofisticazione e quindi delle specificità della R/S e produzione militare da rendere assai modesta la ``ricaduta'' civile e tale da farci fare i conti con costi sempre più astronomici e con una velocissima obsolescenza dei sistemi d'arma più moderni (ed è imminente il momento in cui le "Emerging Technologies", soprattutto quelle spaziali, metteranno in crisi le stesse piattaforme tradizionali di combattimento: navi, carri, aerei).

Comunque, potremo rispondere ai nostri critici che di fronte ad una scelta politica che intenda riorientarle a fini civili, quelle aziende che sono state e si sono magnificate per il loro fallout civile, sapranno ben dimostrare questa loro qualità nel momento in cui la congiuntura internazionale o un'iniziativa interna finalmente razionale e non subalterna alla logica della corsa al riarmo spingessero in direzione di un processo di conversione parziale o anche generale. Ironia a parte, il mondo industriale occidentale ha conosciuto - ad esempio nella violenta fase di riconversione postbellica - momenti ben più complessi e delicati di quello che l'Italia dovrebbe affrontare per ristrutturare un settore che occupa appena 80.000 addetti.

Un ottimo terreno di sperimentazione ed iniziativa può essere rappresentato - a nostro avviso - dalla politica di cooperazione allo sviluppo e di lotta alla fame, malnutrizione e malattie nel Terzo e Quarto mondo. E' infatti possibile programmare in questo campo - disponendo di investimenti pubblici certi che ammontano ad una quota annua equivalente a quella riservata all'acquisto di beni e servizi per le forze armate - e che sono destinati a crescere - una razionalizzazione degli interventi italiani attraverso la messa in produzione di impianti a piccola e media scala per le fonti rinnovabili di energia, di tecnologie agricole e per l'irrigazione, strutture per lo stoccaggio, costruzioni, mezzi meccanici, unità sanitarie, apparecchiature per le comunicazioni, mezzi di soccorso per le calamità. Vasti settori produttivi potranno essere coinvolti, d'intesa con le stesse strutture direzionali ed operative delle forze armate in un quadro di azione e presenza politica di grande e diretta rilevanza per la sicurezz

a e la politica estera del paese.

3. Introduzione alla proposta di legge radicale per la conversione

L'iniziativa legislativa e la conseguente attività di governo concernente la conversione industriale delle aziende che producono beni e servizi per usi militari non possono e non debbono riguardare, ad avviso dei firmatari di questa proposta di legge, l'indirizzo e la programmazione generale o parziale della trasformazione produttiva a fini civili dell'industria bellica.

Tali questioni vanno affrontate e risolte nelle sedi in cui si definisce la politica di sicurezza e si decide la allocazione delle risorse del paese. Scopo di questa proposta di legge è di definire le procedure e le sedi in cui, una volta adottate le necessarie decisioni politiche, sia possibile la realizzazione di un programma di conversione industriale (ovvero: di favorire le condizioni perché un simile programma possa aver luogo). Intraprendere infatti al buio, senza una rigorosa programmazione, un processo di conversione, limitata o totale, delle aziende che operano nel settore militare avrebbe conseguenze destabilizzanti dal punto di vista politico, economico, produttivo ed occupazionale: sarebbe impresa impossibile.

All'art. 1 della presente proposta è prevista l'istituzione della commissione per la conversione industriale, presso la Presidenza del consiglio dei ministri, al fine di costituire il punto centrale di riferimento dell'attività di conversione, sia per l'organizzazione dei dati conoscitivi circa la struttura produttiva per fini militari, sia per l'elaborazione di piani di conversione. L'art. 2 stabilisce che la Commissione predispone un programma degli orientamenti per la conversione industriale, come guida pratica - a partire da un'analisi macroeconomica della realtà produttiva e del mercato - per organizzare il riaddestramento degli addetti all'industria bellica, ai diversi livelli la trasformazione degli impianti; la soluzione dei nodi normativi e contrattuali.

Particolare importanza avrà il censimento di tutte le aziende, con le loro caratteristiche. E noto, infatti, che l'"handicap" pressoché insormontabile non solo per una possibile conversione, ma già per la mera analisi della realtà dell'industria bellica è rappresentato oggi dalla indisponibilità di dati conoscitivi.

L'art. 3 individua i settori verso i quali dovrà indirizzarsi l'attività di conversione, e definisce l'ambito di collaborazione tra la commissione e i comitati locali per gli impieghi alternativi. Questi ultimi - disciplinati dall'art. 4 - sono responsabili tra l'altro dell'elaborazione di piani per la conversione parziale o totale delle imprese operanti nella provincia di competenza; piani dettagliati ``circa l'uso alternativo e la ristrutturazione degli impianti e delle tecnologie esistenti nonché il riorientamento e la formazione del personale in funzione dei reimpieghi proposti'', essendo evidente che ogni situazione - con le sue peculiarità esige iniziative specifiche. I comitati rappresentano anche l'osservatorio locale per la raccolta, da aggiornarsi semestralmente, dei dati relativi al controllo proprietario, al fatturato, al personale, alla produzione, all'attività di R/S.

L'art. 5 istituisce il fondo di solidarietà in favore dei dipendenti delle imprese interessate da un processo di conversione, i quali possono godere di una gamma di interventi pubblici di tutela cui sono associati anche i dipendenti che ``per imprescindibili motivi di coscienza'' non intendano proseguire nella loro attività di collaborazione con imprese operanti nel settore militare.

Il fondo per il riassetto economico, in grado di disporre mutui agevolati e contributi alle imprese che abbiano predisposto un piano di conversione parziale o totale è istituito all'art. 6; mantenimento dei livelli occupazionali ed effettiva attuazione progressiva del piano costituiscono i requisiti per determinare l'erogazione.

La copertura finanziaria del provvedimento è assicurata, all'art. 7, attraverso l'aumento delle tasse sulle produzioni d'armi e tramite il versamento da parte delle aziende del comparto militare dell'1% del proprio fatturato annuo. Tali proventi vengono ripartiti proporzionalmente tra i vari soggetti istituiti nella proposta di legge.

4. Il testo della proposta di legge radicale per la conversione dell'industria bellica

Onorevoli colleghi! I proponenti giudicano che solo un'attenta e profonda conoscenza della situazione attuale e delle possibili alternative consenta di adottare una nuova politica per le aziende che operano oggi nel settore militare. A questo fine si augurano che la presente Proposta di legge possa avviare un confronto nel paese e tra le forze politiche, economiche e sociali e trovare una concreta rispondenza in sede parlamentare.

I sottoscritti firmatari, infatti, hanno ritenuto di compiere un'eccezione rispetto al comportamento adottato dal Gruppo Parlamentare Radicale nella presente Legislatura, che prevede la non presentazione di iniziative legislative, tranne nei casi in cui il rispetto del Regolamento sia preventivamente e politicamente assicurato, per quanto riguarda i tempi dell'esame e i voti delle proposte. Ciò a seguito dell'annuncio preventivo dell'appoggio alla presente proposta manifestato dalle Acli, dal Movimento Nonviolento, da Mani Tese, da numerosi Comitati e coordinamenti di obiettori di coscienza, da Missione Oggi, Pace e Sviluppo, da consiglieri ed esponenti ``verdi'', dal Movimento Cristiani per la Pace.

Impegno dei proponenti sarà quello di far immediatamente sottoscrivere la proposta di legge da rappresentanti degli altri Gruppi Parlamentari.

Art. 1.

Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è istituita la Commissione per la conversione industriale, con lo scopo di realizzare un osservatorio permanente sulla struttura produttiva militare nazionale e di predisporre piani per la conversione industriale a fini civili di aziende che producono beni e servizi per usi militari.

La Commissione è composta da un rappresentante ciascuno per i Ministeri della Difesa, dell'Industria Commercio e Artigianato, del Lavoro, della Ricerca Scientifica e Tecnologica, del Tesoro, delle Partecipazioni Statali, da tre rappresentanti delle organizzazioni sindacali, da tre rappresentanti delle organizzazioni imprenditoriali, da tre esperti nominati dalla Presidenza del Consiglio e da tre esperti designati d'intesa tra il Presidente del Senato della Repubblica e il Presidente della Camera dei Deputati.

La Commissione elegge nel proprio seno il Presidente.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, con apposito Decreto, nomina il Segretario della Commissione e stabilisce l'organizzazione e la retribuzione del personale comunque in numero non inferiore a 7 unità - e l'assunzione anche temporanea di consulenti - comunque in numero non superiore a 7 unità - nonché le indennità da corrispondere ai componenti la Commissione.

La Commissione per la Conversione industriale predispone il Programma degli orientamenti per la conversione industriale.

Il Programma dovrà essere redatto entro 18 mesi dall'entrata in vigore della presente legge ed essere aggiornato annualmente.

Il Programma è basato su un'analisi macroeconomica della realtà produttiva e del mercato nazionale ed internazionale. Esso illustra le linee guida delle metodologie pratiche per la conversione industriale dal settore militare a quello civile, con particolare riferimento al riaddestramento e alla riorganizzazione del personale (manageriale, tecnico, amministrativo e di produzione), alla trasformazione degli impianti, alle questioni normative e contrattuali, alle implicazioni verso altri settori produttivi collegati nonché verso le comunità e aree interessate.

Al Programma dovrà essere allegato, aggiornato annualmente, un censimento analitico delle aziende che producono beni e servizi destinati ad uso militare, con l'indicazione del controllo proprietario, del fatturato e dei principali indicatori economici, del numero dei dipendenti e della loro qualificazione professionale, dei materiali in linea di produzione, di quelli prodotti in passato nonché delle attività di Ricerca e Sviluppo attualmente in corso.

Il Programma viene trasmesso ai Comitati locali per gli impieghi alternativi di cui all'art. 4 della presente legge, nonché alle competenti Commissioni della Camera e del Senato.

Art. 3.

La Commissione per la Conversione industriale elabora programmi per la conversione produttiva dal settore militare a quello civile, con un particolare indirizzo per le tecnologie mature nel campo elettronico, informatico, spaziale, aeronautico, energetico, agricolo, delle comunicazioni, delle costruzioni, della sanità, dei trasporti, della prevenzione e protezione civile, della tutela dell'ambiente e con un particolare riferimento alle esigenze e gli obiettivi della lotta alla fame e alla malnutrizione e della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo.

La Commissione collabora con i Comitati locali per gli impieghi alternativi di cui all'art. 4 della presente legge, al fine di elaborare concrete soluzioni sul piano produttivo ed occupazionale per la conversione parziale o totale di aziende e settori produttivi impegnati a fini militari.

La Commissione studia ed elabora progetti di reimpiego per il personale civile e militare nel quadro di programmi ed ipotesi di ristrutturazione dell'Amministrazione della Difesa.

Art. 4.

I Comitati per gli impieghi alternativi sono costituiti su base provinciale, nelle province in cui sono presenti aziende produttrici di beni e servizi per fini militari le quali impieghino complessivamente almeno cento persone.

Sulla base di analisi aggiornate della situazione produttiva, economica ed occupazionale, i Comitati elaborano i Piani per la conversione parziale o totale delle imprese operanti nella provincia di competenza ai fini civili, secondo gli indirizzi identificati nell'art. 3 della presente legge.

I Piani dovranno contenere progetti dettagliati circa l'uso alternativo e la ristrutturazione degli impianti e delle tecnologie esistenti nonché il riorientamento e la formazione del personale in funzione dei reimpieghi proposti.

I Comitati sono costituiti da 7 membri nominati con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: tre esperti designati dai Presidenti dei Consigli Provinciali d'intesa con i Sindaci dei Comuni sui cui territori insistono le imprese, due rappresentanti sindacali e due rappresentanti delle imprese designati dalle competenti organizzazioni territoriali.

I Comitati provvedono ad un'aggiornamento semestrale dell'analisi della struttura produttiva locale, con particolare riferimento al controllo proprietario, al fatturato, al personale con la relativa specifica professionale, ai materiali in linea di produzione, alle attività di Ricerca e Sviluppo.

Tale analitica documentazione viene trasmessa alla Commissione per la Conversione Industriale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

I Comitati possono avvalersi di consulenti in numero non superiore alle tre unità e dispongono di personale in numero non superiore alle tre unità, ai sensi del terzultimo e penultimo comma dell'art. 3 bis della Legge 1 giugno 1977, n. 285, e successive modificazioni ed integrazioni.

Art. 5.

E istituito presso il Ministero dell'Industria del Commercio e dell'Artigianato il Fondo di solidarietà in favore dei dipendenti di imprese operanti nel settore militare interessate da un processo di conversione industriale. Il Fondo ha amministrazione autonoma e gestione fuori bilancio ai sensi dell'art. 9, Legge 25 novembre 1971, n. 1041 ed è organizzato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, d'intesa con i Ministri dell'Industria, Commercio e Artigianato e del Lavoro.

Alle prestazioni erogate dal Fondo sono ammessi gli operai, gli impiegati, i tecnici, dipendenti da imprese operanti nel settore militare ivi impiegati almeno 6 mesi prima dell'entrata in vigore della presente legge i quali, per imprescindibili motivi di coscienza, dichiarino presso il competente Ufficio Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione di non voler proseguire nella loro collaborazione con le attività di dette imprese.

I soggetti di cui al comma precedente hanno diritto alla corresponsione del trattamento di integrazione salariale di cui alla Legge 12 agosto 1977, n. 675, per un periodo di non oltre 18 mesi.

La corresponsione dell'indennità cessa all'atto dell'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro.

Durante il periodo di godimento del trattamento di integrazione salariale, i lavoratori di cui al presente articolo sono ammessi, con priorità su qualunque altro lavoratore, ai corsi di formazione e di riqualificazione professionale organizzati ai sensi della Legge 21 dicembre 1978, n. 845. In caso di ingiustificato rifiuto del lavoratore è sospesa l'erogazione del trattamento di integrazione salariale.

Durante il medesimo periodo, sono ammesse ai benefici di cui al titolo II della Legge 27 febbraio 1985, n. 49, cooperative di produzione e lavoro, costituite esclusivamente da lavoratori di cui al presente articolo.

Sempre durante il suddetto periodo, ai lavoratori di cui al presente articolo che intendano svolgere attività di lavoro autonomo possono essere concessi, con decreto del Ministro dell'Industria, Commercio ed Artigianato, previo parere del Fondo di cui al comma I del presente articolo, mutui agevolati e contributi sugli interessi per finanziamenti deliberati dagli Istituti di credito a medio termine.

All'atto dell'erogazione dei benefici di cui ai due commi precedenti, cessa l'erogazione del trattamento di integrazione salariale.

Trascorso il periodo di cui al comma 3, i lavoratori che risultassero ancora privi di occupazione hanno diritto alla corresponsione della metà del trattamento di cui al suddetto comma per un periodo non superiore a dodici mesi, e sono iscritti nelle liste ordinarie di collocamento con priorità su tutti gli altri lavoratori in cerca di occupazione. I soggetti assunti dalle imprese operanti nel settore militare i quali rifiutino l'assunzione per imprescindibili motivi di coscienza ottengono automaticamente il ripristino della posizione precedentemente occupata nelle graduatorie.

Art. 6.

E istituito presso il Ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato il Fondo per il riassetto economico, con il fine di incentivare la conversione produttiva di imprese operanti nel settore militare.

Il Fondo è organizzato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, d'intesa con i Ministri dell'Industria Commercio e Artigianato, della Difesa e della Ricerca Scientifica e Tecnologica. Con le disponibilità del Fondo, nel quadro degli indirizzi di cui all'art. 3, la Commissione per la Conversione Industriale, d'intesa con i Comitati per gli impieghi alternativi, può disporre mutui agevolati, contributi sugli interessi per finanziamenti deliberati dagli istituti di credito a medio termine, contributi diretti alle imprese che abbiano predisposto un Piano per la conversione parziale o totale delle proprie attività ai fini civili.

L'ammontare dell'erogazione è graduato in funzione del mantenimento dei livelli occupazionali previsti dal piano. L'effettiva erogazione è rapportata alla progressiva attuazione del piano medesimo.

All'onere della presente Legge, valutato per ciascuno degli anni 1986, 1987 e 1988 in lire 800 miliardi, si provvede:

a) tramite l'aumento del 100 per cento e del 200 per cento delle tasse sulle concessioni governative di cui rispettivamente ai numeri 25-I), 26, 31 e 34 e ai numeri 30 a) e b), 32, 33 e 35 della tariffa annessa al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641, e successive integrazioni e modificazioni;

b) tramite il versamento all'Erario, da parte delle aziende produttrici di materiale bellico, dell'1% del proprio fatturato annuo.

Tale versamento è regolato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri da emanarsi non oltre 30 giorni dopo l'entrata in vigore della presente legge.

Le somme di cui ai punti a) e b) sono così ripartite:

a) per il 10% alla Commissione per la Conversione industriale presso la Presidenza del Consiglio;

b) per il 20% ai Comitati per gli impieghi alternativi, attraverso una suddivisione proporzionale stabilita dalla Commissione per la Conversione industriale;

c) per il 35% al Fondo di solidarietà di cui all'art. 5 della presente Legge,

d) per il rimanente 35% al Fondo per il riassetto economico di cui all'art. 6 della presente Legge.

NOTE

1. MELMAN S., ``Conversione economica: perché?''; "Irdisp Papers" n. 1, Roma, 1985, p. 6.

2. Cfr. MOSLEY H. G., "The Arms Race: Economic and Social Consequences", Lexington Books, Lexington (MA), 1985, p. 32 e sgg.

3. Cfr. DEGRASSE R. W. Jr., ``The Military Economy'', in GORDON S., MCFADDEN D. (a cura di), "Economic Conversion, Revitalizing American Economy", Ballinger, Cambridge (MA), 1984, p. 12.

4. LEONTIEF W., DUCHIN F., "La spesa militare - dati, cifre e conseguenze per l'economia mondiale", Mondadori, Milano, 1984, p. 19.

5. ADAMS G., ``Economic conversion misses the point'', "Bulletin of the Atomic Scientist", feb. 1986, pp. 24-28; DUMAS L. J., GORDON S., BEAN K., ``Economic conversion: an exchange'', "Bulletin of the Atomic Scientist", giu.-lug. 1986, pp. 45-50; ADAMS G., ``A rejoinder'', "ibidem", pp. 50-51.

6. ATTI PARLAMENTARI, Camera dei deputati, Resoconto stenografico della seduta pomeridiana del 13 nov. 1985.

7. DUMAS L. J., in GORDON S., MCFADDEN D., "op. cit."

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