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Bandinelli Angiolo - 29 aprile 1988
Convegno nonviolenza: Relazione introduttiva
Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Anche se oggi si manifestano segnali di un'attenzione nuova nei confronti della teoria politica del pr, tanto che anche il PCI rivendica le ragioni della nonviolenza, rimane il rischio della sconfitta dell'ipotesi nonviolenta. Dopo un excursus sul passato della nonviolenza radicale, l'autore ne individua la particolarità nel suo porre il rapporto tra coscienza e Stato come rapporto di confronto continuo. Ma il pr è oggi in grado di confrontarsi? E qual è oggi il suo interlocutore? O il partito radicale reinventa questa prassi e i suoi valori, individuando nelle istituzioni europee il nuovo interlocutore istituzionale, oppure ci sarà un regresso del partito ad altro, e sarà sconfitto.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)

La mia sarà una relazione molto pessimistica, e sarei incosciente se non lo fosse; pessimistica sulla possibilità che il partito radicale possa essere, oggi ancora, il partito della nonviolenza - non della testimonianza nonviolenta - come è stato per molti lustri, il partito della nonviolenza e dei diritti civili.

E, però, mentre noi stiamo qui cercando di capire il senso e l'attualità della nonviolenza radicale, dall'esterno ci vengono segnali almeno curiosi; e probabilmente più che curiosi, vorrei dire interessanti. Proprio in queste ore, all'Università di Roma, il prof. Norberto Bobbio tiene un convegno dedicato al ricordo e alla rievocazione di Salvemini, dei fratelli Rosselli e di Ernesto Rossi. Mi auguro che Radio Radicale abbia registrato il convegno: avremo così la - diciamo - documentazione provata che non solo Bobbio, ma altri che immaginiamo siano studiosi, politologi e politici di vaglia, hanno affermato e affermano finalmente, a chiare lettere, che l'unica strada moderna per fare e concepire politica, per fare politica moderna, è quella tracciata nientedimeno che da Ernesto Rossi, dai fratelli Rosselli e da Salvemini con la loro intransigente opposizione al fascismo, ai suoi valori, alla sua logica.

Ecco insomma intorno a noi una interessante ripresa di attenzione per quelle che sono le fonti tradizionali e ben note della cultura politica radicale, se non nel suo aspetto nonviolento tipico certamente però con tutta la carica di nonviolenza che viene dal fatto che queste presenze, queste individualità, rappresentarono un modo di far politica profondamente alternativo rispetto alla politica del loro tempo; esattamente come il partito radicale ha inteso fare per venti anni: essere alternativo nella politica del suo tempo, che è ancora la politica del nostro tempo, di oggi.

In queste stesse ore, dunque, Norberto Bobbio afferma e ripete che la strada della rivoluzione politica del nostro tempo è quella indicata da Salvemini, dai fratelli Rosselli, da Ernesto Rossi, nella loro ricerca di un liberalismo moderno. Noi dobbiamo ringraziare Norberto Bobbio, e quanti hanno partecipato al convegno, perché la loro è una clamorosa testimonianza della validità di impegni che hanno visto per anni il partito radicale difendere, solitario, il primato del fare politica di Salvemini, dei fratelli Rosselli e di Ernesto Rossi quando tutto il pensiero, la teoria, la cultura politica tutta si riversava lungo linee e filoni marxisti e marxiani, mentre di questi uomini politici, di questi autori e della loro cultura politica ben poco si sapeva e si approfondiva al di là dell'agiografia corrente e scontata. Credo si possa dire che nella cultura storiografica degli ultimi 40 anni - anche da parte dei migliori, e cito un Garin eloquentemente - nello scavare le fonti della storia del nostro Paese hanno i

ndagato su tutti; ma non c'è un saggio serio su Ernesto Rossi.

Abbiamo comunque un ritorno a Damasco di pensatori, storici, politici, sui temi che sono tradizionali del partito radicale. E un altro segnale ci viene dal numero di "Rinascita" che è in edicola e sul quale troviamo un intervento di Nicola Badaloni che è una rivendicazione delle ragioni della nonviolenza: inaspettato, sulla rivista del PCI, Badaloni da un articolato elogio della nonviolenza quale possibile prassi di una politica di sinistra. Poi, però, riferisce ad essa due elementi che non sono propri del modo con il quale il partito radicale intende e pratica la nonviolenza. Il primo: la nonviolenza - afferma Badaloni - è strumento di lotta da ricondurre piuttosto a situazioni che sono lontane da noi, e certo più difficili; la nonviolenza è utile e necessaria per combattere le forme più esplicite di razzismo, di colonialismo presenti nel mondo.

Ancora una volta, come si vede, la nonviolenza è qualcosa che riguarda in buona parte, diciamo, il mondo coloniale. Ritorna qui la ben nota immagine di Gandhi come l'uomo che viene dall'Oriente, e della nonviolenza come una prassi politica destinata a restare nell'Oriente.

L'altra cosa non radicale tipica che Badaloni mette in luce è anch'essa assai interessante: il tema della nonviolenza viene collegato a un dibattito che è attualmente in corso sui quotidiani italiani. Sulla "Stampa" del 23 scorso, ad esempio, c'era un articolo, ancora una volta di Bobbio, sui rapporti tra Etica laica ed Etica religiosa, tra la morale laica e la morale religiosa. Anche Badaloni collega la nonviolenza con i valori propri della morale laico.razionale. E finisce anzi col delineare le linee, i valori, di una morale moderna e voltariana (diciamo, della tolleranza laica) che trionfa nella forma di morale della nonviolenza e prende il posto - o almeno si auspica lo faccia - della morale religiosa del passato. Insomma, per Badaloni, vi è prossimità o addirittura identità tra morale (etica) laica, moderna, e morale della tolleranza nonviolenta: egli lega insieme questi due aspetti; ora, io credo che il collegamento sia eccessivo, e lontano dalla posizione tradizionale del partito radicale.

Ma, come che sia, questi sono segnali di un'attenzione nuova; distorti o calibrati che siano, sono comunque convergenti verso l'area che a noi interessa. Sono segnali di ripresa di attenzione nei confronti della lunga tradizione politico culturale del partito radicale.

Questo dovrebbe confortarci, e farci sperare che sia possibile parlare oggi di nonviolenza in maniera vincente. Invece io, come ho detto, ritengo che il problema grosso del partito radicale sia il rischio imminente della sconfitta dell'ipotesi nonviolenta, della sconfitta incombente nel partito radicale stesso in quanto partito della nonviolenza. Ecco perché ho preavvertito che la mia sarebbe stata una introduzione pessimistica nonostante queste letture, così cattivanti.

Vediamo, comunque, cosa è stato il passato della nonviolenza radicale. E' un excursus necessario, anche se vorrei tenerlo in confini ristretti e sommari, ad evitare che il nostro Convegno divenga una commemorazione storica o, peggio, una rievocazione agiografica, la storia santa del partito radicale della nonviolenza. Cerchiamo solamente di tratteggiare che cosa la nonviolenza fu ed intese essere: per lo meno secondo la mia personale interpretazione, che probabilmente non è l'interpretazione del partito nel suo insieme.

Dico subito che non ho mai creduto nella ben nota interpretazione (che qualcuno, nel partito, ha introdotto), e cioè che vi siano stati due partiti radicali, o due modi di essere, di intendere il partito radicale; l'uno di culto, di cultura liberal-democratica, l'altro di origine e professione nonviolenta. QUesti due modi di essere avrebbero costituito, in una forse felice convivenza, le due anime del partito, non perfettamente coincidenti, comunque di egual peso e valore. Non ho mai creduto a questa dicotomia o separazione perché non ho mai creduto che vi sia stato, o vi potesse essere, un partito liberal-democratico che non fosse insieme, e coestensivamente, il partito radicale nonviolento nella sua assoluta specificità. Io ho appartenuto all'ala militante del partito, quella delle marce e dei digiuni, della prassi, insomma, nonviolenta. Non mi sono mai iscritto alla cosiddetta "ala teorica", con la quale pur volteggiavano prestigiosi intellettuali, professori universitari in atto o in potenza, saggi, colt

i e moderati. Io sono oggi più convinto di ieri, perché le prove mi hanno dato ragione, che quell'ala teorica, che si proclamava come l'ala liberaldemocratica del partito, in realtà non ha mai prodotto nulla, almeno per il partito stesso. Ruspando nell'aia, e senza mai un vero colpo d'ala, questa è stata semplicemente una delle forme di espressione, dei modi di presentarsi del partito. Ma attenzione: se non ha prodotto nulla di teoricamente forte, non è perché fosse cattiva in sé, fatta di cattivi, poco motivata o stupida, poco intelligente: ma per una ragione che io ritengo abbia una sua profondità sul piano storico e teorico, della teoria politica. Lo vedremo subito; intanto, ribadisco con estrema consapevolezza che in questi decenni c'è stato solo, presente sulle piazze e nelle aule del nostro Paese, il partito radicale nonviolento. Questo è stato il partito radicale.

Perché? Per un motivo molto semplice. Io penso che il nostro tempo, il tempo politico e storico che viviamo sia caratterizzato dal predominio della politica sulle altre attività che si dispiegano nella società, sugli altri modi di essere, sull'insieme della fenomenologia delle strutture sociali. Tutti gli stati sono politica pura, o tendono alla politica pura. Nel vecchio Stato ottocentesco, "liberale", la politica si limitava ad una cerchia ristretta di settori di intervento; vi erano molte altre forme di attività e di valori, che non entravano nella sfera costitutiva dello Stato, ne restavano separate e spesso gli erano estranee. Lo Stato era una delle strutture, dei poteri che operavano ed erano presenti nella o sopra la sfera del sociale per organizzarla. Nel 700 gli economisti inglesi scoprirono la "Società civile", che era una cosa, mentre lo Stato era un'altra cosa. Società civile e Stato marciavano separatamente: lo Stato non aveva niente a che vedere con la società civile e questa si sviluppava per

conto suo; per esempio, era sotto la sua competenza la sfera dell'economia; l'economia apparteneva alla società civile, lo Stato non ci aveva nulla a che fare.

Dopo la prima guerra mondiale tutto questo è cambiato e oggi, come noto, lo Stato pervade la società civile; non soltanto in Italia o nell'Unione Sovietica, ma anche nei Paesi di democrazia formale. Ovunque lo Stato è parte della società civile , o meglio la penetra e pervade quasi completamente, o pretendendo alla completezza. Quando noi pensiamo agli Stati Uniti usiamo riferirci al Paese classico del liberismo (e quindi del liberalismo). Pensare questo è assolutamente inadeguato a rappresentarci la realtà; l'economia americana dal 1929 in poi è economia, se non controllata, certo stimolata e sorretta dallo Stato: è sostanzialmente una "economia di guerra". Il cosiddetto Welfare State, lo stato sociale americano, ha cominciato a funzionare e a distribuire benessere quando l'economia americana ha cominciato a produrre cannoni e missili e a far camminare a gran regime produttivo il cosiddetto "complesso militare-industriale". Fino a quel momento, nonostante Roosvelt avesse fatto molti progetti e programmi, il

"new deal", la società americana, non funzionava; ha cominciato a farlo, a dare cioè il benessere per cui è famosa, quando è entrato in regime il meccanismo della produzione militare; in definitiva quando è intervenuta la volontà dello Stato sopra l'economia, e l'ha messa in movimento con le sue commesse, mirate e indirizzate verso fini non semplicemente o primamente economici. Questo è un dato acquisito. In generale insomma, e a maggior ragione ancora parlando di altri Stati, non solo dell'area libera democratica anglosassone e americana, lo Stato è tutto. Non c'è nulla la di fuori dello Stato, tutto è dentro lo Stato. Anche le religioni positive, le grandi Chiese, in realtà possono avere una funzione di freno, o di monito, ma poco più di fronte allo Stato. Non si può parlare facilmente di aborto in uno Stato cattolico, perché la Chiesa, appunto, impedisce la liberalizzazione: ma rispetto all'etica complessiva, dello Stato e nello Stato, o di fronte ai temi dell'economia (consumismo o no? austerità o sperp

ero?) ammesso che questi appartengano alla sfera dell'etica, la Chiesa resta estranea e ininfluente. Le Chiese non erigono alternative di fronte allo Stato. Lo Stato, ripeto, è tutto; almeno, tendenzialmente.

In questa condizione di "Stato-tutto", la classica categoria liberale secondo la quale lo Stato è neutrale, non vale, non sussiste più. La teoria della condizione ottimale che si realizza quando lo Stato è "liberale", cioè è neutrale, valeva quando lo Stato era una sezione della società complessiva; ma nel momento in cui la società si identifica nello Stato e lo Stato si incarna nel cuore della società l'idea dello Stato neutrale, della legge neutrale, non ha senso. In questa trasformazione del rapporto Stato-società è la ragione storica della sconfitta dei partiti liberali ( dei "moderati" liberali, non delle destre liberali, per le quali anche lo Stato è tutto). I partiti liberali sono in crisi non perché siano stupidi o perché non proclamino una economia di mercato (normalmente, oggi i liberali sono i fautori del libero mercato, e basta) ma perché hanno una concezione dello Stato non più valida, e quindi non possono interpretare alcun elemento di novità, di ammodernamento e di liberalismo rispetto alla cu

ltura dello Stato.

Ecco perché non ho mai creduto alla possibilità di un'ala liberaldemocratica nel partito radicale che potesse dare una indicazione positiva, una qualche idea politica valida; né nel partito né fuori del partito questo tipo di cultura - il liberalismo tradizionale - può rappresentare un fattore innovativo, creativo, aggregante su valori di libertà. Per questo ho sempre sostenuto, invece, che solo l'ipotesi radicale nonviolenta potesse consentire un approccio liberale, autenticamente liberale, alla ricognizione dello Stato, alla sua costruzione, al suo rinnovamento. E in che senso questo poteva accadere? Ma proprio nel senso avviato dalle battaglie nonviolente del partito. Quando faceva le grandi battaglie del divorzio e dell'obiezione di coscienza - l'obiezione di coscienza, la più indicativa e importante sul piano teorico, della teoria liberale - che cosa diceva il partito radicale? Di fronte all Stato totalizzante di oggi (non "totalitario"; lo Stato totalitario è una forma dello Stato totalizzante) il qual

e impone alla società i valori, l'etica nella sua globalità - per cui si serve lo Stato solo facendo ad esempio il servizio militare, per cui la coscienza e ogni altra attività è tutta in funzione dei valori dello Stato - i lpartito radicale opponeva l'obiezione di coscienza: io obietto, cioè libero la mia coscienza, preliminariamente, dalla presa dello Stato totalizzante, e la oppongo come soggetto dialettico per creare se mi riesce, nel dialogo, nuovo diritto, nuovo diritto dello stato, più vicino ai dettati della mia coscienza. QUesto era il senso teorico, forte, della nonviolenza radicale che superava il modello protestante e quacquero della nonviolenza tradizionale, quella che dice: "io non voglio portare le armi, fatemi pulire gabinetti e io eseguirò, purché non debba portare le armi". Ovviamente, nella multiforme lotta radicale ci fu anche questo; ma c'era anche molto di più. Tant'è vero che, appena conquistata la legge sull'obiezione di coscienza, il partito ha abbandonato questo impegno perché non i

nteressava più, nel suo aspetto particolare. Interessava invece al partito individuare nuovi fronti per l'obiezione di coscienza allo Stato moderno; per la creazione del liberalismo moderno, delle libertà moderne, delle libertà contemporanee.

Per i radicali, importante non era tanto se si dovesse servire la patria in divisa; la questione era di capire come sia possibile - se sia possibile - organizzare una attività politica che si ponga come alternativa alla struttura totalizzante dello Stato, e far sì che questa iniziativa politica alternativa si organizzi e agisca nelle forme della politica occidentale, come elemento di moderna presenza e attività liberale, capace di produrre più libertà di coscienza, non del singolo nella sua intimità ma delle grandi maggioranze; diciamo, libertà di coscienza come momento di confronto con ogni pretesa totalizzante, quella pretesa che anche negli Stati di democrazia formale è un'insidia nascosta ma presente.

Per questo i radicali hanno sostenuto che la nonviolenza è "aggiunta" necessaria alla democrazia formale; la democrazia formale non basta, se non sopraggiunge questo elemento teorico nuovo, che pone il problema del rapporto tra coscienza e Stato, come rapporto di confronto continuo avente come obiettivo quello di creare nuove leggi. Perché la nonviolenza radicale creativa di leggi, e in questo consiste il suo essere occidentale: nel non rifugiarsi nella coscienza mistica del singolo. Laicamente, i radicali non hanno mai pensato che la coscienza sia l'intimità del singolo che se la coccola nella sua privatezza (il privato è l'idiota, per i greci....), nel suo starsene isolato e lontano dalle cose del mondo. La coscienza è il momento del confronto storico, storicamente determinato, per cui portatori di valori diversi si confrontano e ciascuno cerca di proporre quello che ritiene più autenticamente prossimo alle libertà del proprio tempo.

Questo, mi pare, è stato il senso delle battaglie radicali nonviolente. Quindi, tutto il partito radicale era nonviolento; era questo il suo modo di essere, né si poteva concepire altro modo di essere che quello di formare coscienze sotto forma politica, portarle in piazza, esibirle... e su questo avviare il braccio di ferro e il dialogo, attraverso la stampa, l'informazione e la deformazione (anche questa utile, perché anche la deformazione diventava strumento di confronto); e grazie a questo dialogo, a questo interessamento della opinione pubblica, alla battaglia, nascevano le vittorie radicali, avanzava la vittoria della coscienza liberale, in un grande confronto laico dell'opinione pubblica, attraverso l'opinione pubblica. Il liberalismo radicale era questo: nasceva e viveva nel momento dello scontro, nemmeno nella legge conquistata. I contenuti di questa erano di volta in volta importanti - importantissimi - ma non esclusivi né determinanti. Di fatto, guardando il passato, ci si accorge che appena una b

attaglia risultava vincente il partito l'abbandonava, abbandonava il contenuto della battaglia stessa: le donne, la libertà di aborto, l'obiezione di coscienza, il divorzio. Perché? Perché quei contenuti diventavano, nel momento in cui era esaurita l'occasione di confronto, di scontro ideale, dialogico, nella società, contenuti persino a volte corporativi, negativi: bisognava subito andare oltre, se si voleva affermare ancora la nonviolenza quale dato antagonista ai valori totalizzanti.

E' su questo che sarebbe oggi interessante sapere - come accennavo all'inizio - se il partito è oggi in grado di dialogare e confrontarsi: anche con se stesso. Il rischio è invece che quel valore e significato storico del partito radicale non sia più presente, o non con la stessa intensità, nel fondo del partito. Sono in circolazione infiniti "contenuti" e "temi" nonviolenti; quel che mi pare manchi è la consapevolezza del fatto che il partito radicale o è - al di là dei singoli contenuti - il partito dell'alternativa liberale, o non lo è.

Allora, la questione da mettere a fuoco e risolvere oggi è: qual è oggi la controparte del partito radicale? Dove è l'istituzione forte con cui il partito si confronta per proporre i nuovi valori storici di nonviolenza liberatrice e liberale? Questo è il punto sul quale io sento, essendone profondamente preoccupato, il partito radicale profondamente carente. E io sento, su questo, l'urgenza di un dibattito, di un confronto attraverso la ripresa dell'azione; perché o il partito ritorna a quella sua centralità nonviolenta e liberale insieme rifondandola nella sua centralità, oppure c'è il rischio che andiamo verso la liquidazione dell'intero nostro patrimonio. Il problema dei tremila iscritti e dei non so quanti miliardi da raccogliere quest'anno è qui, non altrove. E' questa la vera, nostra, sfida politica.

Ma questa ipotesi c'è, come ipotesi politicamente verificabile, oppure non c'è?

Vediamo quali possono essere i probabili interlocutori del confronto "liberatorio", avente ancora al suo centro la nonviolenza. Sappiamo che, in questo momento, è aperto nel partito un dibattito sul tema del transnazionale. Non è un caso. E tra noi c'è chi sostiene che le condizioni della democrazia in questo Paese non sono esercitabili nella loro profondità e che occorre quindi dare al partito una nuova impronta, incardinandolo sul progetto transnazionale come unico progetto che consenta la ripresa di una politica di tipo democratico-liberale; mentre altri, invece, ribattono: "No, non è vero, vi sono ancora nel Paese spazi di libertà, o per la libertà, agibili. La svolta transnazionale non è necessaria né utile". Come, di primo acchito, dare torto a questi compagni? Questo è un Paese democratico: come negarlo, onestamente?

Ma, se mi è consentito, il problema del partito radicale è diverso rispetto all'accettazione di una "democrazia" formale; la domanda cui il partito radicale ha inteso prioritariamente rispondere è altro.

La domanda è: come è possibile, attraverso quali vie è possibile, essere e fare i liberali del nostro tempo? Dove sono, o quali sono i valori liberali da affermare e per cui lottare? Anche qui le risposte sono duplici. V'è chi sostiene che questo è un Paese in cui si realizza un forte scontro politico, aperto e diffuso, nel quale si realizza quella bilancia dei poteri, o delle forze, che crea, soltanto col suo esserci, "liberalismo". Per questi interlocutori la libertà risiede nella possibilità stessa dello scontro politico; finché lo scontro politico non c'è, non è represso con l'illegalità, si realizza democrazia: quindi, libertà. Io penso che questo argomentare, tipicamente politologico, non sia compiutamente adeguato, né sufficiente. I politologi individuano i settori in cui si realizza conflitto, in cui si presentano cleavages nella società e nello Stato; e nello stesso momento in cui li individuano e li indicano ritengono di aver individuato gli elementi costitutivi della democrazia e della libertà.

E' un ragionamento che non mi convince pienamente, e non solo perché sono un vecchio crociano. Io dò un valore preminente, assoluto, all'emergere di quelli che si definiscono valori etico-politici, i valori della libertà, liberatori per il singolo, il cittadino. Il liberalismo è questo, o non è. E questo modello io ho visto per anni verificarsi nella quotidiana prassi del partito radicale, come prassi liberatoria dei rapporti tra cittadino e Stato, nel loro dialogo e confronto politico; per cui il volantino, il bollettino ciclostilato, l'iniziativa militante che si autofinanziava coinvolgevano cittadini non sul terreno degli interessi o del potere, ma della promozione di libertà, di diritto per tutti.

Non credo di essere un anti-Craxiano; ma non penso che l'opporsi di Craxi e del suo partito al dialogo tra PCI e DC sia una prassi ancora adeguata a far crescere quei valori di libertà di cui qui parliamo. L'iniziativa craxiana è importante perché spezza un antico monopolio, spezza l'accordo tra partiti che è il nocciolo della partitocrazia, propone - se non l'alternativa - almeno l'alternanza: ma non è adeguata a proporre o ad imporre una politica liberale, di valori liberali. Non ce la fa. Per quanto importante sia l'irruzione socialista nel vivo dello scontro politico tra DC e PCI, essa non immette valori nuovi, valori liberali, nel circuito politico, come li si deve intendere se non si vuole essere solo politologi, solo strutturalisti, solo sociologi, solo economicisti.

Il problema del nostro Paese, delle libertà, del liberalismo nel nostro Paese mi sembra sia qui. E comincia con l'essere più chiaro, spero, cosa voglio dire quando affermo che il problema della nonviolenza è il problema della individuazione della possibilità di una battaglia di libertà, liberale nei valori ancora che nelle cose da conquistare o conquistate, capace di dare al Paese una nuova legge più libera e liberatrice, nuove leggi per il singolo e per tutti. Una legge, leggi liberali: è l'obiettivo, sempre, della iniziativa nonviolenta; per cui io penso ancora che la più bella battaglia del partito radicale in termini di nonviolenza, di liberazione e di libertà sia stata quella sul referendum per l'aborto. I radicali dissero allora: "Non si può accettare, comunque, che sia lo Stato, nella sua etica totalizzante, a imporre una scelta, che in questo campo è scelta di coscienza". Non so se, sul piano contingente o strumentale, la legge uscita dal referendum sia stata buona o meno buona, utile o dannosa; ma s

ul piano di fondo, liberale era solo il principio secondo il quale lo Stato non doveva avere nessuna voce in capitolo, perché il problema era di coscienza.; in quella scelta intransigente del partito radicale era il valore aggiunto di libertà, di tolleranza autentica e di costruzione della tolleranza. Essa venne allora sconfitta, ma ritengo che quello sia stato il punto più alto, in termini dialettici, dell'iniziativa radicale.

Torniamo alla questione di fondo, torniamo a domandarci quale sia l'istituzione con la quale aprire il confronto di libertà, in termini moderni, attuali, validi a prometter crescita delle libertà civili per "i tutti" e "i ciascuno". Ecco che torna allora prepotente la scelta transnazionale, nel momento in cui il configurarsi della società contemporanea viene creando nuovi intrecci di valori, di strutture, di compresenze e di assenze tra Stato nazionale e "invaso" europeo per cui, se si vuole andare alla radice della possibilità (o della fattibilità) di un più di libertà del nostro tempo, che consenta all'individuo - meglio, al cittadino, l'individuo non è il termine che politicamente ed eticamente mi interessi - di esplicare il massimo possibile, storicamente adeguato, di valori liberali, lo spazio adeguato è l'Europa, e solo l'Europa. Ecco insomma l'importanza, l'assoluta necessità della scelta radicale che oggi cerca uno spazio politico effettuale, se non altro per imposizione dei tempi. Ma è qui che si fa

sempre più forte ed assillante il mio pessimismo; io temo che il partito che dovrebbe essere avanguardia (avanguardia intellettuale proprio perché minoranza) finisca con l'essere l'ultimo a compiere la trasformazione a livello europeo: perché fra un anno possiamo essere sicuri che il transnazionale, in una forma o nell'altra, lo capiranno anche gli altri partiti, che ci scavalcheranno.

Veniamo alle conclusioni. C'è il rischio, ripeto, che nel partito radicale la nonviolenza sia destinata a restare una sorta di orticello coltivato da alcune anime buone e simpatiche, senza che il partito sia più capace di corrispondere alle esigenze della moderna nonviolenza, di essere strumento, struttura necessaria - per metodi e per obiettivi - alla politica; necessaria come sono necessarie le ali agli uccelli, le zampe agli animali. O il partito radicale è soggetto adeguato a esercitare la lotta nonviolenta nel confronto con le istituzioni reali del suo tempo, o non è; e nello stesso tempo non è nemmeno la nonviolenza; perché, senza paradossi, occorre ribadire con fermezza e convinzione che l'unica nonviolenza all'altezza dei tempi è quella radicale, quella cioè che investe di sé e della propria forza di dialogo le istituzione del tempo. Non vi è "Satyagraha" possibile se non s'investono i valori etici di fondo del proprio tempo.

E allora il partito radicale è una forza adeguata a questo livello di lotta, o non è il partito radicale, e la nonviolenza torna ad essere un comportamento legato ai comandamenti spiccioli del "porgere l'altra guancia": un comportamento non all'altezza del senso politico, occidentale, del termine "nonviolenza". Non so se il riferimento congressuale al partito dei "tremila in Europa" sia importante. Ma il fondo è quello: o c'è la forza radicale, con strumenti, prospettive, iniziative, o c'è sconfitta.

Lo riconosco a Pannella - lo riconosco con estrema attenzione ma anche con estremo distacco, nel senso che lo vedo oggi come un momento distaccato della mia vita, oltreché del partito - il merito essenziale di essere stato il teorico del liberalismo moderno, rigoroso e "realista". Teorico, dico. Anche Bobbio è un grande teorico della cultura e della politica, ma Bobbio non ha capito che non è il libro lo strumento attraverso il quale sia possibile esercitare il liberalismo, o esercitare politica; la ripresa della politica liberale potrà avviarsi solo a partire dalla liberazione dei bisogni di libertà delle grandi maggioranze della società civile.

Il termine "bisogno" è importante. Noi siamo stati vicini, molto vicini, anni fa, alle Brigate Rosse e a tutta l'ala violenta della rivolta contro lo Stato - nella più rigorosa distinzione dei mezzi e nel ripudio assoluto della violenza armata - quando essi reclamavano l'ancoraggio della politica dello Stato e delle sue riforme ad una analisi del grande tema dei bisogni. Fu un dialogo a distanza, di estremo valore, quando qualcuno, dall'interno del partito, affermò che "i nostri fratelli violenti sbagliano, perché sono violenti"; subito si scatenò un bel po' di perbenismo, anche all'interno del partito. Ma l'affermazione era motivata e puntuale innanzitutto sul piano della teoria politica. Ad una condizione (e qui si poté subito osservare come il partito radicale introducesse una correzione essenziale, in termini appunto di teoria politica): alla condizione cioè che si intendesse che i bisogni su cui fare politica non sono quelli economici; non è l'economia, l'economicismo, la riduzione ad economicismo di tu

tto - compresi i bisogni - il motore della storia. L'economia è riflesso della politica nel suo farsi storico, e i veri bisogni sono quelli che salgono al livello dell'etica, quando cioè assumono un valore etico. I bisogni diventano oggetto pieno di politica quando si fanno bisogni etico-politici, bisogni di libertà.

Questa è la scoperta fondamentale del partito radicale. Il partito l'ha acquisita e vissuta durante lunghi anni, e su di essa ha fondato la sua prassi e la sua teoria nonviolenta, originalissima e modernissima. O il partito oggi è capace di reinventare questa prassi e i suoi valori individuando il nuovo interlocutore etico-politico, istituzionale, cioè le istituzioni europee, o vi sarà un regresso del partito ad altro, e sarà sconfitto.

Non sarebbe poi un dramma, la sconfitta è uno dei rischi dell'essere politico, come della vita: una sconfitta non è più drammatica di tante altre cose. Purché non si faccia della sconfitta un escamotage per approdare ad altro.

Su questa possibilità bisogna essere estremamente rigorosi, e dire, se del caso, "no, non ci sto". Perché tutto si può accettare, tranne la corruzione dell'ideale e dei valori della storia di una cosa. Personalmente, ad esempio, non sono disposto ad accettarla: ma è un fatto personale.

Io credo che questo sia il dibattito che oggi i compagni, le compagne del "Gruppo Satyagraha" ci offrono la possibilità di fare. Ma siccome sono un nonviolento, dico che ci sono altri mille modi di intervento, tutti - per quanto mi riguarda - graditi: vedremo poi alla fine se riusciremo a trovare conclusioni valide, nell'uno o nell'altro senso, per il partito radicale e per la battaglia nonviolenta in Italia e in Europa.

 
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