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Tescari Bruno - 29 aprile 1988
La nonviolenza del Fronte Radicale Invalidi
Bruno Tescari

SOMMARIO: La nonviolenza è un metodo, uno strumento per ottenere vita, democrazia e libertà, ma per applicarlo occorrono alcune condizioni politiche e sociali: occorre che vi siano elementi minimi di democrazia, di informazione, poiché un regime oscurantista non dà la possibilità di attuare lotte nonviolente. Ad esempio di pratiche di lotta nonviolenta, l'autore riporta l'esperienza del Fronte Radicale Invalidi nel campo della liberazione dall'handicap.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)

Sono d'accordo con quanto diceva Maria Teresa Di Lascia quando affermava che la nonviolenza è intolleranza, nel senso che "non tollera" il non-diritto, la non-libertà, la non-democrazia, la non-vita: e quindi vi si oppone attivamente attraverso certi metodi.

La nonviolenza opera "per" speranza - per speranza di battere la non-democrazia - opera "per" vivere, nel senso più ampio della parola; per questo noi diciamo che il digiuno irlandese non era digiuno nonviolento, perché accettava lucidamente e scientificamente l'estrema conseguenza della morte ripetuta; perché certo è che alla base della nonviolenza c'è il dialogo (se no, non ci sarebbe speranza) ed è per questo motivo che io dico: attenzione ai digiuni-testimonianza, perché quella, a mio avviso, non è nonviolenza. E ancora a me pare che la nonviolenza da un lato sia "strumento", e dall'altro lato sia "cultura". Pongo una domanda: se fossimo convinti - e certo non lo siamo, almeno noi presenti in questa sala - che il raggiungimento della democrazia, della vita, della libertà passasse attraverso un atto violento, saremmo nonviolenti? Per noi è semplice rispondere, perché abbiamo una storia personale e politica, analisi, riflessioni, che ci hanno portato a dire "no"; però allora occorre dire che la nonviolenza

è un metodo da noi ritenuto il migliore fra i metodi per ottenere vita, democrazia, libertà.

La violenza è storicamente fallita, perché ha generato altri regimi violenti, illiberali. Ma allora - e poi parleremo di cultura nonviolenta - quando si dice che la nonviolenza è uno strumento, dobbiamo anche renderci conto che per applicare lo strumento occorreranno anche alcune condizioni; per applicare il metodo nonviolento, volendo raggiungere dei risultati positivi, occorrono alcune condizioni politiche e sociali: ad esempio, occorre che vi siano elementi minimi di democrazia, di informazione (Gandhi, senza la stampa, che cosa avrebbe potuto fare?). Mi chiedo in condizioni di dittatura assoluta, di oscurantismo assoluto in termini politici e sociali, è applicabile la nonviolenza come metodo - e poi vedremo come cultura - come metodo, intendo, per ottenere democrazia? Io ho seri dubbi, a meno che non si tratti di un intero popolo, che abbia nella propria cultura la nonviolenza, come metodo di vita ancora che di politica.

Noi abbiamo migliaia di anni di storia violenta, la scuola oggi è la fucina della violenza e della illiberalità; di conseguenza, o noi rendiamo democratica la Scuola, così che possa formare dei cittadini e non dei sudditi, o la nonviolenza non potrà essere vincente.

Ecco, quello è il vero problema della Scuola, non i programmi obsoleti...

Allora dico: il problema, uno dei problemi - intanto - è far sì che esista una organizzazione sociale, popolare, che faccia della nonviolenza il suo modo di vita, la sua cultura, e, certo, anche il suo strumento politico. Se non è organizzato in questi termini, io credo che un regime oscurantista in senso assoluto non dia la possibilità di attuare lotte nonviolente: quindi, a partire dalla scuola, dalla famiglia, da tutto ciò che violento oggi è, ma soprattutto a partire da noi come individui, attuare metodi nonviolenti. Ad esempio alcuni giorni fa, parlando con persone a me care, dicevo: mah, in questi ultimi anni io ho fatto attività nonviolenta - quindi sono ben convinto, della nonviolenza - eppure, se trovo un assalitore che fa del male ad una persona che io amo, potrei sicuramente reagire in modo violento... Ma non certamente perché nelle mie vene ci sono i millenni di insegnamento violento, del risolvere i problemi con la violenza anziché con la nonviolenza: ma anche perché sono convinto che, in quell

a situazione di aggressione alla persona che io amo, non ho gli elementi minimi perché il mio atto nonviolento possa "vincere".

E allora... io non so dire "come", ma sono certo che chi vuol fare politica sulla nonviolenza e nella nonviolenza, non può non farsi carico di trovare delle strade perché si diffonda la cultura della nonviolenza, e la convinzione che con gli strumenti della nonviolenza si possa vincere.

Io dico che gli studenti, che hanno il dittatore in classe, (io sono un insegnante, e quindi posso dirlo in prima persona)... il Consiglio di classe, dove si boccia lo studente, è l'unico tribunale in Italia dove non solo non c'è il procedimento degli appelli, ma dove non viene nemmeno ascoltato l'accusato... altro che avvocato difensore!! non c'è nemmeno l'accusato. E quindi l'insegnante è un dittatore assoluto. Ebbene io dico che una Classe, che adotta metodi di lotta nonviolenta, batte il professore, oggi in Italia: perché in Italia vi sono comunque quelle condizioni minime attraverso le quali è possibile imporre la forza della lotta nonviolenta, è uno dei modi per convincerli che quella è la strada che paga, in termini di metodo.

E poi c'è l'altro discorso, culturale, come dicevo prima.

Nella vita di tutti i giorni, cari compagni, io credo che ci hanno cambiati, mi hanno cambiato: basta ricordare quello che facevamo in prima persona verso la fine degli anni settanta, e confrontarlo con quello che siamo e facciamo oggi; tutti i movimenti di liberazione sono stati risucchiati, sono stati "arcizzati", come afferma Mauro Mellini; nei fatti abbiamo la politica del mugugno e basta.

Ci hanno cambiati, certo. Credo che nel mio modo di amare di oggi, per esempio, c'è molto più maschilismo di quanto ce n'era sette/otto anni fa... ci stanno cambiando culturalmente.

Vorrei ora passare alla seconda parte del mio intervento, portandovi la testimonianza della mia esperienza personale nel Fronte radicale invalidi, movimento che ha cessato di operare ormai da qualche anno, che nel campo della liberazione dall'handicap ha segnato qualcosa di positivo - ne sono convinto - e che rimane, ancora.

Vi chiederete: che cosa c'entra il F.R.I. con la nonviolenza?

Quando fondammo il F.R.I. (io, Giuseppe Niotta e Rita Bernardini) ci ponemmo subito il problema di "come" agire politicamente, con quali strumenti. Per noi tre, radicali, era semplice affermare che il metodo giusto era quello nonviolento: ma come poter teorizzare che era bene agire con metodi nonviolenti e far accettare la tesi a chi radicale non era? Fra noi c'erano i senza-partito: ma c'erano anche i demoproletari, i comunisti, i militanti di Lotta Continua, che teorizzavano invece la violenza, sostenendo che anche la lotta per la liberazione dall'handicap dovesse passare per metodi violenti.

Fu proprio Rita a fare una prima riflessione, che poi sviluppammo insieme: se un "bipede", o "sano", o "normaloide" getta una bomba molotov - diceva - poi, può scappare... ma se lo fa uno che sta in carrozzella? Fra le altre cose, la violenza è delega, e se l'handicappato - per la propria lotta di liberazione - dovesse scegliere il metodo violento, non potrà far altro che delegare ad altri il momento della liberazione, lo strumento per la liberazione: dovrà dire al bipede: "ecco la molotov, gettala per me". La nonviolenza, invece, consente anche all'handicappato di agire in prima persona, da protagonista, per la sua lotta di liberazione. E, quindi, questo elemento aggiuntivo veniva alla riflessione: la violenza è delega, la nonviolenza è sempre e comunque protagonismo in prima persona.

La nonviolenza si divide in due grossi filoni: la disobbedienza civile (cioè la non-osservanza di leggi ingiuste, chiedendo però la punizione prevista dalla legge, anche autodenunciandosi) e l'obbedienza a leggi assurde per dimostrarne l'incongruenza. Voglio, a questo proposito, ricordare due episodi che credo rimarranno nella storia della liberazione dall'handicap. Ci chiamavano "quelli dello scivolo", perché - in applicazione di una legge del 1978 che prevedeva il superamento delle cosiddette "barriere architettoniche" - andavamo davanti agli uffici pubblici a costruire degli scivoli in cemento, chiedendo di essere denunciati, come era giusto, per costruzione abusiva su suolo pubblico. Queste azioni erano precedute da una serie di comunicati alla polizia, al Comune, alla stampa, che fissavano l'ora e il luogo del gesto illegale. Per la prima volta i cittadini vedevano gli handicappati per la strada, non già con la mano tesa a chiedere l'elemosina, ma con la mano "armata di una pala" per costruire lo strume

nto della propria liberazione, cioè lo scivolo.

Era una sfida alla Magistratura: si chiedeva il processo, per poter chiamare in causa le istituzioni, che stavano violando la legge che loro stesse avevano emanato. Qualcuno di voi ricorderà, perché era presente, l'azione che facemmo davanti all'ufficio anagrafe di Roma quando - dopo aver costruito lo scivolo - ci stendemmo sul cemento fresco per difenderlo dalle squadre di operai dell'Assessorato ai lavori ai lavori pubblici inviate per distruggere quella costruzione abusiva.

Voglio ora portare un esempio riguardante l'altro filone della nonviolenza, quello dell'obbedienza alle leggi assurde. Verso la fine degli anni settanta, il Centro Storico della capitale era totalmente inibito agli invalidi: c'era il divieto di accesso con le automobili, e gli autobus - come sapete - con i loro enormi gradini, erano e sono tuttora mezzi di trasporto inaccessibili all'handicappato, sono mezzi per soli "sani". Inventammo la "strisciata": entrammo nel centro storico con l'unico mezzo che ci era consentito, strisciando per terra. Avvertimmo le autorità, ci infilammo in sacchi di juta... (mille lire l'uno, me lo ricordo: è importante anche questo!) , e facemmo quella singolare manifestazione; coinvolgemmo anche i cosiddetti "sani", che per quel giorno si legarono le gambe, provando insieme a noi che cosa significa vivere da handicappati in una metropoli come Roma. Voglio anche ricordare che si era nel pieno del periodo in cui il Decreto Cossiga vietava ogni tipo di manifestazione a Roma: pensammo

che questa era una ragione in più per farla.

Quelle iniziative clamorose ebbero un significativo risalto sulla stampa, e fu proprio quell'attenzione che ci consentì di vincere ottenendo il permesso di accesso alle automobili nel Centro Storico e il parziale superamento delle barriere architettoniche. Credo che sia stato importante ricordare in questo Convegno anche queste forme di lotta nonviolenta, perché nella storia del Partito radicale non ci sono stati solo i digiuni, ma anche la disobbedienza civile, proprio per allargare il ventaglio delle lotte nonviolente.

 
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