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Stango Antonio - 29 aprile 1988
L'utilità della nonviolenza è soggettiva
Antonio Stango

SOMMARIO: La nonviolenza perde la sua efficacia se è patrimonio solo dei "soliti" radicali; la nonviolenza è sentita solo da coloro che hanno la capacità di sorprendersi e di essere coinvolti. Ecco perché, secondo l'autore, oggi la nonviolenza può servire sempre meno in Italia e in occidente e sempre più nei Paesi totalitari, dove - tra l'altro - non c'è l'inflazione dell'informazione. L'autore, infine, sostiene - in risposta all'intervento di Di Lascia e Tescari - che intolleranza e nonviolenza non possono coincidere.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)

Un merito particolare di questo convegno - io, qui, non voglio iniziare con dei ringraziamenti - è quello di avere riunito in questa sala, per diverse ore, delle persone (cioè buona parte dei Parlamentari e dei membri della Segreteria del Partito radicale) che normalmente non si trovano insieme nei Convegni: perché spesso è più difficile trovare ciascuno di questi che non avere incontri o ascoltare in Convegni personalità di altri partiti, del mondo della cultura e così via.

Fatto è che i radicali da qualche anno a questa parte dedicano, mi sembra, pochissimo tempo alla riflessione su questioni pure estremamente importanti quali il metodo, l'approccio alla nonviolenza, e così via: mentre credo che invece un momento di riflessione, o più momenti di riflessione come suggeriva ieri Giovanni Negri, siano necessari.

E' necessario su un tema, quello della nonviolenza, che è per me l'essenza stessa del Partito radicale: e in questo sono d'accordo con quanti - a cominciare da Angiolo Bandinelli nella sua relazione introduttiva di ieri - hanno notato questo aspetto.

Vorrei però rispondere (o tentare di rispondere... portare degli elementi, per una risposta che soltanto il Partito radicale nel suo insieme potrà dare poi nella prassi) ad un paio di interrogativi che sono emersi ieri, che oggi un po' sono stati riproposti, anche se poi ciascuno ha arricchito il discorso comune sulla nonviolenza di angolazioni e di sfumature diverse.

Un primo interrogativo è questo: è - quella del Partito radicale - una condizione di "ghetto", e in particolare è una condizione di ghetto quella di chi si pone come metodo il metodo nonviolento?

E il secondo interrogativo, che a mio avviso sembra molto connesso al primo, è: è ancora utilizzabile, la nonviolenza?

Dico che le due cose sono connesse, perché credo che la nonviolenza sia utile nella misura in cui non sono soltanto i radicali come noi siamo - o ancor meno i radicali che storicamente abbiamo conosciuto - ad usare la nonviolenza. E quindi la nonviolenza è utile se si esce dal ghetto; e si esce dal ghetto soprattutto se si dà effettivamente corpo (per usare questa espressione tipica del linguaggio "radicalese") in questa fase, a quel partito transnazionale che non a caso abbiamo immaginato.

Dico questo, perché noi - credo - possiamo esaminare la nonviolenza soprattutto dal punto di vista dell'utilità, cioè dare forza a questo concetto dell'utile: perché dal punto di vista del "buono", cioè la categoria dell'etica, credo che tutti siamo d'accordo che la nonviolenza risponda, al requisito di essere buona.

Dal punto di vista del "bello" (categoria dell'estetica), probabilmente ha un suo fascino assistere a un film su Gandhi, ha un suo fascino vedere Marco Pannella che digiuna o un altro di noi che fa una iniziativa nonviolenta, se soltanto poi ci sono i mezzi di informazione che ci fanno sapere che questo sta accadendo.

Ma il problema principale è se sia "utile", cioè rientri nella categoria dell'economia: economia con le sue leggi o con le sue linee di tendenza, di cui la politica concreta si nutre.

Ebbene, io credo - dunque - che la nonviolenza sia utile. Ma questo concetto di utilità, che poi ritroviamo nella teoria economica, non è un concetto oggettivo: perché, quando si dice che l'oro è utile, in realtà non si dice che una proprietà dell'oro è l'essere utile, ma si intende dire che le persone considerano utile l'oro, sicché non si tratta di un discorso oggettivo rispetto all'oro ma soggettivo rispetto alle persone che considerano essere utile l'oro, mentre altri - per esempio - considerano utili le conchiglie... per cui la nonviolenza è utile se ci sono persone che sentono questa sua utilità.

Chi sente questa utilità, oggi? Soprattutto coloro che hanno la capacità di sorprendersi, che hanno la capacità di ammirare, che hanno la capacità interiore di essere coinvolti dal fatto nonviolento. E questo, a mio avviso, succede sempre meno - possiamo vedere se la tendenza sia convertita oppure no - ma succede sempre meno in un Paese come l'Italia, succede sempre meno nel mondo occidentale, continua a succedere - e può succedere, credo, sempre di più - nei Paesi totalitari. E questo lo dico perché le mie esperienze che considero più importanti, la mia attenzione maggiore, è dedicata ai Paesi totalitari. Certo, potrà sembrare strano quanto vi ho appena detto: in un certo senso può fornire una immagine ribaltata di una visione che pure ha i suoi fondamenti logici, quale quella della nonviolenza che serve in Paesi governati da un sistema anglosassone, e così via. Io sono portato a dire che può servire soprattutto in Paesi a regime totalitario, proprio perché lì esiste una diversa attenzione, proprio perché l

ì esiste una diversa capacità di sorprendersi, e di rimanere colpiti, e di fare qualcosa per tutto questo.

Il solo raccontare in Unione Sovietica, il solo raccontare a Mosca, con il supporto di quei pochi ritagli di stampa che c'erano e che ero riuscito a portare con me senza destare l'attenzione delle Dogane, dei digiuni radicali, il solo mostrare - ecco il discorso del simbolo - la copertina del nostro Statuto tascabile dell'anno scorso con il volto di Gandhi, a personalità del dissenso, a "Refuznik" anche celebri come Alexander Lerner, Accademico delle scienze, una persona dalla grande e profonda cultura, ebbene solo questo ha destato in loro una emozione che credo non sia registrabile se non molto di rado in ambienti intellettuali, in ambienti politici, in Italia e in altri Paesi occidentali.

E questo allora mi aiuta, come accennavo prima, a rispondere alla domanda se sia oggi "utile" la nonviolenza, se cioè sia oggi utile per il Partito radicale adoperare questo metodo: e dico sì, se il Partito radicale è partito transnazionale, se il Partito radicale è forza politica, forza ideale, in grado di far conoscere determinati messaggi e di adoperare questo metodo non soltanto in un Paese come l'Italia, ma anche in zone completamente diverse, diverse per cultura, per sistema sociale, per sistema politico, per sistema delle comunicazioni di massa... ché poi questa è effettivamente la chiave di tutto, (noi lo abbiamo intuito senz'altro vedendo il film "Gandhi" e in altri modi) l'importanza dei mass media; ma non dobbiamo caricare questo di un significato che non sia vicino alla realtà del mondo di oggi, perché è vero - una cosa importante che ricordava oggi Pannella - che esiste una inflazione dell'informazione.

In un mondo in cui arrivano ogni giorno milioni di messaggi, milioni di notizie, milioni di dati, nessuno di questi in realtà ha un valore "vero": mentre in Unione Sovietica, quando esce in duecento copie battute a macchina con carta carbone (magari battute dieci volte a macchina, perché più di dieci copie la carta carbone non le riproduce), quel samizdat che circola, in un mondo di quel genere produce un'attenzione enorme, una sensibilizzazione tale da poter portare migliaia di persone in piazza, da convincere qualcuno che vale la pena di affrontare dieci anni di Lager per dire una parola... e quella parola può scuotere addirittura un Regime.

Quella parola, detta da Adam Michnik in Polonia, o detta da Sacharov un tempo in Unione Sovietica, o da Bukowskij in carcere o nel lager o nell'ospedale psichiatrico, può addirittura scuotere un Regime.

E questa è la dimensione alla quale dobbiamo fare riferimento oggi. Un partito che non può - ne sono convinto - non essere transnazionale, per quel dato che Spadaccia ci ricordava al termine del suo intervento nel corso del quale ha detto tante cose importanti: ma il dato dei dati è quello della totale inter-dipendenza globale dell'epoca in cui viviamo. E allora - quando pensiamo alla nonviolenza - dobbiamo pensare che l'atto, il gesto nonviolento che si compie in Unione Sovietica o in un'altra parte del mondo (adesso citerò una parte completamente diversa del mondo) in realtà arricchisce la politica di tutto il mondo, in realtà arricchisce la politica del mondo occidentale, le speranze di democrazia, di Diritto, dell'Europa occidentale, o quelle di vita nel Sud del pianeta.

Altra parte del mondo: l'Argentina. All'Argentina ho pensato perché le madri di Plaza de Majo, queste donne che voi ricorderete, che sfidavano il regime dei militari argentini alcuni anni fa, tutti i venerdì... questo è stato un fatto nonviolento importante: e questo avveniva in un regime democratico. Non era, credo, un regime totalitario, era diverso: cioè la dittatura è diversa dal sistema totalitario compiuto, come c'è per esempio in Unione Sovietica... anche se nessun sistema è perfetto, nel bene o nel male. In Argentina c'erano spazi in più, di lavoro politico pubblico - non clandestino - di quanti ce ne siano anche oggi, anche con la glasnost, in Unione Sovietica: ma tuttavia quel gesto, quel ripetersi ogni venerdì di quelle manifestazioni in Plaza de Majo a Buenos Aires ha contribuito moltissimo al superamento della dittatura e all'avvento della nuova democrazia in Argentina.

Un'altra cosa - perché non dobbiamo fare un mito né di questo, né di Gandhi né di altro - che noi dobbiamo ricordare è che comunque tutto questo non avviene in condizioni di azzeramento degli altri fattori: cioè non esistono soltanto le madri di Plaza de Majo e la dittatura, ma esistono tutta una serie di altri fattori, come la crisi economica, l'inflazione al duecento per cento, la guerra delle Falkland/Malvinas, il crollo militare del regime e così via.

Allora la nonviolenza è importante, è importantissima, è quella che determina il salto di qualità, è quella che dà speranza alla politica, dà la speranza che ciò che ciascuno di noi fa sia effettivamente utile anche per grandi cose, come cambiare un regime dalla dittatura alla democrazia... ma dobbiamo tener conto che mai come nel nostro mondo di oggi - oltre all'inter-dipendenza globale - esiste una plurifattorialità che determina le cose umane, che determina gli sviluppi politici.

Così anche Gandhi, Gandhi non è stato il "dio" che con la sua nonviolenza ha fatto crollare l'Impero britannico: la nonviolenza di Gandhi a mio parere è stato un elemento importantissimo della cessazione del potere britannico sull'India, ma questo è avvenuto comunque in un momento in cui il crollo storico degli imperi era determinato da una serie enorme di fattori, di natura economica e così via. Io non voglio fare un mito di Gandhi, non voglio fare un mito dei vari fenomeni nonviolenti che hanno caratterizzato la storia del mondo in questo secolo: ma dico che bisogna non fare della nonviolenza una religione o qualcosa di simile, ma guardarla con grande razionalità, così come razionale (molti, qui, l'hanno ricordato) è stata la scelta di Gandhi, la scelta di altri che la nonviolenza hanno praticato.

E diceva Adele, credo, anche qui una cosa giusta, su cui riflettere: "non c'è il signor potere"; non esiste il "potere" personificato se non a livello di alcune immagini che pure possono essere utilizzabili nella dialettica politica, e anche nella prassi politica di ogni giorno. Il potere è dato da una serie di elementi, anche qui: ma soprattutto io vorrei aggiungere che il potere non è una cosa che si possiede, e quindi può passare da una persona all'altra rimanendo pari le altre condizioni; il potere è un rapporto. E' un po' come il discorso dell'oro e della conchiglia: il potere è un rapporto fra il soggetto X e il soggetto Y. Il soggetto X non ha potere, se il soggetto Y non ci crede: tutto è fondato sulla credibilità di X, nel momento in cui dichiara di avere un potere.

E la risposta a questo problema fondamentale delle Società umane è: chi ha il potere, perché, e quanto questo potere potrà durare; perché poi la lotta politica, secondo alcuni, non è altro che la lotta per raggiungere il potere - anche se Spinelli la pensava diversamente, e noi con lui - ma questo problema fondamentale è anche da tener presente, quando si parla di nonviolenza. Infatti chi esercita la nonviolenza per fini politici in modo razionale, non facendone un mito, come accennavo, ha per forza di cose interlocutore chi esercita il potere: e in questo non sono d'accordo con alcune cose che diceva Bruno Tescari questa mattina, rispetto ai digiuni di dialogo o a quelli cosiddetti "intolleranti", o cose di questo tipo. Io credo che intolleranza e nonviolenza non siano legate l'una all'altra, credo che siano due cose che non vanno insieme: può essere intollerante, a mio parere, soltanto chi detiene il potere. Si tratta in sostanza soltanto di mettersi d'accordo sulle definizioni, magari poi accade che io e

chi ha usato la parola "intolleranza" la pensiamo all stesso modo, poi, sul contenuto... però io non adopero il termine "intollerante" se non per chi detiene il potere, mentre chi il potere subisce potrà essere ostinato, tenace, caparbio - nella sua volontà di sovvertire la logica che in quel momento lo soffoca - ma non è intollerante, è qualcosa di diverso. Ripeto, è solo un problema di definizioni, ma rimane il fatto che il rapporto fra il soggetto A e il soggetto B, fra chi dichiara di essere detentore del potere e chi dovrebbe subire questo potere, è la chiave della nonviolenza: bisogna convincere il soggetto A che non può continuare a comportarsi in un certo modo, cioè (nella fattispecie su cui noi radicale ci battiamo) non rispettando le proprie stesse leggi, non rispettando gli accordi internazionali, non rispettando la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo - per non citare che alcuni esempi - altrimenti questo rapporto si affievolisce oppure si spezza, la sua credibilità scompare, nelle rela

zioni all'interno del Paese o del sistema di Paesi che deve governare, e scompare la sua credibilità anche nelle relazioni internazionali.

Questa è la chiave che mi fa dire anche qui: sì, la nonviolenza è utile, è utile tuttora. Dobbiamo però superare l'accezione di nonviolenza adoperata all'interno di uno Stato per ottenere una determinata cosa (Pannella e il divorzio nel 1974, per fare un esempio), perché quello è stato un momento bellissimo, grandioso, che ha avvicinato forse tutti noi al Partito radicale, che ha determinato una serie di fatti importantissimi in Italia (e che anche fuori d'Italia molti hanno conosciuto, e grazie al quale molti apprezzano il Partito radicale fuori d'Italia oggi, per quel che sono riusciti a saperne): ma a mio avviso non è proponibile oggi in Italia, e forse non è proponibile oggi in Europa, se non forse solo in alcune zone dell'Europa occidentale. E' proponibile invece in altri parti del mondo, ed è proponibile nella chiave diversa, della nonviolenza usata nelle relazioni internazionali.

Con una ulteriore difficoltà, però: perché c'è la volta che la cosa va bene, la volta in cui può essere orchestrata una particolare campagna perché il tale Paese applichi l'Atto di Helsinki in un certo modo, e la cosa va, perché si riesce a creare opinione pubblica, e l'opinione pubblica fa pressione sui governi, su uno, due, tre governi, e poi sulle istituzioni internazionali, e queste fanno pressione a loro volta, e alla fine quel governo cede, e lo abbiamo visto... ma ci sono delle volte in cui tutto questo può non accadere affatto.

Ciò non di meno, io credo che questo sia utile: perché se anche non si giunge al momento più bello, quello in cui si può constatare che il risultato è stato acquisito, malgrado ciò nel frattempo si è riusciti - se si è operato bene, ovviamente - a creare comunque quel qualcosa in più, in termini di sensibilizzazione, di conoscenza, di attenzione, da parte dell'opinione pubblica e dei Governi, che era necessario creare: e che con i normali metodi metodi politici, con la normale prassi democratica non si riesce a ottenere, appunto, in questo mondo di inflazione dell'informazione e così via. Cioè è vero che l'inflazione dell'informazione fa sì che sia difficile cogliere i segnali nonviolenti, soprattutto quando un determinato regime cerca di soffocarli (ed è il caso che tante volte abbiamo potuto constatare in Italia): ma è altrettanto vero che, se non "passa" il messaggio nonviolento, il messaggio di normale politica democratica passa ancora meno, in un Paese come l'Italia, se tu non hai alle spalle il potere

diretto sui mass media, oppure determinati poteri di governo, o se non sei un partito di massa come il PCI per esempio.

Una delle ultime considerazioni che voglio fare è questa: in fondo la nonviolenza è un po' come quella che una volta veniva definita la lotta giapponese, cioè esattamente l'opposto della boxe. La tecnica consisteva nel far usare la forza all'avversario, fino al punto in cui si sbilanciasse e quindi cadesse per terra. E' un po' riduttivo, se vogliamo, ma in fondo è proprio questo: non si usa la propria forza, si fa sbilanciare l'interlocutore, non perché caschi per terra, ma perché "caschi l'asino" delle sue contraddizioni, del suo non applicare le leggi, del suo non applicare il diritto nazionale e quello internazionale. E l'ultima cosa è questa: ho accennato alla questione della pluri-fattorietà degli eventi sociali e degli eventi politici; Gandhi o le Madri di Plaza de Majo che non potevano, con la sola nonviolenza, creare fatti come l'indipendenza dell'India o il passaggio dalla dittatura alla democrazia in Argentina, pur essendo comunque la nonviolenza la chiave più importante attraverso cui questi fatt

i si sono verificati: c'è plurifattorietà anche nella cultura. Io non credo che sia l'istituzione "Scuola", oggi, nel mondo occidentale, la responsabile massima della formazione culturale: credo che in un Paese come l'Italia la scuola copra forse un dieci per cento della formazione culturale degli individui, perché - fin da piccolissimi - si è bersagliati da una gran mole di informazioni, di dati, di conoscenze, che sono anche dati seri, fruibili, in mezzo a rumore che ci circonda. La scuola ha un valore diverso, ancora una volta, nei paesi totalitari, là dove l'informazione che passa è soltanto quella di regime, e quindi è la stessa che si trova a scuola: tu accendi il telegiornale a Mosca, e senti le stesse cose che trovi sui libri di scuola. In un Paese di enorme plurifattorietà e complessità democratica, come il nostro, si inserisce anche il gesto politico. Perché è dal gesto, probabilmente, che si impara assai più che dal testo: è dall'esempio politico che si impara assai più che dalla lezione univers

itaria, sulla nonviolenza o su qualsiasi altro aspetto della prassi politica.

 
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