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Dentamaro Gaetano - 29 aprile 1988
Nonviolenza: il rischio della testimonianza
Gaetano Dentamaro

SOMMARIO: L'azione nonviolenta è inutile e rischia di essere solo una testimonianza quando non coinvolge l'interlocutore: così è lo sciopero della fame di Michalis Maragakis, obiettore di coscienza in Grecia, e così rischiano di essere le azioni nonviolente dell'autore stesso e di Paolo Ghersina, affermatori di coscienza in Italia; così come una grave sconfitta è stata, per il Partito radicale, la campagna di "sopravvivenza 82". Infine, l'autore sostiene che non esiste la nonviolenza se non esistono i nonviolenti: il Partito radicale non può proclamarsi nonviolento se non riesce, nell'esempio e nell'azione dei suoi membri, ad essere nonviolento.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)

Innanzitutto mi giustifico per non aver partecipato ai lavori nella giornata di ieri: se non fossi stato là dove ora vi dirò, certamente sarei stato qui con voi.

Ieri ero a Bologna, e vorrei raccontare quello che è accaduto, anche perché introduce quel che volevo fare qui come testimonianza di un tentativo, mio personale, di perseguire un'azione nonviolenta.

Ieri a Bologna Andreas Papandreu, Primo Ministro greco, ha ricevuto una laurea honoris causa - in scienze statistiche - dalle mani del Rettore dell'Università Prof. Monaco. Carduccio Parizzi ed io (cioè "un piccolo gruppo di radicali", come abbiamo poi scritto nei comunicati stampa, giacché due persone sono comunque un gruppo, anche se piccolo...) siamo entrati nell'atrio dell'Archiginnasio e, all'arrivo di Papandreu, abbiamo innalzato i cartelli; Carduccio ha cominciato a strillare "libertà per gli obiettori greci!" proprio nel momento della stretta di mano con il Rettore, ed è stato bloccato dai poliziotti che gli hanno letteralmente tappato la bocca; subito dopo ho iniziato io, in greco, subendo ovviamente la stessa sorte. Un po' di questi graffi che ho sulla faccia vengono appunto da quelle mani guantate che ci hanno zittito, nonostante tutti i tentativi che abbiamo fatto per divincolarci e tentare di parlare comunque. Forse, per questo, avrebbero anche potuto accusarci di resistenza... ripensandoci però

credo che proprio la nonviolenza ha fatto sì che ci limitassimo al tentativo di liberarci dal bavaglio invece di azzannare le mani dei poliziotti.

Voglio riferire sulla situazione dell'obiezione di coscienza in Grecia e dei due obiettori in carcere Michalis Maragakis e Tanassis Makris, che sono gli unici due obiettori "politici" - per il momento - mentre il numero degli obiettori "religiosi" è di centinaia. Maragakis è giunto oggi al 69mo giorno di sciopero della fame, ed è ricoverato in ospedale ad Atene.

Noi abbiamo espresso questo pensiero in varie forme e in vari modi a Michalis e agli altri: questo sciopero della fame non è una azione nonviolenta. Non voglio dire che sia "violento", ma certo è qualcosa di diverso. Ricordo una mia professoressa di matematica, che al liceo ci spiegava che in matematica ciò che è superfluo è errore: ebbene, se la nonviolenza è il tentativo di essere razionali in politica, di fare politica in modo razionale, questo sciopero della fame è superfluo, è inutile, e perciò è un errore. Maragakis lo ha cominciato il giorno dopo che il suo processo di appello si era concluso con la pena ridotta della metà, anche se - con decisione davvero incredibile - la giustizia militare ha cancellato sette mesi trascorsi da Maragakis detenuto fino alla revisione del processo di primo grado. Lo sciopero era cominciato con l'obiettivo di un dialogo con la Chiesa Ortodossa, che Maragakis rivendica come propria religione, e la Chiesa Ortodossa non ha mai sostenuto l'obiezione di coscienza: cosa perf

ettamente logica, questa, poiché - ad oggi - gli obiettori in Grecia sono i Testimoni di Geova, considerati dal Pope come nemici della Chiesa. Dapprima sapevamo che il digiuno sarebbe durato fino a Pasqua, poi abbiamo ricevuto notizia che si sarebbe prolungato ad oltranza "finché la pressione internazionale non fosse diventata insostenibile per Papandreu", secondo testuali dichiarazioni. Non mi soffermo oltre... ma davvero mi pare che ci sia molto poco di nonviolento in queste scelte, se vogliamo intendere la nonviolenza come processo razionale di formazione di una scelta politica, di formazione di una "convinzione" col senso e col significato che ci ha spiegato Marco Pannella, del "vincere insieme": se vogliamo intendere la nonviolenza come un processo che deve sconvolgere l'avversario, ma anche coinvolgerlo. Io sono coinvolto, in tutte queste vicende, perché ho deciso a suo tempo -- in un paese che ammette il servizio alternativo - di fare una scelta che viene definita "affermazione di coscienza", rifiutan

do anche il servizio civile, insieme ad altri ed in primo luogo insieme a Olivier Dupuis che è stato il primo (e finora l'unico) caso messo in discussione dalla Giustizia, in Belgio.

Prima dello scorso Congresso, "Notizie Radicali" ha ospitato una sorta di dibattito su questo tema a partire da un'altra esperienza, quella di Paolo Ghersina; Paolo, presentando volutamente in ritardo la sua "domanda di obiezione di coscienza", ha cercato di mettere in luce i motivi per i quali noi rifiutiamo questo tipo di legge in materia di obiezione di coscienza e di servizio civile. Noi diciamo che una legge che ammette il servizio civile (e non "che riconosce l'obiezione di coscienza", cosa che in termini giuridici non è, e non può essere) non è una legge giusta, perché questa scelta non può essere limitata, e si deve poterla compiere anche dopo aver indossato la divisa o addirittura dopo aver svolto il servizio militare: sicché colui che si oppone a questa legge ha tutte le ragioni per attaccarla, per tentar di cambiarla nei suoi assunti. Paolo dunque diceva: avendo riflettuto, avendo cercato di maturare una scelta diversa, avendo condiviso in tutti questi mesi - con Olivier e con altri di noi - le te

nsioni e il dibattito, faccio oggi una scelta che considero incompleta, e corro il rischio della testimonianza: non dichiaro che rifiuterò il servizio civile, ma presento una domanda che mi concede ancora dei mesi: e nello stesso tempo la mia scelta no è che una scelta di affermazione di coscienza, perché testimonio che la legge attuale - per chi la voglia comunque praticare e non rifiutare - - è ingiusta.

Il rischio della testimonianza, personalmente, credo di averlo corso fino in fondo e, per quel che ne so, la mia è una testimonianza sconfitta: forse non definitiva ancora, sulla mia pelle, ma comunque la testimonianza di una sconfitta.

Questa sconfitta è - per me personalmente ma credo anche per gli altri, e per Olivier soprattutto, attraverso il dramma che si è compiuto durante i suoi otto processi - semplicemente la ricaduta, il portato in termini storici, di quella sconfitta che come radicali anche noi avevamo vissuto prima: la sconfitta di quella campagna di "sopravvivenza '82" che non riuscì ad imporre il "decreto di vita per milioni di agonizzanti per fame".

Nella storia politica radicale, a quella sconfitta seguì infatti il Congresso di Rimini nel 1983: un Congresso dove, a conclusione di un biennio come Segretario del Partito radicale, Marco Pannella proponeva nella sua relazione a tutti gli iscritti una domanda, fondamentale in un partito annuale, che ha la correttezza di un metodo politico, dichiara i suoi obiettivi e deve perciò verificarne la raggiungibilità. E la domanda era: sulla fame, siamo di fronte alla sconfitta o al fallimento? Sconfitta, o fallimento, dell'impostazione che è stata data alla iniziativa politica con le campagne "sopravvivenza", per far approvare una "legge-esempio", per salvare tre milioni di persone? Poteva trattarsi, invece, di trecentomila... ma l'importante sarebbe stato comunque il mettere in atto un metodo e dimostrare come era possibile garantire la sopravvivenza.

Ed ecco che nella mozione di Rimini non si parla più di totale impegno del partito sull'obiettivo "tre milioni di vivi" (come nel 1981) né di "impegno prioritario nazionale ed internazionale" (come nel 1982) ma si assume invece di "esperire ogni strumento non ancora utilizzato ed ogni altro": e, con la segreteria di Roberto Cicciomessere nei mesi che seguirono, fino all'anno successivo con la segreteria di Giovanni Negri, avemmo un problema, quello di strappare "una" legge in Parlamento.

Io a questo punto vorrei dire e concludere, che la nonviolenza non esiste: non esiste se non esistono i nonviolenti, almeno.

Quest'anno per esempio abbiamo un Primo Segretario del Partito radicale - del quale, credo, dovremmo essere orgogliosi, perché (come lui stesso dice) diventa segretario quando i capelli sono bianchi e pochi, a 65 anni, essendo stato uno dei fondatori del partito - che ci dice "io non sono un nonviolento, non so cos'è la nonviolenza". E allora la nonviolenza non esiste, se non esistono i nonviolenti, intendendo il nonviolento nella nostra concezione, non come colui che ha il problema di non schiacciare la formica.

La bestia, l'animale uomo è violento: e il nonviolento è colui che razionalmente riduce, cerca di ridurre il proprio contenuto di violenza, e s'impegna e vuole che questo divenga possibile anche per altri, giacché c'è il dato di violenza che si produce e c'è il dato di violenza che comunque si subisce. Perciò il nonviolento deve organizzarsi con gli altri, politicamente, ed il nostro problema di nonviolenti è quello - in quanto animali violenti ma dotati di razionalità, che devono fare i conti con le proprie spinte irrazionali - di capire che cosa significa, per una organizzazione politica, per un partito politico, "essere nonviolento".

Non possiamo avere un partito nonviolento, ma dobbiamo cercar di capire come si costituisce, attraverso quali azioni possa esistere un partito nonviolento: quali sono le inziative che ne designano la riconoscibilità in quanto partito nonviolento. Non siamo Democrazia Proletaria che a un certo punto proclama in un Congresso che "ormai per DP la nonviolenza è una scelta strategica"... il che è esattamente la dichiarazione per cui "si ha" la nonviolenza, piuttosto che essere nonviolenti. E' probabile che queste persone non abbiano affrontato per se stesse la contraddizione di cui dicevo prima, tra spinte irrazionale e necessità razionali dell'animale uomo (e ricordo che un precedente Convegno radicale sulla nonviolenza si intitolava "l'arma della ragione"...) , ma questo non m'interessa. Mi interessa invece sapere che a questo punto per DP la nonviolenza è un avere, una strategia: in altri termini, una ideologia.

Tornando al 1983 e alle scelte di Rimini, l'impostazione di Marco Pannella sullo sterminio per fame, quel che aveva costituito il motivo fondante del Partito radicale negli anni della sua segreteria, la sopravvivenza cioè di milioni di persone, l'ipotesi che non si trattasse comunque si una sconfitta e non si fallimento la si verificò attraverso il costituirsi per quell'anno del Partito radicale come un'organizzazione nonviolenta "tattica", lobbystica: per cui con i digiuni collettivi a termine, con i Sindaci, con altre cose, si arrivò poi al deposito della Legge Piccoli; e da lì c'è ancora storia da raccontare, i digiuni di Giovanni Negri che - eletto segretario nel novembre 1984 - si ritrovava a marzo 1985 avendo mangiato per meno giorni di quanti non ne avesse vissuti digiunando... per ottenere poi quella legge che sappiamo e con gli esiti che pure sappiamo.

E mi pare che dal 1983, coerentemente, Marco Pannella abbia scelto di impegnarsi sull'altra faccia della medaglia, sull'altro corno del problema per un nonviolento, passando dal diritto alla vita alla vita del Diritto: e credo che le iniziative sulle quali - con Marco - ci si è trovati a confrontarsi sul problema della nonviolenza attraverso un esempio, nel 1983 già, con la candidatura di TOni Negri, la proposta dello sciopero del voto e il dibattito se si trattasse di una azione democratica o di un'azione nonviolenta, ne siano la prova.

Si poneva la domanda: se lo sciopero del voto è semplicemente una delle possibilità offerte in queste elezioni, vuol dire che c'è democrazia piuttosto che partitocrazia, oggi, in Italia? E Pannella rispondeva con un aut-aut: se non c'è democrazia, il nonviolento non vota. E credo che questo percorso, fino alla risoluzione che ipotizzava lo scioglimento del Partito radicale, sia stato il percorso "altro" possibile della nonviolenza come dato dell'organizzazione politica, cioè il percorso della "vita del Diritto"; quel che, nella sconfitta sulla lotta allo sterminio per fame, ci ha consentito di non essere meramente testimoniali in quanto organizzazione politica, di continuare a perseguire e a realizzare obiettivi politici. E, nella lotta per la vita del Diritto, la nonviolenza è esistita perché è esistito il nonviolento Enzo Tortora con le sue scelte nonviolente e socratiche.

Essere nonviolenti in questo partito... Nel 1983 io presentai una mozione nella quale si parlava dell'obiezione totale, e Gianfranco Spadaccia mi oppose che "per fare l'obiezione totale ci vogliono gli obiettori totali". Noi quattro gatti abbiamo offerto questo, al partito, in modo che purtroppo è risultato fin qui non utile: e vorrei dire che in questo senso il Partito ha avuto gli obiettori o gli affermatori totali, ma non è stato il partito dell'obiezione/affermazione di coscienza.

Io voglio chiudere qui, con due riflessioni che accenno soltanto, perché ancora non risultano molto chiare a me stesso; ma trovo giusto provarci, comunque.

La nonviolenza non esiste se non nel tentativo di organizzarla politicamente: per essere un partito nonviolento, secondo me, il Partito radicale può perseguire soltanto due strade. Una è quella di essere il "partito del Congresso", cioè il partito gandhiano, nel senso in cui Gandhi fondò il Congresso dell'India libera; credo che queste, quasi testualmente, siano parole che ho sentito da Marco Pannella: noi dobbiamo fondare il Congresso della liberazione nonviolenta e Gandhiana dell'Europa, degli Stati Uniti d'Europa, per la garanzia e la promozione del DIritto.

E, per essere un partito nonviolento, l'altra cosa che mi pare necessaria è quella di essere sempre più un partito-transpartito, un partito, cioè - come fu scritto in una selle ultime mozioni dei nostri congressi - "di idee e di valori prioritari", con le conseguenze radicali che questo comporta: quella di non presentarsi più ad elezioni, e quella di essere un partito rigorosamente autofinanziato.

Al Congresso scorso abbiamo simboleggiato con due mancate decisioni l'incertezza che ci attanaglia sempre, mentre con fatica - ma con determinazione pure - precorriamo questa strada: rifiutando di scegliere il simbolo (e mi piacerebbe anche, ma non c'è tempo, intervenire in un dibattito che è stato fondamentale, più specificamente su Gandhi e sul suo ruolo politico), e poi mancando di dichiarare come scelta definitiva quella dei primi giorni dell'anno solare come data del Congresso. E infatti dalla tribuna si disse che la data di novembre, a suo tempo, era stata scelta perché coincideva con un momento "caldo" della vita politico-istituzionale, in Italia. Ma nella stragrande maggioranza dei Paesi occidentali i giorni di inizio d'anno sono giorni di festa, il che è incentivo alla possibilità di partecipazione. Ma come si fa, si sente dire, dopo le feste, dopo i bagordi di Capodanno, ad andare al Congresso... Si fa, invece. Se si vive in modo nonviolento, se si è nonviolenti, se si intende organizzarsi per aff

ermare idee e valori prioritari, si fa. Che bella, allora, sarebbe la festa, all'inizio del Congresso e durante: se non che il Congresso è una festa esso stesso.

 
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