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Strik Lievers Lorenzo - 29 aprile 1988
Violenza e nonviolenza a confronto
Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: Ripercorrendo la storia del Partito radicale, l'autore descrive lo sviluppo e la crescita della nonviolenza politica in Italia e il continuo confronto con la cultura della violenza propria di tutte le altre famiglie politiche.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza, Roma 29-30 aprile 1988)

Credo che ci sia un sentimento comune che ci porta, anzi ci obbliga a ringraziare profondamente le due Laure e le Associazioni che ci offrono questa occasione, o meglio ci costringono ad un momento di pausa e di riflessione: che ci aiuta a capire, a renderci conto dei pericoli che ci gravano addosso quando non riusciamo ad essere sufficientemente lucidi nell'individuare proprio i problemi di cui stiamo parlando qui, che sono i problemi centrali del partito radicale, ma - se no, non saremmo radicali - sono i problemi centrali della vita politica e della vita sociale del nostro tempo, in funzione dei quali siamo costituiti in Partito radicale.

Devo dire che mi sento molto inadeguato a parlare perché non riesco ad avere la chiarezza di idee che sento necessaria, anche solo per esprimere, per formulare, per definire i dubbi e le alternative che abbiamo. Quello che forse posso cercare di fare è esporre alcune considerazioni su alcuni dei punti che sono caratteristici del Partito radicale, nel suo rapporto nonviolento con le culture e con le dinamiche della vita politica italiana lungo tutta la storia del nostro Partito.

In questo senso mi pare che la relazione di Bandinelli prima, e l'intervento di Giovanni adesso, ci hanno definito quello che mi ero annotato come i due cardini fondamentali: il rapporto tra nonviolenza e liberalismo - che è stato un po' il filo della relazione di Angiolo - che mi pare, proprio in termini teorici e di comprensione di quel che è nonviolenza nella storia, nel pensiero, nella prassi radicale: che è altro da altre nonviolenze; nonviolenza come fondazione di un nuovo liberalismo e - dall'altra parte - quello che diceva adesso Giovanni: nonviolenza come luogo del ghetto, il ghetto radicale. Questo è vero lungo tutta la storia del Partito radicale. Mi ha molto colpito quell'esempio che faceva Angiolo prima, di quel simbolo dei primi anni Sessanta: il Partito radicale, nel mutare di tutto, fermo ad alcuni valori, alcune indicazioni, alcune intuizioni; intorno, poi, il mondo che cambia in modo da rendere addirittura irriconoscibile il contesto, oggi, rispetto a quello che era all'inizio degli anni Se

ssanta; e questi radicali tetragoni, non sclerotici ma tetragoni rispetto all'indicazione. C'è chi dice che la storia ci dà ragione: e io credo che proprio nel momento in cui ci sta dando torto - perché per certi versi ci sta dando torto e continuiamo ad essere in quel ghetto - la storia ci ha dato, e quanto!, ragione; per cui quelle indicazioni e quei valori che erano validi allora sono, più ancora, validi e centrali oggi.

Ecco, se pensiamo alla storia radicale, e credo sia importante rifarsi ai primi anni Sessanta, e se ci riferiamo a quello che diceva Angiolo del rapporto tra liberalismo, cultura, valori, cultura politica (non quella astratta dei libri, ma la cultura politica liberale) e nonviolenza, questo è propriamente il terreno su cui il Partito radicale di Pannella, di Bandinelli, dei fratelli Rendi, di Spadaccia, rompe con la cultura liberale e radicale di allora, e diviene "chiuso nel ghetto": il partito radicale di quei giovani rompe con la grande corrente culturale radicale, liberal-radicale, quella del "Mondo" di Pannunzio, quella dei Salvemini e degli Ernesto Rossi.

Io ricordo lo stupore che ho provato, io abituato a leggere "il Mondo", radicale di cultura, che mi ero formato leggendo "il Mondo", quando per la prima volta mi son trovato fra le mani un bollettino che si chiamava "Sinistra Radicale"... mi ricordo la stupefazione, perché ci trovavo delle cose completamente diverse, in questo bollettino che era fatto da questi, allora poco più che ragazzi, nomi ignoti, mai sentiti nominare da me che pure ero vissuto vicino all'area radicale. La prima reazione, ricordo, fu "ma questi chi sono, che cosa c'entrano col Partito radicale, con quella cultura?!" Eppure quelle cose lontanissime da me le trovavo affascinanti... mi hanno immediatamente affascinato.

Perché la cultura della sinistra democratica liberal-radicale era una cultura al cui interno - se si eccettua il caso, isolato e ghettizzati anch'esso, di Aldo Capitini - i temi della nonviolenza e la fondazione del liberalismo a partire dalla nonviolenza non avevano spazio né legittimità. Era una cultura che aveva i suoi grandi miti storici (e vedremo quanto contano i miti, i modelli di riferimento, proprio nel costruire i riflessi, nel leggere le situazioni) nella Resistenza: in cui c'era l'esaltazione anche del combattere, non della violenza ma del dovere di prendere le armi... c'era la grande tradizione del Partito d'Azione (anche quello del 1943-47, ma soprattutto quello dell'ottocento): l'azione, lì, voleva dire prendere il fucile, l'azione garibaldina contro Cavour; i Garibaldini, la sinistra e i radicali erano quelli che dicevano "guerra subito, insurrezione armata subito"... la tradizione della cultura radicale era di quel tipo. Aggiungiamo un'altra cosa: era proprio, un po' di tutta la cultura di s

inistra, ma anche di quella cultura radicale d'allora, l'irrisione e la contestazione della nonviolenza. O meglio, non del termine nonviolenza in unica parola come diciamo noi, ma "non-violenza" in due parole (cioè il non uso della violenza) della sinistra e in particolare del socialismo e del socialismo riformista, di fronte al fascismo. Quante volte abbiamo letto in libri, di impostazione anche la più varia, che è colpa grave del Socialismo essere stato imbelle e non aver reagito... reagito come? Rispondendo con violenza a violenza, di fronte al Fascismo. Era colpa di questa non-violenza di Turati, di questi imbelli, di questa brava gente, che non aveva reagito organizzando la contro-violenza popolare, democratica.

Intendiamoci, non sto dicendo queste cose in termini di irrisione: ma certamente questi erano i valori. E questo si ricollega a ciò che è stato vero fino a pochi anni fa, se ci riflettete... quando si diceva "riformismo", era quasi una parolaccia: oggi Craxi l'ha riscoperto, ma fino a pochi anni fa non soltanto i comunisti, ma anche fra di noi, anche alcuni dei nostri maggiori, erano contrari a questo riformismo denunciato come imbelle di fronte invece al rigoroso, al forte rivoluzionarismo. E adesso, facendo un salto, adesso che il riformismo è ritornato di moda (perché non c'è più nessuno che adesso non sia riformista, adesso di rivoluzionari non se ne trovano più...) adesso è significativo che nel riscoprire il riformismo e Turati e questi altri, l'unica cosa che non è stata riscoperta e non è entrata nella cultura politica è questo aspetto di cultura davvero nonviolenta, che era proprio del meglio, almeno, di quel riformismo. Quel riformismo che non sapeva tradurre in termini di metodo nonviolento, di in

dicazione nonviolenta in senso nostro, ma tuttavia in alcuni dei suoi esponenti migliori aveva molto chiaro il nesso fondamentale tra mezzi e fini: e c'è l'educarsi a un rapporto di non-violenza (sempre di due parole), di non-sopraffazione, come elemento costitutivo delle finalità socialiste, c'è una religiosità in qualche modo di nonviolenza, di quel riformismo, che non è stata riscoperta.

Tutto questo per dire, per ricordare che la cultura radicale, il radicalismo del nuovo Partito radicale nonviolento, proprio su questo rompeva, e veniva isolato, e veniva chiuso nel ghetto dell'incomprensione rispetto alla stessa cultura radicale del tempo: e qui sta uno dei punti più importanti della storia di questo partito. Negli anni sessanta si aveva l'idea del Partito radicale come un partito organicamente degli intellettuali: il Partito radicale del "mondo" era il partito degli intellettuali, era sociologicamente intellettuale; proprio su questo il nuovo Partito radicale, il nostro, nasce rompendo anche con le proprie radici sociali. C'è una lunga rottura - durata per molto tempo, per decenni - fra il Partito radicale e gli intellettuali come categoria; e uno dei nodi, forse il punto fondamentale su cui questa rottura si è consumata è stato proprio il modo in cui da parte nostra si impostava il nesso tra liberalismo e nonviolenza: per cui quegli intellettuali liberali, di cui Bobbio è il massimo ponte

fice ancora vivente, non capivano il metodo radicale.

E quindi nonviolenza come scelta ghettizzante, in cui ci si sentiva isolati, non capiti, irrisi: da "Quella" parte, e anche dall'altra parte, nell'altro grande filone di cultura politica con cui ci collegavamo; perché la rottura tra il Partito radicale di Pannunzio e quello di Pannella è stata, insieme all'affermazione della scelta nonviolenta, quella della scelta socialista. Oggi se ne è un po' persa traccia, ma la sinistra radicale rifondava il liberalismo radicale dicendosi e proclamandosi socialista: questo partito radicale, i cui membri hanno incominciato a chiamarsi "compagni". Nel Partito di Pannunzio non ci si chiamava compagni... anche qui, quando presi in mano "Sinistra Radicale"... i radicali si chiamano compagni? Ma che cosa c'entra? Perché? Ma nel momento in cui si faceva quella scelta socialista, si andavano a portare nel campo socialista, nell'area culturalmente egemone della società italiana, nella cultura egemone, si andavano a portare questi valori di liberalismo nonviolento: per cui ancor

a una volta, anche lì, si apriva un discorso e ci si trovava di fronte una barriera. Questa è la differenza, che c'è stata nella sorte di quegli altri liberal-democratici che hanno fatto la scelta socialista dopo la fine del Partito d'Azione (i Lombardi, i Foa, che erano Azionisti e poi sono andati nel Partito socialista, qualcuno nel Partito Comunista...) e ci sono entrati, e ci si sono trovati come pesci nell'acqua; mentre noi, che siamo anche noi dalla parte socialista, siamo nella sinistra, non abbiamo nemici a sinistra, vogliamo la rifondazione della Sinistra con tutta la sua forza di rivendicazione socialista, noi che proponevamo questo metodo politico, e proprio perché proponevamo non una teoria ma un metodo, un modo di fare politica, ci siamo trovati anche qui il muro della incomunicabilità.

Quindi, ecco: "questo" metodo di fare politica e di concepire la politica, è quello che ci ha messi in un ghetto, con le infinite difficoltà, ogni volta, anche soltanto per far capire che cosa volevamo, o che cosa volevamo fare, e perché, e come volevamo farlo. C'era la fatica di spiegare, anni per riuscire a farci capire... ci prendevano per "altro", non riuscivano a inquadrarci perché non capivano la nostra lingua: e questa naturalmente è una cosa che pesa, quando si compie un'azione che è comunicazione, quando la politica è agire comunicando, e si è irrisi, non capiti, presi in giro. Il risolino, che poi si traduceva nei modi più plateali, nelle ironie sul Pannella "che poi di notte mangia"... pesa, il sentirsi messi così nel ghetto: ma devo dire che questo isolamento era un elemento di fascino e di forza insieme, era il sentire questa nostra diversità partendo dalla convinzione di essere nel giusto. La convinzione di questa unicità, di questa essenzialità, di questa preziosità del rapporto, che veniva da

lla politica radicale, era poi uno di quegli elementi che consentivano l'entusiasmo, la dedizione, la ricchezza che ha permesso al Partito radicale delle poche decine e poche centinaia di persone di essere ciò che erano, e di riuscire a fare quello che facevano. E uno degli elementi di fascino che si aveva, proprio anche leggendo quei bollettini poveri, fatti in casa, e sentendo i discorsi di Giuliano Rendi - è un nome che va fatto, quando si evocano le nostre radici, è un nome importante nella storia della cultura politica italiana, se è importante l'apporto che il Partito radicale ha dato alla politica italiana - è il senso che si aveva di essere, in Italia, il punto di riferimento e la testa di ponte di una speranza di nuova sinistra. Eravamo il contatto con i pacifisti inglesi, con certe forme di lotta, di gruppi e organizzazioni di minoranze, che erano questo: nuova sinistra; il rapporto con i movimenti beat, questi movimenti pre-sessantottini, gli olandesi, gli inglesi, in qualche caso i tedeschi, gli

americani... e se si va a rileggere il primo Organo del partito radicale transnazionale, quello straordinario organo di stampa che era "Agenzia Radicale" dei primi anni sessanta - nel momento in cui erano in trenta o quaranta ad essere Partito Radicale - si trovava un'agenzia in cui si leggevano alcune cose che quei trenta o i dieci/dodici attivi radicali facevano, ma insieme, nello stesso contesto, si leggevano le notizie (ed era l'unica sede, in Italia, in cui qualcosa del genere accadesse) dell'azione internazionale e trans-nazionale delle nuove sinistre.

Questo è un elemento di fascino straordinario, è una delle ragioni per cui mi sono detto, allora: qui c'è davvero qualche cosa, per cui vale la pena iscriversi ad un partito che non esiste, che forse è a malapena una speranza.

Tutto questo cambia totalmente con il 1968; siamo adesso al ventennale, tutti ne parlano, e il '68 è un importante capitolo della nostra storia, anche della storia radicale: perché il '68 è l'esplosione della nuova sinistra in Italia, e quella cosa lì che era solo in pochi gruppetti, appena punti di riferimento, improvvisamente esplode. Solo che in pochissimo tempo diventa esattamente il contrario delle ragioni per cui noi guardavamo alla nuova sinistra; perché diventa negazione della nonviolenza e contestazione dell'esistente, dello Stato totalizzante, in nome del liberalismo, che era la nostra posizione.

Devo dire che c'è una riflessione importante da fare: il sessantotto della trasgressione, quella rivoluzione che il sessantotto realizza, che è una rivoluzione culturale profonda... (dal '68 in poi tutto è cambiato, perfino il modo di vestire; ci sono soltanto io, che continuo a vestirmi nello stesso modo)... bene, il sessantotto è trasgressione e non è disobbedienza civile, è esattamente il contrario della disobbedienza civile. Perché la disobbedienza civile come noi la intendiamo e cerchiamo di praticarla, è disobbedienza per affermare la legge; nel momento in cui il radicale nonviolento disobbedisce, egli afferma la sacralità della legge, richiama il valore della legge, dicendo "io violo questa legge che non accetto, ma - proprio perché è legge - vi chiedo di applicarla. Questo è il valore, in questo affermo la necessità di regole, di Diritto."

Mi ricordo l'occupazione delle aule nelle scuole, nell'Università. Io ho partecipato alla prima occupazione alla Statale di Milano, che è stata l'occupazione di un'aula per un'ora. Abbiamo rotto la serratura... sì, abbiamo rotto la serratura! Ma, proprio per questo, ho immediatamente organizzato una delegazione e siamo andati dal Rettore ad autodenunciarci per iscritto. Vi dico questo, perché credo che una cosa così, nella storia del '68 milanese, non è mai più successa: è successo il contrario, la violazione della legge è diventata forzatura della legge; è diventata rapporto di forza che tendeva a negare, a sotterrare, a cancellare, la legge. Se ci pensate, e se andate a leggere quel libro - esemplare del peggio del '68 - che è il libro di Mario Capanna... il valore che si affermava era che occupare è lecito, è un diritto: il sessantotto realizzava un rapporto di forza contro la legge; e, di fronte alle poche volte che qualche autorità voleva applicare la legge, la reazione era lo scandalo: "ma come, non vi

vergognate? fascisti!".

E senz'altro anche le democrazie popolari sono l'esaltazione finale di questo tipo di democrazia, di una certa democrazia, che appunto cancella - con la forza dei fatti compiuti - e sostituisce il puro rapporto di forza alle dimensioni della legge. Quindi, il contratto della nonviolenza. E in questo i radicali nonviolenti, ancora una volta, sono stati spazzati via, cancellati, irrisi: eravamo ridicoli, con le nostre cose, in quel contesto. Quando c'è entusiasmo per questa cultura, per questo modo di fare politica; quando tutta la cultura radicale e gli intellettuali radicali che non erano più nel Partito radicale, ma che erano storia e tradizione radicale, si sono trovati a plaudire a "questa" democrazia, noi veramente eravamo ridicoli con le nostre... "cosine"... che poi erano il divorzio, su cui alla fine tutti si son visti costretti a montare: ma ricordo che eravamo in Corso di Porta Vigentina 15/a, e si facevano i telegrammi per ottenere la riunione della Commissione Giustizia, e intanto di là c'era la

festa della rivoluzione... eravamo penosi! Ma questo continuava ad essere la nostra forza, questo essere isolati, questo essere in rottura. E poi c'è anche un altro dato: è bene, credo, ricostruire le tappe...

Il sessantotto è anche l'anno di una grande, storica sconfitta della nonviolenza. La Cecoslovacchia: lì c'è stato uno dei pochi esempi nella storia europea di grande resistenza nonviolenta; la resistenza all'invasione sovietica è stata esemplarmente nonviolenta, e si è risolta in una sconfitta irrimediabile. E quindi anche quella è stata una fase storica in cui i due modelli - ma in realtà non c'è stato nemmeno un significativo dibattito - si sono confrontati: una sconfitta della nonviolenza di fronte a cui c'era invece l'esempio della rivoluzione culturale in Cina, trionfante, e il Vietnam glorioso; e tutta la cultura democratica si è appiattita su questo tipo di valori. Pensate per esempio ad una figura esemplare, di questo, che appunto fa oggi la prefazione al libro di Capanna dicendo che è l'uomo politico più simpatico... Camilla Cederna, tipica esponente della cultura radicale, che è stata tante volte vicina a noi, alle nostre cose, anche dopo lo scioglimento di quel Partito radicale in cui l'Espresso s

tava. Il fascino della vittoria della violenza rivoluzionaria, come fondante di democrazia: questo è stato il sessantotto.

E poi ci sono le pagine dell'affermazione radicale: perché gli anni settanta sono il lento - ma sicuro - avanzare, "sfrondare" dei radicali, a partire dalla grande tappa fondamentale che erano stati i grandi digiuni di Pannella nei primi anni settanta, che hanno comportato per la prima volta la visibilità del segno nonviolento, la dignità, la forza della nonviolenza come tale, la riconoscibilità dell'impatto della nonviolenza con le istituzioni, anche nel confronto e nella messa in crisi della cultura liberal-radicale degli altri. Quei digiuni di Pannella a cui ha corrisposto l'apertura di un dibattito, inadeguato quanto si vuole, ma in cui interveniva Giovanni Spadolini, in cui intervenivano alcuni dei grandi intellettuali liberali sul Corriere della Sera i quali prendevano atto, magari per non capirla, ma prendevano atto e si misuravano con la nonviolenza come fondazione di liberalismo. Questa è una pagina che è proprio una pagina di storia: e non per niente proprio in quel contesto si situa il rapporto f

ra Pasolini e il Partito Radicale e i radicali: con quegli articoli straordinari contro la trasgressione sessantottista, contro quella disobbedienza che era il contrario della disobbedienza civile del nonviolento, Pasolini affermava il valore della "nuova obbedienza", citando il caso di quel poliziotto che, per essere venuto meno al dovere di sorvegliare un carcerato che poi è fuggito, disperato della propria negligenza, si uccide. Questa è la "nuova obbedienza" di un ghettizzato, di un emarginato, da questa cultura prevalente: ed è la definizione di uno dei due aspetti della nonviolenza, perché la nonviolenza è in realtà molto spesso obbedienza, e non sempre la nonviolenza è disobbedienza civile.

Nella nonviolenza, infatti, c'è il momento della disobbedienza civile (quello che fuma la sigaretta di hashish e si autodenuncia per andare in galera): ma quello che fa un digiuno per chiedere al Parlamento di votare nei tempi dovuti quella riforma, o quella legge, (che deve votare, se vuol rispettare il proprio regolamento) costui non disobbedisce proprio a nulla, e questa è obbedienza alla legge.

E proprio in questa fase si incarna il dibattito politico-culturale - attraverso principalmente Pasolini, ma a partire dalla nonviolenza radicale - e il valore della nonviolenza è poi accettato o respinto, ma ha smesso di essere cosa ridicola e ridicolizzabile: e, questo, nel momento poi in cui nasceva il terrorismo, cominciava la stagione del terrorismo con tutto quello che ne seguì e cioè l'esito ultimo di "quell'altra versione" della nuova sinistra.

E, da qui, lentamente, si è passati ad una situazione che, se ci pensate, è l'opposto speculare di quella degli anni sessanta: perché le culture di sinistra, un tempo egemoni, che a partire dai loro valori irridevano alla nonviolenza radicale sono morte, sparite, sono state consumate dalla sconfitta del sessantotto e dei suoi epigoni.

Oggi, quando le Brigate Rosse sono cinquanta, cento persone, tutti dicono che non hanno alcun consenso, non esistono più, oggi di rivoluzione non parla più nessuno, nemmeno Capanna nel suo libro; Capanna che - pur solidale con il Capanna d'allora - ma senza nessuna riflessione non dico autocritica ma nuova, diversa... nemmeno lui, oggi, parla di rivoluzione.

Anche il socialismo è sparito: è finita, è morta, quella cultura. Liberali, oggi, sono tutti: a sinistra, tutti liberali; nel partito comunista, non parliamo poi del partito socialista, tutti liberali. Non dico questo in termini polemici o irrisori, perché è un fatto di enorme importanza questo riconoscersi tutti nei valori liberali; e c'è anche un generale riconoscimento della nonviolenza: se ricordate quel testo davvero molto importante che è l'intervista rilasciata da Occhetto a Repubblica qualche tempo fa, lì c'è la rifondazione teorica del Partito Comunista come non era mai stato, in termini che non erano mai stati proposti da altri in tutta la storia dei partiti comunisti, rifiutando tutto intero il patrimonio ideale della Terza Internazionale per rifondare (sembra davvero di leggere parole "nostre") il Partito Comunista sul nesso fra democrazia e nonviolenza.

Ma proprio qui, in realtà era la proposta, attraverso la nonviolenza, di una rifondazione complessiva della politica. Aveva ragione Giovanni Negri, nel dire che probabilmente l'inizio della nuova fase di difficoltà in cui ci troviamo è la sconfitta sulla battaglia nonviolenta contro lo sterminio per fame: ma non sono completamente d'accordo con lui che la cosa fondamentale fosse la fondazione di un nuovo rapporto fra politica estera e politica interna. La vittoria sulla fame era tale, se quello era il momento in cui c'era rifondazione generale della politica, a partire dalla rivoluzione della nonviolenza; quanto al nesso tra politica estera e politica interna, ecco questo è il vero del transnazionale: il rifiuto della categoria di "politica estera". Quella sconfitta, cioè il non-raggiungimento dell'obiettivo di una rifondazione della politica, ha portato al fatto che ha prevalso questa uniformità nel riconoscimento di liberalismo e nonviolenza: il termine è accettato, ma nel senso del "non uso di violenza",

la non-violenza in due distinte parole. Ma proprio il fatto che la non-violenza intesa in questo senso è universalmente accettata, è ciò che rende ancora una volta irriconoscibile la nostra, la vera nonviolenza, e la rende per noi più difficile: per certi versi era più facile quando eravamo nel ghetto, chiusi ed isolati, non riconosciuti se non da noi stessi, e questo era ciò che ci dava forza... Adesso, l'essere calati in un contesto che sulla carta riconosce ed accetta i nostri valori, finisce con l'omologare noi ai valori degli altri, ci rende più difficile essere conseguenti con noi stessi e con le nostre premesse. Molto più di quello che non fosse un tempo, i nostri nemici rischiamo di diventare noi, quando veniamo occupati da una cultura altrui che è profondamente diversa perché non fonda il nuovo liberalismo come luogo delle speranze dei valori di libertà, ma liberalismo come tecnica di governo per tornare a categorie che un tempo si usavano, invece che liberalismo come religione della libertà.

Oggi sono tutti liberali, ma nei valori di questo liberalismo non si riescono a caricare le grandi speranze: non riesce ad essere l'affermazione dei valori di libertà e di legge e di Diritto, non riesce ad essere il luogo in cui si caricano le grandi tensioni, le grandi e le forti tensioni politiche. E questo è il nuovo ghetto in cui noi rischiamo di essere travolti, il ghetto della omologazione che ci cancella anche da noi stessi, per cui facciamo fatica anche ad essere noi stessi.

Vorrei concludere dicendo che però a me pare di cogliere i segni di un nuovo mutamento epocale, come è stato quello del '68, un nuovo sessantotto alla rovescia, un sessantotto nero, di cui il successo di Le Pen in Francia è il segno. Nel contesto del mondo di oggi, con questo Occidente assediato, con la crisi demografica dell'occidente mentre il Terzo mondo dilaga, e con la paura che occupa, (perché questo è il riflesso profondo nel nostro mondo occidentale) si rischia di conoscere un profondo sommovimento come è stato quello del '68; non sto dicendo che sta avanzando un nuovo Nazismo - può anche essere, io non lo so - ma certo si rischia un sommovimento di cui appunto il successo di Le Pen è un'avanguardia. C'è stato un sondaggio, non ricordo se in Norvegia o in Danimarca, da cui risulta che un partito analogo a quello di Le Pen, se ci fossero elezioni, oggi prenderebbe il 25%, ma poi i segni li vediamo dappertutto, negli Stati Uniti dove avanza il protezionismo cioè il segno di una chiusura, la forza come

"difesa dall'altro",. In nuce è il rifiuto del diritto della persona come tale: quindi non è il nazionalismo, ma qualcosa ancora peggiore di quello che era il vecchio nazionalismo, è una figura nuova, la figura della tragedia di un mondo che si sente assediato e che risponde uccidendo se stesso... questo è il Lepenismo. Di fronte al quale sta il transnazionale, che è proprio l'anticipazione, ancora una volta l'intuizione, in controcorrente: è vero che il transnazionale può diventare di moda, perché è l'attualità, e nello stesso tempo è il controcorrente; qui il transnazionale è la negazione della distinzione fra politica estera e politica interna, è l'affermazione della politica dei valori liberali, della garanzia dei diritti della persona, a partire dal diritto alla vita, comunque e ovunque.

Il problema non è "Europa perché altrimenti siamo deboli", il problema è l'Europa come momento della conquista di questa dimensione altra e nuova della politica, ed è qui che si gioca la nostra capacità di tornare ad essere fino in fondo noi stessi.

Io non credo che il problema risieda nel fatto che il transnazionale è nonviolento e il non-transnazionale non è nonviolento...; il problema è di riuscire a riconquistare la nostra capacità di essere noi stessi, contro questo pericolo di omologazione: proprio come diceva Bandinelli, non voglio aggiungere altro.

Se conquistiamo questo, per forza di cose conquistiamo la dimensione transnazionale: perché non è possibile oggi, con la chiarezza teorica che abbiamo acquisito, tornare ad essere davvero Partito radicale, senza diventare anche Partito radicale transnazionale.

Chiedo scusa, davvero, di questo diluvio di parole.

 
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