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Taradash Marco - 29 aprile 1988
Nonviolenza come metodo della scoperta politica
Marco Taradash

SOMMARIO: Il Pr oggi non riesce a organizzare nonviolenza. La difficoltà è forse quella di non riuscire a identificare l'antagonista di fronte al quale porsi: i nonviolenti hanno di fronte oggi una società frantumata, confusa, una società in cui c'è una crisi della volontà politica. Oggi nel ghetto non sono i nonviolenti, ma la società, la storia politica italiana, perché è entrato in crisi il rapporto fra l'etica e la politica, fra la coscienza e il vivere la politica. In questo quadro la nonviolenza è il metodo della scoperta politica, dell'andare oltre, dell'affermazione della coscienza nelle istituzioni, dell'affermazione della verità, senza cadere nel fanatismo.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza, Roma 29-30 aprile 1988)

Intervengo molto brevemente, per raccogliere alcune delle suggestioni che sono venute dal dibattito, ed anche per ringraziare in modo costruttivo, per quanto sia possibile, chi ha inventato questa riunione che credo anch'io molto importante: perché forse il Partito radicale oggi è come un anello, e un anello può essere un cerchio d'oro, ma può anche essere un vuoto cerchiato d'oro; forse in questo momento la nonviolenza, per il Partito radicale, è proprio questo vuoto cerchiato dalle azioni politiche del Partito radicale, ma che è un vuoto, è una mancanza che si avverte nella vicenda politica del Partito radicale, perché il Partito radicale non riesce a organizzare nonviolenza e si trova a parlare con difficoltà di nonviolenza, nel momento in cui l'organizzazione della nonviolenza - che è poi il modo migliore di parlare di nonviolenza - è in difficoltà.

Io vorrei partire da due punti di disaccordo con alcuni degli interventi che mi hanno preceduto. Uno con Emma Bonino, quando diceva che Gandhi è riuscito ad essere Gandhi perché di fronte a lui c'era l'impero britannico, cioè c'era un sistema, sia pur violento in quel momento, ma un sistema di leggi, un sistema di diritto, un sistema di regole; ecco, io non credo che sia per questo - l'ho sentito dire spesso, che è per questo che Gandhi ha avuto successo - ma io sarei terrorizzato se questo fosse, perché allora significherebbe che la nonviolenza in realtà non è possibile, in quanto la "buona sorte" di avere di fronte i britannici può capitare una volta nella vita, mentre può capitare di avere invece di fronte Hitler o Stalin e, che so... De Mita, al limite. De Mita, noi abbiamo di fronte, abbiamo di fronte i governanti di questa Europa, gli economisti di questa Europa, gli attori dell'economia e della politica di questa Europa e di questo pianeta, non l'impero britannico.

Forse Gandhi è stato avvantaggiato dall'aver di fronte un impero, forse questo sì, cioè aveva di fronte un antagonista molto ben delineato, e la difficoltà dei nonviolenti è forse quella, oggi, di non riuscire - all'interno di questa Società che si vuole complessa, e che lo è in realtà, ma che è frammentata, confusa, frantumata - ad identificare effettivamente l'antagonista di fronte al quale porsi, in termini di azione e di organizzazione nonviolenta. Perché oggi la Società è frammentata nelle professioni, è frammentata nell'intelligenza delle cose, nella sua intellettualità; uno dei nostri problemi, di volta in volta, rispetto a quelle che sono le nostre iniziative politiche, credo sia proprio quello di individuare l'antagonista, e noi abbiamo cercato sempre di ri-codificare un impero possibile chiamandolo "il mondo dell'informazione", perché in realtà è quello il cemento, l'elemento unificante della Società nella quale noi ci troviamo a lottare e ad agire politicamente: e, per questo, credo che giustamen

te la gran parte delle azioni nonviolente radicali sia stata orientata in quella direzione.

Ma tanto più, se la realtà è questa, se è una realtà non di Impero né di britanni, ma è una realtà frantumata, tanto più credo che la nonviolenza sia da riscoprire, da reinventare e da ritrovare: perché oggi assistiamo nel mondo intero, o per lo meno nella parte del mondo che ci interessa di più - quella democratica - ad una crisi della volontà politica, del primato della politica e della capacità di tradurre in politica l'elemento di coscienza e di trasformazione della realtà. In verità oggi la Società pare procedere per suoi impulsi, per suoi meccanismi, e l'unico ruolo dello Stato e della politica sembra essere quello di aggiustare i vari meccanismi fra loro e cercare di fare in modo che non cigolino troppo e non entrino in contraddizione. E credo che questo sia in realtà un accettare una situazione che non è di democrazia, che non ci porta verso la democrazia, verso una maggiore democrazia in cui certi valori - quelli della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità, che vale la pena di richiamare a fo

ndamento della Società democratica e liberale - vengano promossi: questi valori invece deperiscono gradualmente, all'interno dei meccanismi automatici delle Società deregolate. Credo anche che il problema della nonviolenza, il nostro problema, è proprio quello di riuscire a riportare la politica al centro dell'azione politica: cosa che oggi non è.

Il secondo punto in cui sono in parziale disaccordo con qualcuno che è intervenuto prima è la dove si dice che noi siamo in un ghetto, o la nonviolenza è in un ghetto; no, io credo che nel ghetto ci sia la coscienza, cioè il rapporto tra la coscienza e la politica.

E questo credo che sia il vero e reale ghetto, ed è il ghetto della società politica italiana, della storia politica italiana, da Croce ai liberal-socialisti e ai radicali: è la coscienza, è il rapporto fra l'etica e la politica, tra la coscienza e il vivere la politica e vivere anche l'economia, che è entrato in crisi: e trionfa il machiavellismo quando si dà una dignità anche culturale, trionfa l'indifferenza, trionfa l'interesse, trionfa la corporazione. E, come diceva giustamente Angiolo prima, la coscienza, per un radicale e quindi per un nonviolento - perché credo che se un radicale non sa essere nonviolento, in realtà la sua arma di lotta politica è spuntata - non è un dato dell'intimità del singolo magari nel suo rapporto con Dio quando va bene, ma con il prete molto più spesso, ma è il vortice fra l'individuale e il sociale, dentro al quale soltanto si possono creare nuove leggi.

E allora la nonviolenza è effettivamente, come dice giustissimamente il tema di questo Convegno, un metodo; sono delle regole, è il metodo, io direi, della scoperta politica. Così come altri hanno descritto il metodo della scoperta scientifica, credo che la nonviolenza oggi nella società democratica, nella società contemporanea, sia il metodo della scoperta politica: della scoperta, dell'invenzione, dell'andare oltre, del non adagiarsi dentro quello che è già conquistato e che si consuma invece di rinnovarsi, invece che nutrirsi di se stesso: sono le regole dell'affermazione della coscienza nella vita sociale e nelle istituzioni; ed è quindi anche il metodo della affermazione della verità, perché io credo che non si possa eliminare - e nel pensiero Gandhiano e nella nostra azione quotidiana - il rapporto con la verità, e coscienza significa anche affermazione della verità.

Ora, nonviolenza credo che sia anche una risposta al fanatismo, poiché noi sappiamo benissimo che se la verità intesa come valore assoluto e non come verità, nella scoperta scientifica del fenomeno e nella vita invece politica e morale, verità della coscienza e quindi verità provvisoria - però con convinzione assoluta rispetto al provvisorio - se questa verità non si afferma attraverso il metodo e le regole della nonviolenza, si determina immediatamente il rischio del fanatismo, il rischio del totalitarismo e della distruzione dell'avversario in quanto ingiusto, in quanto non-veritiero; ma se noi non accettiamo lo scetticismo riformista, diciamo così... ecco, scusatemi, io penso ad un dibattito che ho avuto pochi giorni fa con Rossella Artioli - socialista - sul problema del proibizionismo. Di fronte alla nostra impostazione del problema, lei diceva: "forse avete ragione, però l'opinione pubblica non è matura abbastanza per comprendere quello che voi dite, i partiti politici non sono all'altezza di lavorare

su questa ipotesi, e allora noi - da politici, e quindi da mediatori - dobbiamo trovare delle soluzioni possibili. Anche perché voi dite queste cose, però spero che non abbiate la sicurezza, la convinzione di essere nel vero, nel momento in cui fate questa proposta".

Così diceva Rossella Artioli e io dicevo: "guarda che noi, invece, l'abbiamo proprio, questa convinzione di essere nel vero: perché la nostra posizione non è quella del Cardinale Bellarmino che magari dà ragione a Galileo, però dice che i tempi non sono maturi... la nostra verità è quella di Galileo, che di fronte all'oscurantismo dell'opinione pubblica afferma "eppur si muove!" e il dato reale vero è quello, e non altro. E noi abbiamo la convinzione e cerchiamo di avere la forza di affermare la nostra verità contro il tuo scetticismo, perché il tuo scetticismo in realtà non riesce a far progredire né la verità, né la Società...".Però, appunto, se c'è dentro di noi questa consapevolezza di essere nel giusto, nel momento in cui operiamo politicamente, di essere dalla parte della verità, di avere dentro di noi la verità nel momento in cui ci offriamo sul terreno dello scontro politico: se non avessimo al tempo stesso la nonviolenza, dove arriveremmo? Arriveremmo, io credo, al Komeinismo, al Nazismo, non al Le

penismo certo, perché appunto come diceva Lorenzo siamo in un'altra dimensione delle cose; il Lepenismo nasce dalla negazione persino del valore più negativo, nasce dal rifiuto, dall'indifferenza, dall'egoismo, dalla negazione in sé dell'affermazione di qualsiasi valore.

Allora la nonviolenza credo che si costruisca nel rapporto tra la morale e la politica, e sia come un Giano rovesciato: mentre noi nella vicenda politica "normale" vediamo la morale e la politica che guardano da due parti opposte, questo deve essere un Giano monofronte, deve essere un guardarsi continuamente della morale e della politica, della metodologia morale e della metodologia politica e della sua capacità di tradursi in azione.

Ma se mancano le regole, se manca la capacità di organizzare le pratiche, allora tutto questo rimane un discorso astratto, un discorso che non produce se non una testimonianza, come purtroppo tante volte è stato nella vicenda politica di questo paese: grandi testimonianze, ma non la capacità di tradurre in forza politica la nonviolenza e il rapporto tra coscienza e politica, che le migliori persone di questo paese avevano e tentavano di esprimere, magari riducendosi soltanto a scrivere libri... bei libri, ma inutili in realtà, perché si rivolgevano a lettori che non hanno dentro di sé questa cultura e questa capacità di tradurre la vita della coscienza nella vita della politica.

Ecco, io chiudo, soltanto dicendo che nel nostro modo di far politica e nel nostro desiderio - se non altro nel nostro desiderio - di nonviolenza, c'è quello che non c'è nel fanatismo: c'è la tolleranza, e c'è l'amore della diversità (non il "rispetto", ma l'amore, della diversità) c'è il giusto della responsabilità individuale.

Io lo vedo ad esempio mentre in questo periodo, con i compagni del Coordinamento Radicale Antiproibizionista, stiamo organizzando e lavorando sul tema della proibizione dell'uso delle droghe nel nostro Paese: c'è il rifiuto assoluto del diverso in quanto antisociale, in quanto "drogato, tossicodipendente", eccetera, e al tempo stesso, altra faccia della medaglia, c'è il rifiuto assoluto della responsabilità individuale; e quindi l'unico meccanismo che si pretende possa funzionare (e mi ha preoccupato l'articolo di Bobbio dell'altro giorno sulla Stampa di Torino, che affermava proprio questo) è il ciclo "coercizione/sanzione", per cui soltanto questo viene identificato come il meccanismo che può consentire l'applicazione di certi valori nella realtà.

Ecco, qui c'è proprio una rivoluzione culturale che noi dobbiamo continuare a richiamare e continuare a cercare di far prevalere : quella della responsabilità individuale e della capacità dei singoli, e di tutti, di vivere dentro il sociale, non all'interno del meccanismo della sanzione e della coercizione, ma invece fondandosi sui valori della tolleranza della diversità e quindi della responsabilità individuale. Perché giustamente si diceva che nonviolenza non è trasgressione, nonviolenza in realtà sono regole, ma è anche disciplina: ed è una disciplina che è molto spesso più serrata, più dura, più cruda - o dovrebbe esserlo, se ne fossimo capaci - di quella che viene richiesta attraverso i meccanismi della coercizione. Noi possiamo, sì, violare la legge, ma proprio perché affermiamo la coscienza; noi violiamo la legge per far valere la legge, per costruire un'altra legge. Questo è ciò che ci differenzia da tutti gli altri: l'accettazione passiva della legge non può rientrare nella nostra vicenda politica;

ed è per questo che non è la violenza il contrario, la negazione della nonviolenza. Violenza/nonviolenza, è un'asta che ha due punte, e la parte dell'asta con la violenza corrisponde in realtà al fanatismo, all'integralismo, al totalitarismo, ma un'asta impugnata da persone che vivono - nella politica - la coscienza è altro: noi impugnamo questa asta e la dirigiamo nella direzione opposta, che è poi non soltanto quella dell'avversario che vogliamo "convincere, non vincere", ma anche nella nostra stessa direzione.

Ecco perché, per l'appunto, il discorso che si faceva prima, del "sacrificio": non so se sacrificio sia il termine giusto, ma certo nel momento dell'affermazione della nonviolenza non può non esserci un momento del "dare corpo", e del subire per primi quella nonviolenza che noi imponiamo agli altri. Grazie.

 
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