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Tirman John - 1 ottobre 1988
OPZIONI DI DISARMO UNILATERALE
di John Tirman

SOMMARIO: L'unilateralismo comprende un vasto insieme di possibili azioni; il saggio che segue prende in considerazione tre concezioni di azione unilaterale e le loro possibili conseguenze: in primo luogo le misure puramente unilaterali, quelle adottate cioè da un paese con l'intento di mantenerle indipendentemente dalla reazione di altri paesi; ci sono poi le iniziative prese e portate avanti nel caso in cui l'avversario contraccambi; infine c'è chi chiede il rallentamento e il riorientamento dello sviluppo di nuove tecnologie. L'Autore analizza le esperienze già fatte, nel mondo intero, di misure unilaterali e, alla luce di queste esperienze, analizza la situazione e le prospettive future per l'Europa e l'Italia in particolare.

(Irdisp - Quale disarmo - Franco Angeli editore - Milano - ottobre 1988)

1. Introduzione

Sin dall'inizio della competizione militare nucleare tra l'Unione Sovietica e le maggiori potenze dell'Alleanza atlantica, sono stati fatti tentativi per contenere, e invertire, la tendenza al continuo inasprimento della corsa al riarmo. Questi sforzi per il controllo degli armamenti sono allo stesso tempo riusciti e falliti: sono riusciti a raggiungere alcuni accordi importanti; hanno fallito nel contenere il costante aumento delle armi nucleari, così come di quelle convenzionali più sofisticate e letali. Gli accordi fondamentali sulla limitazione degli armamenti includono il 'Partial Test Ban Treaty' (PTBT; bando parziale agli esperimenti nucleari) del 1963, il Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP) del 1970, i due trattati SALT sulla limitazione delle armi strategiche e l' 'Anti-Ballistic Missile treaty' (ABM; trattato sui sistemi antibalistici), del 1972.

Tuttavia, durante il periodo in cui il processo di controllo degli armamenti era nella fase più fervida e promettente, gli arsenali nucleari strategici degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica nell'insieme sono quasi triplicati. Negli anni '80, un decennio in cui il processo di controllo degli armamenti è stato fortemente ostacolato, se non completamente bloccato, sono sorte nuove minacce alla pace e alla stabilità. Lo schieramento in Europa di nuove forze nucleari di teatro estremamente efficaci; l'avvio di ambiziosi programmi di modernizzazione strategica negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna; e la 'Strategic Defense Initiative' (SDI; iniziativa di difesa strategica) americana, rappresentano tre degli sviluppi più importanti avvenuti in occidente - tutti presentati come risposte a provocazioni dell'Urss - che non sono stati, sino ad ora, influenzati dagli sforzi per il controllo degli armamenti.

Gli incostanti negoziati tra le superpotenze sulle forze nucleari strategiche e di teatro non sembrano promettere di più nell'estate del 1986 (1) che in ogni altro momento del periodo successivo all'invasione sovietica dell'Afghanistan - la cosiddetta era post-distensione. Altri negoziati importanti - per esempio quelli che mirano a fermare i test nucleari e le armi anti-satellite - sono stati rinviati 'sine die'. E' facile attribuire questi sconfortanti risultati all'innata avversione dell'amministrazione Reagan al controllo degli armamenti, oppure ai cambiamenti nella dirigenza sovietica o ai governi un po' più conservatori in Europa occidentale. Qualsiasi la causa, il processo dell' 'arms control' è in pessimo stato (2).

Ciò che molti esperti in questo campo cominciano a pensare è che sia la dinamica stessa dei negoziati bilaterali sugli armamenti ad essere esaurita. Ringiovanire il processo, renderlo più efficace e significativo appare a molti un tentativo necessario quanto senza speranza. Vanno comunque create nuove forme di limitazione degli armamenti, pena il concretizzarsi dello spettro di una corsa al riarmo senza fine, con tutte le sue ovvie e gravose conseguenze. Ma che tipo di innovazione è possibile?

Un approccio in particolare merita attente riflessioni e azioni: l'unilateralismo.

In questo volume verranno esaminate varie possibilità di iniziative unilaterali di controllo degli armamenti in alternativa o in aggiunta al processo tradizionale di 'arms control'.

L'unilateralismo, infatti, comprende un vasto insieme di possibili azioni: dal completo disarmo ad aggiustamenti nella dottrina; da un cambiamento di priorità nello sviluppo tecnologico al miglioramento dei sistemi di comando e controllo che prevengono l'uso accidentale e non autorizzato delle armi. Ogni concetto di cosa possa e debba essere l'unilateralismo implica comunque un'azione intrapresa da una nazione per ridurre o controllare gli armamenti, in particolare quelli nucleari. Sebbene in questo capitolo vengano discusse possibili iniziative unilaterali da parte degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, nel resto del libro sarà rivolta ancor più attenzione alla situazione in Europa.

L'unilateralismo come idea affonda probabilmente le sue radici nella tradizionale convinzione pacifista che la guerra possa e debba essere evitata col semplice rifiuto a prendervi parte. La tradizione è antica, ma è stata esemplificata al meglio nell'occidente moderno dai Quaccheri e da gruppi religiosi con inclinazioni simili. Tra le due guerre mondiali del ventesimo secolo, il pacifismo e la resistenza alla guerra tendevano a derivare da convinzioni ideologiche di base o dall'analisi, soprattutto marxista, che considerava le guerre causate dall'esistenza delle classi. L'azione pertanto tendeva ad essere individuale, in accordo ai dettami della coscienza e della fede, oppure organizzate, da una chiesa - come nel caso dei Quaccheri - o da un gruppo politico tipo i marxisti o gli anarchici.

In entrambi i casi, comunque, l'azione prescritta si limitava in gran parte al rifiuto a partecipare. Malgrado l'analisi marxista considerasse la guerra mondiale e il meccanismo della guerra come caratteristiche del capitalismo, la nozione del ritiro dalla guerra o di rifiuto a partecipare veniva ancora vista principalmente come una forma di protesta individuale - cioè non fare il soldato - oppure interrompere la produzione di mezzi bellici. Nei casi estremi in cui un paese venisse invaso od occupato da una forza ostile come il nazismo, le risposte ovvie erano la resistenza nonviolenta e la non-cooperazione.

L'evoluzione dal puro pacifismo alla versione più attuale del controllo degli armamenti e del disarmo unilaterale è risultata probabilmente dallo sviluppo degli arsenali nucleari: l'esistenza di tali armi ebbe un effetto così dirompente che esse divennero il principale centro di attenzione. Il controllo degli armamenti cominciò ad essere una risposta possibile. Un'altra era il disarmo unilaterale. Negli anni '50 questo lieve ma importante spostamento d'accento - dal rifiuto individuale all'eliminazione di sistemi d'arma - risultava evidente nel lavoro di C. Wright Mills, A.J. Muste ed altri (3). Da allora l'idea si è sovrapposta in larga misura col controllo degli armamenti convenzionali, ma i processi che portano a questa sovrapposizione sono alquanto differenti: il primo, quello dei pacifisti, è un insieme di impegno morale alla nonviolenza e di rifiuto della guerra come strumento di governo; il secondo, quello dei teorici e dei tecnici di strategia, risulta dalla frustrazione derivante dai limiti politici

imposti ai negoziati bilaterali (4). Queste origini diverse di formule che appaiono sotto la stessa bandiera dell'unilateralismo rendono conto della vasta gamma di potenziali iniziative, come anche di una certa tensione interna fra gli stessi sostenitori.

Forse a causa della tradizione pacifista e del suo ruolo di opposizione alla cultura occidentale del militarismo, la visione popolare attuale del concetto di unilateralismo è quella di una irrealistica pacificazione: alla base dell'unilateralismo non ci sarebbe altro che una preferenza emotiva per la pace - a qualunque prezzo - senza alcun riguardo per la sicurezza. Tali caricature sono fuorvianti e ingiuste. Si può nello stesso tempo domandare una difesa nazionale forte e proporre misure unilaterali abbastanza drastiche. I valori che accompagnano i programmi unilateralisti meritano comunque di essere ricordati, per quanto brevemente, sia per ribattere agli scettici (che insisteranno sul fatto che l'unilateralismo è, in primo luogo, anti-difensivo) sia per fornire uno schema secondo il quale le singole proposte di azione unilaterale possano essere giudicate.

Seguendo un insieme di criteri simili a quelli seguiti nel 1983 dall' 'Alternative Defence Commission' in Gran Bretagna (5), si possono individuare almeno sette obiettivi di difesa. Sono praticamente tutti autoevidenti: a) prevenire una guerra nucleare; b) prevenire invasioni ed occupazioni; c) difendere valori e diritti umani; d) adempiere alle responsabilità di difendere gli alleati; e) resistere alle minacce interne; f) contribuire alla sicurezza collettiva globale e g) tenere conto di considerazioni economiche.

Solo i primi due punti sono quasi al di sopra di obiezioni. Tutti gli altri hanno una certa ambiguità o applicazioni estreme che possono essere dannose. Naturalmente sui mezzi per raggiungere tali fini si può invece discutere all'infinito. Nel loro insieme, comunque, tutti i punti citati hanno un comune filo conduttore, noto agli europei occidentali e agli americani. Con l'aumento della capacità di catastrofica distruzione, l'evitare una guerra nucleare è generalmente considerato lo scopo principale del controllo degli armamenti, anche se la crescente sofisticazione degli armamenti non nucleari è causa di nuovo allarme. Gli altri criteri riflettono l'accettazione della sovranità nazionale sia come mezzo che come fine. Ma tengono pure conto del fatto che alcuni principi largamente accettati - in particolare i diritti umani e la sicurezza globale - vanno al di là di un'angusta concezione dell'esercizio della sovranità. C'è anche uno sforzo di flessibilità in queste norme: si deve tener conto dei costi e degli

interessi economici e si devono considerare gli obblighi derivanti dalle alleanze.

Quali sono i tipi di azione unilaterale possibili all'interno di questa tradizione e di questa ampia definizione di valori?

Qualunque cosa possa essere descritta col termine "disarmo" è virtualmente inglobabile nell'agenda dell'unilateralismo. In questo capitolo, tuttavia, saranno prese in considerazione tre concezioni di azione unilaterale e le loro possibili conseguenze. Tutti i diversi tipi di azione potranno così essere generalmente classificati in una di queste tre categorie.

In primo luogo ci sono le misure puramente unilaterali - quelle adottate da un paese con l'intento di mantenerle indipendentemente dalla reazione di altri paesi, siano essi avversari o alleati. In questo ambito si possono immaginare cambiamenti nelle forze e nelle strategie che eliminino armamenti destabilizzanti e dottrine provocatorie. Un secondo approccio considera iniziative prese e portate avanti solo nel caso in cui l'avversario contraccambi; ridurre gli arsenali strategici probabilmente richiederebbe questo tipo di azione. Viene detta "unilaterale" nel senso che lo stimolo alla riduzione proviene dall'iniziativa di un paese, al di fuori degli schemi tradizionali del controllo degli armamenti. Il terzo tipo di azione propone il rallentamento e il riorientamento dello sviluppo di nuove tecnologie. Il modo più pratico di farlo è quello di dichiarare una moratoria dei test dei nuovi sistemi d'arma destabilizzanti, di nuovo a condizione che i sovietici limitino in modo analogo lo sviluppo di tali sistemi,

esplorando al contempo la possibilità di realizzare armamenti non offensivi che garantiscano la difesa senza porre nuove minacce.

2. Dottrina, Forze e Comando e Controllo

La dottrina, e la struttura delle forze e del comando e controllo che ne stanno alla base, sono mature per revisioni che promuovano la stabilità; esse sono, inoltre, particolarmente adatte a misure unilaterali. Per esempio, cambiamenti di dottrina possono limitare l'impiego più provocatorio delle armi nucleari, pur mantenendo il loro valore deterrente. Per raggiungere questo duplice scopo, la configurazione delle forze e le regole di comando devono essere trasformate ingegnosamente.

Una possibile idea è che gli Stati Uniti e la NATO dichiarino una politica di 'no-first-use' (non primo uso) delle armi nucleari. Tale nozione, che è stata largamente discussa nel 1982, sta di nuovo guadagnando attenzione, probabilmente a causa di un crescente scetticismo verso i negoziati bilaterali e della preoccupazione per la tensione in Europa (6). La dottrina attuale prevede che la NATO possa usare armi nucleari tattiche per respingere un'invasione sovietica in Europa occidentale attuata con mezzi non-nucleari. Ma, come ammette tra gli altri il comandante supremo della NATO generale Bernard Rogers, è quasi certo che qualsiasi battaglia nucleare "locale" si trasformerebbe rapidamente in una conflagrazione globale. Quindi è un'alternativa prudente quella di assicurare che le forze convenzionali occidentali possano deterrere o, se necessario, resistere a un'invasione del Patto di Varsavia, facendo di conseguenza a meno delle minacce residue di primo uso nucleare.

Il 'no-first-use', secondo i suoi sostenitori, sarebbe qualcosa di più di una semplice politica declaratoria in quanto cambierebbe le attività operative delle forze alleate in Europa. McGeorge Bundy e Robert McNamara, entrambi esponenti dell'amministrazione Kennedy, premono per l'adozione di alcune misure analoghe. La proposta di arretrare le armi nucleari, oggi schierate in posizione avanzata, per ritardare l'azione del meccanismo mentale del tipo "usale o perdile" ('use'em or loose'em'), ha acquistato molta popolarità, come anche l'idea di McNamara che debba essere evitato il criterio destabilizzante del lancio su allarme. Bundy propone pure la dottrina della risposta a livello più basso, concepita probabilmente come alternativa alla dottrina NATO della 'escalation dominance'. La dottrina della risposta a livello più basso stabilisce che si risponda ad un attacco nucleare con un attacco nucleare di minore entità. "Per la natura stessa delle armi nucleari", ha spiegato Bundy in un discorso dell'ottobre del

1983, "una tale risposta recherebbe comunque all'aggressore più danno di ogni vantaggio egli possa aver guadagnato nel suo attacco iniziale". Una risposta minore, dice Bundy, "ha una probabilità minima di produrre sia una catastrofe generale che, d'altra parte, una resa disperata" (7).

Il 'no-first-use' le proposte simili trattano direttamente con numerosi problemi della politica attuale. Quella del comando e controllo delle armi nucleari, per esempio, è stata una questione dibattuta e politicamente controversa durante lo schieramento dei 'Pershing II' e dei missili da crociera basati a terra. La questione ha a che fare direttamente col pericolo di lanci accidentali o non necessari, ma riguarda anche la possibilità di pura confusione e inefficienza durante una guerra. Una maggiore enfasi sulle difese convenzionali, inevitabile se venisse a mancare la ritorsione nucleare a un attacco convenzionale del Patto di Varsavia, molto probabilmente farebbe prendere in considerazione strategie nuove e innovative per l'Alleanza occidentale. Inoltre, una politica di non primo uso in parte chiarirebbe a quali condizioni può funzionare la "deterrenza estesa", così come essa si è evoluta negli ultimi 40 anni.

Una dichiarazione di 'no-first-use' rappresenterebbe qualcosa di più di un atto di vuota retorica. Come si lesse in uno studio su tale concetto condotto dall'ammiraglio americano John Marshall Lee (8): "Una dichiarazione di non primo uso richiederebbe e genererebbe grossi e sostanziali cambiamenti in campo militare; cambiamenti sia nella dottrina che nelle forze. Alcuni sostengono che il 'no-first-use' sarebbe solamente diplomazia declaratoria... Questa affermazione non tiene conto del peso che avrebbe una dichiarazione di non primo uso che sia stata raggiunta dopo essere passata attraverso il nostro modo di pensare, la nostra preparazione e la nostra struttura militare. Mentre sarebbe effettivamente possibile violare una tale dichiarazione ed usare invece forze nucleari, il peso della legittimità, delle aspettative, della preparazione, della pianificazione e della capacità operativa andrebbe contro un atto simile".

Questo è un punto essenziale: cambiamenti di dottrina influiscono sulla struttura delle forze, in particolare sul tipo di armi che vengono sviluppate e schierate. La politica del 'no-first-use' eliminerebbe la necessità di schierare in avanti le armi nucleari e probabilmente anche le giustificazioni per forze nucleari di teatro come i 'Pershing II'. Questi missili, così sofisticati, non hanno un reale valore militare tranne che come armi da primo colpo e, d'altra parte, il loro uso in caso di conflitto convenzionale sarebbe contestabile poiché alzerebbe la posta velocemente e in modo irreversibile. Modifiche nella dottrina possono anche avere l'effetto di riorientare la composizione delle forze strategiche, che oggi negli Usa sono sempre più viste in funzione della possibilità di combattere una guerra nucleare. L'obiettivo della dottrina vigente è infatti la superiorità nucleare, che richiede forze sostanzialmente crescenti e diversificate. In questo esempio è proprio la dottrina ad ostacolare la moderazione

unilaterale - come testimonia il caso del 'Pershing II' - ma si potrebbe adottare l'atteggiamento opposto. L'impegno inequivocabile ed esclusivo per un deterrente di secondo colpo permetterebbe agli Stati Uniti, per esempio di rinunciare alla produzione dell'MX. Una giustificazione razionale convincente per la costruzione di questo missile, che avrà 10 testate e sarà in grado di colpire obiettivi sovietici con una precisione straordinaria, non è mai stata fornita. Nemmeno la commissione presidenziale incaricata di studiare i modi di schieramento dell'MX nell'inverno 1982-83 è stata capace di sollevare entusiasmi sull'argomento; la commissione, guidata da Brent Scowcroft, sostenne la costruzione del missile principalmente come segnale della "volontà politica" americana. L'MX è un'arma da primo colpo in grado di distruggere silos dei missili intercontinentali basati a terra (ICBM) e, poiché non può essere a sua volta alloggiata in silos a prova di attacco, costituisce un bersaglio vantaggioso. A causa della

sua vulnerabilità è destabilizzante: in caso di crisi i sovietici sarebbero tentati di distruggere l'MX prima che il missile distrugga loro.

L'eliminazione definitiva del programma MX ha incontrato forti resistenze politiche negli Stati Uniti, anche se il Congresso ci si è avvicinato per ben due volte, limitando infine a 50 il numero di missili schierabili. Il pasticcio dell'MX - e la meno nota vicenda dell'efficacissimo missile lanciato da sottomarino (SLBM) 'Trident II' - ha sollevato un ampio dibattito sul futuro delle forze strategiche statunitensi, in particolare del 'Midgetman', un missile a testata singola che può liberare gli Stati Uniti dai pericoli dei missili a testata multipla. Il 'Midgetman' non è esattamente un tipo di tecnologia "benevola" - ha la stessa capacità controforza (9) dell'MX - ma è generalmente considerato come un passo verso la stabilità.

Se si volesse seriamente mantenere uno stabile deterrente, invece della ricerca della capacità molto complessa di combattere una guerra nucleare, bisognerebbe prendere in considerazione l'idea di mettere su sottomarini l'intera forza missilistica degli Stati Uniti (e della NATO), in modo da renderla invulnerabile a un attacco sovietico di ICBM. Questa prospettiva, per quanto attraente per la marina statunitense, non sembra oggi accettabile politicamente. Tuttavia non bisogna sottovalutare il potenziale insito nelle modifiche della composizione delle forze e nei relativi cambiamenti di dottrina solo perché sono unilaterali, o meglio graduali: già la sola eliminazione dei vulnerabili missili a testata multipla sarebbe un risultato gigantesco.

Un altro aspetto chiave della struttura delle forze militari è il comando, controllo e comunicazioni (C3), che sta ricevendo sempre più attenzione come fattore cruciale nella prevenzione di una guerra nucleare. Lo sforzo per migliorare i sistemi di comunicazione, per garantire la sopravvivenza dei centri di comando e simili, rientra in una sorta di controllo degli armamenti, inteso in senso stretto. E', comunque, un'arma a doppio taglio: sistemi di comunicazione e procedure direttive migliori possono rendere il sistema di C3 meno vulnerabile a falsi allarmi e a lanci accidentali o non autorizzati, ma possono anche mettere il sistema in grado di facilitare le strategie per combattere una guerra nucleare. Attualmente sembra che lo scopo degli investimenti degli Stati Uniti sia quello di garantire la sopravvivenza nella fase iniziale di uno scambio nucleare massiccio, più che la capacità di resistenza richiesta per una guerra prolungata (10).

Di particolare importanza per gli esperti di controllo degli armamenti è il crescente interesse per i centri di controllo in caso di crisi, che dovrebbero includere sia rappresentanti degli Stati Uniti (e della NATO) che dell'Unione Sovietica. Lo scopo dovrebbe essere quello di rendere minime le possibilità di malintesi in grado di dar luogo a una guerra nucleare durante le crisi. I possibili obiettivi di un tale centro potrebbero essere: gestione e prevenzione di una crisi ed iniziative per l'aumento della fiducia reciproca (11). Questi centri sono generalmente visti come il risultato di un accordo comune e non sembrano pertanto appartenere alla categoria delle azioni unilaterali. Tuttavia lo scopo ultimo di questi progetti è quello di accrescere e rendere costante lo scambio di informazioni tra potenziali avversari, in modo da minimizzare le possibilità di conflitti dovuti a mancanza di dati affidabili. Il medesimo obiettivo può essere perseguito unilateralmente.

Il comando e controllo, per quanto vagamente definito, può giocare un ruolo importante nel diminuire le possibilità di guerra, sia nucleare che convenzionale. Poiché si tratta di un problema per sua natura sistemico, il risolverlo richiederà un uso estremamente raffinato di tecnologie sofisticate. La qualità fondamentale del comando e controllo è quella di essere quasi necessariamente unilaterale - a parte tentativi come la creazione di centri di controllo per i casi di crisi con personale da entrambe le parti. Inoltre, attualmente le misure per migliorare la capacità di C3 godono di una certa popolarità sia a destra che a sinistra, negli Stati Uniti e in Europa.

La nuova moda del C3, della stabilità in situazioni di crisi etc. - sebbene indubbiamente importante - è un altro riflesso del senso di frustrazione che ha accompagnato gli anni delle amministrazioni Carter e Reagan, negli Usa e altrove. Gli esperti di difesa incapaci di abbracciare il 'freeze' (congelamento degli arsenali nucleari) o schemi di disarmo più radicali, ma nello stesso tempo non entusiasti né del processo formale di controllo degli armamenti, né della corsa al riarmo, sono attratti da questo settore tecnico e non controverso. Ne risulta un programma d'azione timido, in confronto agli impulsi più ambiziosi e radicali che si possono trovare tra le file dei disarmisti. Il comando e controllo, per quanto sia necessario alla scienza militare - e per quanto sia utile il suo miglioramento nell'attuale quadro strategico - è comunque una metodologia di amministrazione dello status quo più che, quale che sia il metro che si usi, un allontanamento decisivo dal terrore nucleare. E' probabile che gli unilate

ralisti dotati di maggiore inventiva concentrino altrove le loro energie.

Tuttavia il settore del comando, controllo e comunicazioni mette in evidenza l'importanza della dottrina e della struttura delle forze, poiché l'impegno di una nazione nell'investire per un miglioramento della capacità di C3 - e la natura precisa di tale capacità - riflette il suo punto di vista su come e in quali circostanze si debba ricorrere ad una guerra nucleare e che tipo di armamenti siano necessari. Tutti questi aspetti sono collegati ed ognuno influenzerà inevitabilmente gli altri. Alcuni esperti sostengono che è lo sviluppo degli armamenti ad "indirizzare" la dottrina, ovvero che la dottrina nucleare viene adattata alle prerogative tecnologiche. Qualunque sia la vera relazione di causa-effetto è chiaro che dottrina, struttura delle forze e comando e controllo possono essere modificati tramite azioni unilaterali che potrebbero ridurre sostanzialmente il rischio di guerra nucleare.

Le proposte più radicali dell'unilateralismo vengono appunto fatte nel campo della dottrina e della struttura delle forze. Oltre alla resistenza nonviolenta, che sarà considerata più avanti in questo libro, vi sono altre serie proposte di cambiamenti profondi di prospettiva e di politica. Per esempio è stata raccomandata la creazione nell'area europea di zone libere da armi nucleari - NFZ, 'Nuclear-weapon Free Zones' - in particolare al nord e nei Balcani dove sembra possibile una immediata denuclearizzazione senza che la capacità di deterrenza dell'occidente venga messa bruscamente in pericolo.

La creazione di NFZ implicherebbe una dichiarazione d'intenti - e in effetti una trasformazione della dottrina - ed un conseguente allontanamento graduale dalle strategie nucleari da parte delle maggiori potenze. In Nuova Zelanda e in Grecia sono già state messe in pratica misure che si avvicinano molto a queste proposte; anche se ciò solleva necessariamente il problema non facile dell'azione unilaterale all'interno di una alleanza. L'obiettivo finale è ambizioso, come prevede uno studio dello Stockholm International Institute for Peace Research (SIPRI) sull'argomento: una NFZ "in una parte dell'Europa potrebbe innescare una reazione a catena che scuoterebbe le fondamenta della strategia nucleare della NATO" (12).

Comunque, come puntualizzano gli autori, l'affidarsi alle armi nucleari è dovuto almeno in parte alla scarsa fiducia dei comandanti NATO nella difesa convenzionale; così è necessario che la creazione di NFZ sia accompagnata da ristrutturazioni delle forze convenzionali - per quanto, in modo più limitato, la capacità convenzionale deve cambiare anche per permettere ed incoraggiare una dichiarazione di 'no-first-use'. Tra l'altro, una riduzione negoziata di truppe, l'eliminazione di sistemi nucleari a doppia chiave e di forze convenzionali offensive - come i carri armati - verrebbero combinati con l'aumento di mine, di armi anti-carro e contraeree, con l'adozione cioè del concetto di "difesa territoriale".

Si può pensare che questa denuclearizzazione "strisciante" al nord e al sud possa rappresentare una sfida alla dottrina della NATO basata sulle armi nucleari. E' anche concepibile la creazione di una alleanza difensiva "rivale" che potrebbe sfidare direttamente la dottrina NATO. Una proposta di questo tipo prevede una "associazione europea non nucleare" che sorgerebbe in conseguenza del fallimento del tentativo di eliminare le forze nucleari a raggio intermedio (INF), le armi nucleari tattiche e la dottrina del primo uso (13). In questo decennio in cui la capacità nucleare della NATO in Europa è cresciuta rapidamente, tali visioni sembrano donchisciottesche, ma l'insieme delle politiche unilaterali e non nucleari ha già stimolato un notevole fermento all'interno delle alleanze globali dell'occidente.

3. Azioni all'interno di una alleanza

Una singola nazione può effettuare cambiamenti di dottrina o di struttura delle forze, ma praticamente la politica di difesa di ogni paese è legata ad una alleanza multilaterale. Quindi, se si considerano azioni come una dichiarazione di non primo uso o lo spostamento verso un deterrente basato in mare, bisogna porsi il problema delle azioni unilaterali inserite nel contesto di un'alleanza.

Una delle principali caratteristiche del periodo della guerra fredda degli anni '50 è stata la formazione di numerose alleanze nuove, in particolare fra le democrazie non comuniste, che ancora adesso costituiscono gran parte delle forme di difesa in Europa e nel Pacifico. Tali alleanze - NATO, SEATO, ANZUS, CENTO, etc. - erano elementi della strategia del 'containment', per cui l'Unione Sovietica veniva circondata da accordi di difesa reciproca. Naturalmente la forza di questi patti dipendeva principalmente dalla volontà e dalla potenza degli Stati Uniti ed era coperta dall'ombrello nucleare americano.

Gli effetti delle alleanze per quanto riguarda la politica del 'containment' sono stati eterogenei. Il fallimento nel sud-est asiatico, i cui conflitti sono certamente antecedenti alla SEATO, è stato il più spettacolare e, si badi, senza che fossero coinvolte armi nucleari. L'altro patto similmente concepito in medioriente, la CENTO, fu lacerato dall'insorgere del fondamentalismo islamico, dalla costituzione dell'OPEC e dalle esplosioni del prezzo del petrolio degli anni '70. In parte la causa del fallimento è attribuibile alla incapacità americana di trattare col nazionalismo postcoloniale del Terzo Mondo che dà spesso origine a movimenti rivoluzionari. I membri delle alleanze che sono rimaste in piedi, in genere tendono ad essere le più vecchie e stabili democrazie dell'Europa e del Pacifico meridionale.

Recentemente, tuttavia, inquietudini circa il problema del controllo degli armamenti nucleari hanno turbato anche queste alleanze stabili. Anche qui è la reale o presunta incapacità degli Stati Uniti a frenare la corsa al riarmo che sta creando nuove tensioni all'interno delle alleanze, in particolare nella NATO e nell'ANZUS. Il risultato è stato l'esplosione di azioni unilaterali, alcune con lo scopo di indurre le superpotenze a negoziati più incisivi, altre invece come semplici e dirette risoluzioni antinucleari. Qualunque sia la causa, questi pochi esempi di unilateralismo sollevano un importante problema per ciascuna delle potenze industrializzate, compresa l'Italia, che voglia prendere in considerazione una tale azione: è possibile adottare misure unilaterali contro la decisione collettiva dell'alleanza di cui si fa parte? Le alleanze possono sopravvivere all'unilateralismo? Hanno senso le azioni unilaterali se fatte senza turbare le alleanze?

Gli esempi più noti di tali "azioni" - la maggior parte delle quali sono state solo progettate - sorsero dalla decisione della NATO del 1979 di schierare, a partire dal 1983, nuovi missili nucleari in Europa come risposta allo schieramento degli SS-20 sovietici, nel caso in cui i negoziati per ribaltare la decisione sovietica fossero falliti. Si stabilì che l'installazione delle nuove armi - 108 missili balistici 'Pershing II' e 464 missili cruise basati a terra (GLCM) - sarebbe avvenuta, a partire dal 1983, in cinque paesi: tutti i Pershing in Germania federale e i GLCM divisi fra Italia (112), Olanda (48), Gran Bretagna (160), Belgio (48) e Germania federale (96). Questa doppia decisione, messa in moto dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt nel 1977, fu approvata da tutti i membri della NATO, con l'evidente speranza che questa minaccia decisa e unitaria fosse un incentivo per l'Unione Sovietica a eliminare gli SS-20.

Poche altre decisioni sulle armi nucleari hanno creato tante polemiche; è lecito dire che gli euromissili hanno stimolato la più vasta ondata di sentimenti antinucleari mai vista in Europa - con la partecipazione, in certi casi, di milioni di persone alle manifestazioni di protesta - che si riversava, di conseguenza, sugli Stati Uniti. Questa opposizione estremamente esplicita e articolata ha toccato la coscienza pubblica ed è diventata un ingrediente esplosivo nella politica europea. I partiti di opposizione - principalmente quello laburista e, paradossalmente, il partito di Schmidt, l'SPD, in Germania - hanno fatto proprio il tema degli euromissili per contrastare i governi Thatcher e Kohl. In questi due paesi, e in misura minore in Italia, i governi in carica sono stati messi duramente alla prova. Nonostante tutto i missili sono stati schierati. Comunque, gli effetti politici a lungo termine potrebbero essere molto importanti: la crescita del Partito dei Verdi nella Repubblica federale tedesca e dei socia

ldemocratici in Gran Bretagna è, almeno in parte, conseguenza dello spinoso dibattito sulle armi.

In due paesi, invece, sono state prese in considerazione ufficialmente, con la costernazione degli altri membri dell'alleanza, azioni unilaterali per fermare o ritardare lo schieramento dei missili da crociera. Il Belgio, all'inizio del 1984, sembrava inizialmente pronto a ritardare l'installazione dei GLCM americani, prevista fra il 1985 e il 1987. Alcuni democristiani speravano che un ritardo nello schieramento avrebbe rappresentato un gesto di buona volontà verso i sovietici senza compromettere la sicurezza occidentale (14).

I fautori della linea dura nell'Alleanza considerano gesti di questo tipo non come segnali positivi, bensì come segni di debolezza che i sovietici sfrutterebbero sicuramente a loro vantaggio. Il presidente francese Mitterrand (il cui paese non doveva ricevere gli euromissili) dichiarò: "In Unione Sovietica si stanno sviluppando armamenti. In occidente si sta sviluppando il pacifismo. Ciò non è giusto" (15).

L'Olanda ha invece rappresentato un'interruzione molto più seria nel piano di schieramento. Nutrendo gli stessi dubbi dei belgi circa l'opportunità degli euromissili, gli olandesi - il 65% dei quali si espresse in modo contrario allo schieramento in un sondaggio all'inizio del 1984 - hanno premuto sul governo per la ricerca di una soluzione alternativa. Il primo giugno 1984 il Consiglio dei ministri olandese votò per il ritardo dell'installazione e decise di subordinare il numero totale dei missili da accettare sul proprio suolo ai progressi sul tavolo delle trattative INF, o ad azioni unilaterali sovietiche che limitassero o riducessero il numero di SS-20. La decisione olandese scosse l'Alleanza. Un ufficiale americano disse che il ritardo costituiva un "serio e forse fatale colpo" alle speranze di ridar vita alle trattative INF (16).

L'agitazione e i timori in Europa e negli Stati Uniti sono stati riassunti molto bene dalle parole di Joris Voorhoeve, il portavoce per gli affari esteri del conservatore Partito liberale olandese: "Un'alleanza è come un mucchio di sassi e se ne togli uno piccolo possono cominciare a venir giù anche quelli grossi". Un giurista olandese, scrivendo su un giornale americano, ha descritto i fautori del "disarmo unilaterale" come una "banda eterogenea di insoddisfatti - i vari tipi di marxisti che tentano sempre di recar danno all'occidente; gli inaciditi 'mullah' del movimento ecologista; i figli dei fiori di tutte le età alla ricerca disperata di comunità e di esperienze significative e i sedicenti pacifisti che si riservano di approvare i movimenti di liberazione marxisti" (17). Va notato che il ritardo olandese nello schieramento degli euromissili, e prima ancora il tentennamento belga, furono entrambi liquidati come l'effetto di tensioni di politica interna, come l'inevitabile paralisi che affligge i governi

di coalizione, come se opinione pubblica e argomentazioni antinucleari fossero considerazioni in qualche modo illecite nella politica democratica.

La mancanza di progressi nel ridurre gli SS-20 ha indotto poi il governo olandese ad accettare, nel novembre del 1985, i previsti 48 GLCM. Contemporaneamente però, gli olandesi presero un'iniziativa senza precedenti, eliminando le bombe nucleari portate dai cacciabombardieri F-16 e dagli aerei antisommergibile 'Orion' P3: per la prima volta un paese della NATO ha ritirato un sistema nucleare che non fosse già divenuto tecnologicamente obsoleto. La NATO esortò l'Olanda in modo piuttosto energico a non eliminare i due sistemi nucleari - cosa prevista per il 1988, ad installazione avvenuta di cruise - ma il governo mantenne inalterata la sua eccezionale decisione (18).

Anche se il pasticcio olandese è stato l'esempio più evidente e drammatico di unilateralismo all'interno di una alleanza, si sono verificati anche altri episodi meno evidenti. Nel 1983 e nel 1984 i belgi hanno smantellato due delle loro sei unità contraeree NATO e si sono rifiutati di potenziare le altre quattro (tutte e sei le unità, del tipo 'Nike Hercules', erano equipaggiate con testate nucleari). Il primo ministro greco Papandreu, un critico della politica americana, ha condotto una campagna elettorale ben riuscita rifiutando il permesso agli Stati Uniti di modernizzare le loro installazioni nucleari in Grecia, che includono, a quanto pare, missili a corto raggio 'Honest John', proiettili d'artiglieria e mine terrestri. Papandreu ha anche sostenuto attivamente la denuclearizzazione dei Balcani sin dall'inizio del suo governo nel 1981 e a tale scopo ha tenuto riunioni, fuori del contesto della NATO, con i paesi vicini alla Grecia. Parecchi paesi della NATO non hanno rispettato l'accordo su una crescita d

el 3% delle spese militari negli anni '80, anche se questa mancanza è dovuta alla recessione economica più che a politiche di disarmo (19). Infine si può, ovviamente, ricordare il ritiro francese dalla struttura militare della NATO nel 1966 come un'azione unilaterale di enorme importanza.

La coesione della NATO ha resistito facilmente a tutti questi impulsi unilateralisti, dimostrando che questo tipo di azioni sono possibili all'interno di un'alleanza militare. I doveri verso un'alleanza non privano una nazione della sua sovranità. Si può anzi affermare che la ragion d'essere di un'alleanza - la sicurezza comune - viene insidiata dall'imposizione dell'unità come scopo principale dell'alleanza stessa. Le crisi di coesione sono, a volte, crisi indotte di percezione: ogni volta che gli olandesi e i belgi hanno preso in considerazione l'ipotesi di ritardare l'accettazione dei GLCM, si è levato il coro dei catastrofisti ad insistere che una tale posticipazione avrebbe causato la rottura dell'Alleanza - abbastanza chiaramente una profezia che si autoadempie, piuttosto che una reale conseguenza delle esitazioni unilaterali.

Le alleanze possono, comunque, essere minacciate da determinati atti di sovranità, come potrebbe avvenire nel Pacifico meridionale. Il patto dell'ANZUS (Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) è stato scosso dal rifiuto della Nuova Zelanda, all'inizio del 1985, di permettere lo scalo nei suoi porti a navi statunitensi con armi nucleari a bordo. Di nuovo gli Stati Uniti hanno reagito con grande allarme. Un articolo su un quotidiano descrive così la situazione: "Washington teme che permettere alla Nuova Zelanda di venir meno agli obblighi derivanti dal trattato possa danneggiare anche altre alleanze degli Stati Uniti". Un alto funzionario dell'amministrazione Reagan ha messo in guardia che l'azione neozelandese può costituire un "precedente" che potrebbe "permettere ad altra gente zelante di farsi venire idee simili" (20). La risposta americana è stata condita da poco velate minacce di ritorsioni economiche. Anche l'Australia si è opposta alla posizione presa dal suo vicino, sebbene essa stessa sia entrata in

conflitto con gli Stati Uniti quando si è rifiutata di permettere ai velivoli americani di osservare da basi australiane i voli di prova dell'MX.

Fino ad ora le esagerazioni e le minacce non hanno prodotto l'effetto voluto. Il primo ministro Lange manifestò la volontà della Nuova Zelanda di uscire dall'ANZUS nel settembre 1985, a seguito del rifiuto statunitense di un compromesso da lui proposto sulla questione dell'accesso ai porti. All'interno, Lange ha insistito sull'argomento, proponendo una legge che codificherebbe la posizione antinucleare del governo. "Gli Stati Uniti vedono l'ANZUS nel contesto della loro strategia globale di deterrenza", ha dichiarato Lange. "Se l'ANZUS è solamente un deterrente nucleare e se il contributo della Nuova Zelanda all'ANZUS sotto forma di presenza di armi nucleari sul suo territorio è il prezzo da pagare per tale deterrente, ebbene il prezzo è troppo alto" (21). I politici americani hanno attribuito anche questa volta la fermezza della posizione di Lange a esigenze di politica interna. Ma la posizione di Lange si basava sul principio di sovranità nazionale, in particolare sul diritto di regolamentare l'uso dei por

ti neozelandesi da parte di navi da guerra straniere.

Il segretario di Stato americano George Shultz annunciava invece nel luglio del 1986 che gli Stati Uniti non erano più obbligati a difendere la Nuova Zelanda. Sotto molti aspetti questa azione conferma ciò che Lange ha sempre sostenuto - che gli Stati Uniti considerano l'Alleanza solo nei termini della loro forma di deterrenza nucleare mondiale - e, va aggiunto, non semplice deterrenza ma 'nuclear warfighting' (capacità di combattere una guerra nucleare). E' poco probabile che gli Stati Uniti possano mai prendere una tale iniziativa contro un membro della NATO, ma l'episodio solleva anche questioni sullo status dell'America come "primo fra uguali" nei patti difensivi reciproci, in particolar modo quando la disputa deriva da ambiguità sugli impegni da rispettare e da una posizione più dogmatica sul nucleare da parte degli Stati Uniti.

Non c'è una formula semplice da raccomandare per l'unilateralismo all'interno di un'alleanza; è sufficiente dire che le iniziative di questo tipo, pur non essendo routine, hanno dei precedenti. Una politica di sovranità nazionale può anche incoraggiare altri membri dell'alleanza - e forse l'organizzazione nel suo complesso - ad adottare un nuovo corso d'azione: una dichiarazione di 'no-first-use' da parte degli Stati Uniti o di una delle altre potenze nucleari potrebbe avere un tale effetto benefico. Le minacce contro le azioni unilaterali devono essere, in ogni caso, valutate nel contesto del valore stesso dell'alleanza: "unità dell'alleanza" e "risolutezza", come il caso della Nuova Zelanda ha dimostrato, non sono degli obiettivi validi in quanto tali.

4. Riduzione degli armamenti

L'unilateralismo puro è intrinsecamente limitato dal fatto che la corsa al riarmo non è un esercizio solitario. La reciprocità, come viene spesso chiamata, deve essere l'altra faccia dei gesti unilaterali. I paesi della NATO e gli Stati Uniti non possono fare molti passi verso la riforma o la riduzione dei loro arsenali atomici senza che vi siano uguali limitazioni da parte sovietica.

Ciò che la maggior parte delle persone intende per controllo degli armamenti è la limitazione o la riduzione dei missili e delle testate nucleari, che era quello che il processo SALT sembrava promettere, ma che ha solo parzialmente conseguito. Questo concetto di disarmo ha dominato il dialogo politico negli Stati Uniti e nelle trattative con i sovietici. Ogni presidente americano dell'era nucleare ha nutrito qualche speranza di riduzione delle armi nucleari, ma nessun accordo sul controllo degli armamenti ha mai ridotto il numero di armi nucleari. Vale quindi la pena di considerare se le iniziative unilaterali possano funzionare in questo campo così importante e di primo piano nella rivalità tra Usa e Urss. Fra le idee discusse negli anni '80 c'è quella dei 'deep cuts' (riduzioni massicce), un netto allontanamento rispetto ai piccoli passi di trattative che non hanno avuto poi un gran successo nel limitare gli armamenti offensivi.

Una delle proposte di questo tipo, più drastiche, è quella di George Kennan, in cui egli suggerisce un taglio immediato del 50% negli arsenali nucleari di ogni tipo. Kennan ha scritto nel 1981: "Il punto non è preoccuparsi se il risultato della riduzione sia precisamente pari o se possa favorire statisticamente una parte o l'altra. Se iniziassimo a pensare in questi termini, ci metteremmo di nuovo sul vecchio e fatale binario che ci ha portato al punto in cui siamo oggi" (22). L'idea delle riduzioni massicce - ci sono state da allora molte variazioni sull'idea di Kennan - ha avuto molta popolarità in occidente, al punto che perfino Ronald Reagan, che ha ostentato una completa ostilità anche verso l'idea stessa di controllo degli armamenti, ha avanzato una proposta ai colloqui sulla riduzione delle armi strategiche ('Strategic Arms Reduction Talks', in sigla START) apparentemente con lo scopo di ridurre gli arsenali atomici delle superpotenze. I recenti risultati di studi sul cosiddetto inverno nucleare, che

sostengono che una guerra nucleare relativamente limitata potrebbe ugualmente estinguere la vita sulla terra, conferiscono ancor più importanza e urgenza alla proposta dei 'deep cuts'.

Tuttavia l'idea di riduzioni massicce degli arsenali è probabilmente inaccettabile per i militari di Unione Sovietica e Stati Uniti. I sovietici e gli americani considerano senza dubbio la loro capacità nucleare - specialmente i loro sistemi strategici - non solo in termini di rivalità reciproca, ma come un modo di raggiungere altri obiettivi politici, in particolare quello di mantenere il loro ruolo di superpotenze mondiali. Così le iniziative per tagli significativi degli arsenali prendono tipicamente la forma di proposte più che di azioni. Nell'aprile del 1977 il segretario di Stato americano Cyrus Vance ha portato a Mosca un piano di riduzione delle armi nucleari e Leonid Breznev lo ha prontamente rifiutato (soffriva delle stesse distorsioni della proposta START di Reagan: tagli nelle forze basate a terra, che costituiscono la maggior parte dell'arsenale sovietico). Il segretario generale Gorbaciov ha proposto nel 1985 una riduzione del 50 per cento, simultaneamente però ad una severa limitazione dell'SD

I; proposta successivamente modificata in un'offerta di taglio del 30 per cento in cambio di una proroga non ambigua del Trattato ABM.

Sembra in ogni caso molto arduo ridurre le forze strategiche delle superpotenze tramite azioni unilaterali, principalmente perché è su questi sistemi d'arma che si basa in larga misura la percezione di sicurezza di ciascuna parte (23). L'arsenale strategico è l'obiettivo più ovvio per chi si occupa di controllo degli armamenti e per l'opinione pubblica, ma potrebbe essere quello meno suscettibile di riduzioni.

Le riduzioni unilaterali non sono comunque impossibili, come è stato dimostrato almeno in un caso. Nel giugno del 1983, l'ammiraglio canadese Robert Falls, un comandante NATO, ha dichiarato che, in assenza di esiti positivi nei negoziati sugli armamenti, "potrebbe diventare necessario agire unilateralmente per ridurre in particolar modo le armi nucleari da campo di battaglia, perché ne abbiamo forse più di quante ce ne servano" (24). Nello stesso anno i ministri della Difesa della NATO in un incontro a Montebello, in Canada, si sono accordati per ritirare 1400 testate nucleari tattiche degli Stati Uniti schierate in Europa. Il piano ha stabilito una riduzione da 7000 testate nucleari a circa 4500 nel 1986. Sebbene si stiano rimuovendo i proiettili nucleari d'artiglieria e i missili più vecchi, questi cambiamenti non solo sono ragionevoli, ma anche saggi (25).

Questo esempio indica che riduzioni progressive - fatte a volte per ragioni non così nobili, come l'efficienza e l'economia - possono costituire la base per ritiri più drastici di armamenti. Il concetto di difesa territoriale è un altro modo di interpretare lo stesso processo: la NATO (o una singola nazione) ritira le armi più provocatorie e offensive, sia nucleari che non, e le sostituisce con altre che abbiano un orientamento difensivo. Questo procedimento, iniziatosi dal gradino più basso della scala della deterrenza, potrebbe portare ad azioni reciproche che permettano a ciascuna parte di estenderlo a sistemi d'arma più pericolosi. Sia l'idea della difesa territoriale che quella delle zone denuclearizzate favoriscono un processo di gradualismo.

In questa luce, dunque, riduzioni degli armamenti conseguite tramite iniziative unilaterali e reciproche appaiono molto più realizzabili rispetto a quelle che partono dai sistemi strategici - che sono, invece, troppo al centro dell'attenzione generale. Ancora una volta, comunque, muoversi verso questo tipo di processo richiede un cambiamento, almeno implicito, nella dottrina della NATO che tolga l'accento sulla deterrenza nucleare estesa all'Europa.

5. Messa al bando degli esperimenti

Le riduzioni unilaterali e reciproche delle forze militari sarebbero anche più plausibili se avvenissero sulla scia di altre misure reciproche di controllo degli armamenti, che sviluppassero la fiducia reciproca e creassero un più saldo senso di sicurezza per entrambe le parti. Le iniziative probabilmente più dirette, immediate e decisive di questo tipo sono i divieti dei test.

Le armi, una volta schierate, sono molto difficili da eliminare, che sia all'opera o meno il processo formale delle trattative.

Sebbene le dimensioni degli arsenali siano sconcertanti, molti esperti di armamenti sostengono che il pericolo presente e futuro sia costituito dai cambiamenti qualitativi più che da quelli quantitativi. Testate multiple, armi antisatellite e antisommergibile, difesa anti-missili balistici, missili da crociera, tecniche cosiddette 'stealth' (per ridurre la visibilità al radar dei vettori): la lista degli impressionanti risultati raggiunti dalla tecnologia bellica è veramente molto lunga. Dal 1981 lo sforzo ufficiale americano per l'acquisizione di nuovi congegni basati sulla microelettronica è più che che raddoppiata, in conseguenza del fatto che i militari si sono resi conto che, ragionevolmente, non ci sono più obiettivi in Unione Sovietica che non siano già coperti dalle forze Usa. Tutto ciò che rimane da fare è migliorare la qualità.

Progetti e tentativi possono essere fatti nei laboratori, ma le nuove armi devono infine essere messe alla prova in condizioni realistiche. Poiché gli esperimenti in genere possono essere individuati, la strada migliore per il controllo degli armamenti è quella di vietare i test più che proibire le armi già completate. Il divieto di esperimenti più significativo raggiunto finora - il PTBT del 1963 - è stato il risultato di una iniziativa unilaterale, replicata quasi alla lettera dal leader sovietico Gorbaciov quando, nell'agosto del 1985, ha dichiarato una moratoria di tutti i test nucleari sovietici, nella speranza che l'amministrazione Reagan e altre potenze nucleari si unissero in un trattato per un divieto totale di tutti i test. Così è istruttivo ricordare brevemente l'episodio precedente come possibile modello (26).

Il 'fallout' radioattivo dovuto ai test di armi suscitò un fragoroso allarme pubblico a metà degli anni '50. Una serie di personalità mondiali - fra gli altri il primo ministro indiano Nehru, Albert Schweitzer, il Papa Pio XII - protestò a gran voce contro gli esperimenti nucleari nell'atmosfera da parte di Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna e il candidato democratico Adlai Stevenson sollevò vigorosamente il problema durante la campagna presidenziale del 1956. Va incidentalmente ricordato che i sovietici, mancando come sempre di tatto quando si tratta di influenzare una elezione americana, danneggiarono le già scarse possibilità di Stevenson appoggiando apertamente la sua posizione poche settimane prima del giorno delle elezioni. Già nel 1957 le superpotenze si scambiavano proposte per il bando totale degli esperimenti nucleari: i russi per primi suggerirono una moratoria sotto il controllo di gruppi neutrali di esperti, ma Eisenhower si piegò alla veemente opposizione del fisico Edward Teller. Te

ller, uno dei fondatori del laboratorio di armamenti di Livermore, preparò degli scenari che tendevano a dimostrare che i sovietici erano in grado di imbrogliare e che i divieti di qualunque tipo avrebbero indebolito la sicurezza degli Stati Uniti. Eisenhower fece, comunque, una controproposta che vincolava la messa al bando degli esperimenti ad un congelamento dei materiali fissili, e che Mosca rifiutò. Nell'ottobre del 1958 presero il via trattative ufficiali a Ginevra, facilitate dalla dichiarazione unilaterale di Eisenhower di una moratoria degli esperimenti. I negoziati si impantanarono su questioni tecniche e politiche, e col passare dei mesi le rispettive posizioni si irrigidirono - con i sovietici spaventati dalle ispezioni sul posto e gli americani sospettosi di opportunità sovietiche di fare esperimenti segretamente.

Quando John Kennedy assunse la presidenza il processo era in alto mare. Nel marzo 1960 si era stati ad un passo dal raggiungimento dell'accordo su un bando totale, ma a causa di altri eventi - un aereo spia degli Usa fu abbattuto in Russia e scoppiò la crisi del Congo - le relazioni tra le superpotenze si raffreddarono nuovamente. Kennedy ereditò questa situazione di per sé non promettente, cui si era aggiunta la sua propria retorica riarmista durante la campagna presidenziale. La Baia dei Porci e la mina vagante di Berlino peggiorarono le cose; ciò nonostante Kennedy fu d'accordo nel rianimare comunque gli assopiti negoziati di Ginevra. Dopo un incontro al vertice tra Kennedy e Krusciov, nell'estate del 1961, che fu un quasi fallimento, i due paesi ricominciarono gli esperimenti nucleari. Le trattative continuarono, ma andarono a cozzare contro il muro delle verifiche: mentre i test atmosferici potevano essere rilevati con sicurezza, c'era la possibilità che quelli sotterranei sfuggissero al controllo.

La svolta arrivò col discorso di Kennedy in occasione della cerimonia annuale per il conferimento della laurea all'American University, il 10 giugno 1963. Questo discorso, inteso a trasformare e raddolcire le relazioni tra America e Unione Sovietica subito dopo la crisi dei missili di Cuba, auspicava "un immediato accordo per un trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari". Inoltre "per mostrare la nostra buona fede e le nostre serie intenzioni su questo problema", annunciò il presidente, "io dichiaro ora che gli Stati Uniti si propongono di non fare esperimenti nucleari nell'atmosfera finché gli altri Stati facciano altrettanto".

Il PTBT, firmato a Mosca il 5 agosto del 1963, fu un chiaro risultato dell'impulso fornito dal discorso all'American University. L'effetto della sospensione dei test da parte di Kennedy è più difficile da valutare. Nessuna delle opere storiche sugli anni di Kennedy dà credito all'idea che le moratorie (quella di Eisenhower come quella di Kennedy) furono decisive nel raggiungimento dell'accordo finale, ma è sciocco sottovalutare l'effetto salutare che i bandi volontari dei test devono aver avuto. Se la sismologia fosse stata allora un pò più avanzata, si sarebbe facilmente arrivati anche a una moratoria totale, che avrebbe incluso la maggior parte degli esperimenti sotterranei.

La cosa, forse, più degna di nota è stata comunque l'assoluta semplicità con cui sono state prese le misure unilaterali. In momenti critici sia Eisenhower che Kennedy hanno semplicemente dichiarato i loro divieti autoimposti, che dovevano diventare reciproci - gli Sati Uniti non avrebbero effettuato test se i sovietici avessero seguito l'esempio. Essi erano sicuri che la messa al bando poteva essere verificata ed erano determinati ad usare questo fatto come catalizzatore per raggiungere accordi formali. Tutto ciò, naturalmente, ha richiesto capacità decisionale: azioni risolute, prontamente messe in atto, obiettivi saldamente articolati per aggirare l'onnipresente opposizione interna a qualunque accordo sul controllo degli armamenti. Il 'Partial Test Ban' non è l'unico esempio di questo meccanismo quasi casuale. Il 25 novembre 1969 il Presidente Richard Nixon dichiarò unilateralmente che gli Stati Uniti non sarebbero stati i primi ad usare armi chimiche letali o debilitanti e che rinunciavano incondizionatam

ente a qualunque uso di armi biologiche. Nixon stava seguendo le orme dei suoi predecessori, compreso Franklin Delano Roosevelt che, durante la seconda guerra mondiale disse, riaffermando il Protocollo di Ginevra del 1925: "Non ricorreremo in nessuna circostanza all'uso di armi (chimiche) a meno che esse non vengano usate prima dai nostri nemici". L'azione di Nixon non fu per questo meno significativa. Sfociò in una convenzione firmata dall'Unione Sovietica e da altre 109 nazioni che, come disse Nixon quando l'accordo fu mandato al Senato per la ratifica, fu "il primo accordo internazionale, dalla seconda guerra mondiale in poi, che stabilisca l'effettiva eliminazione di un'intera classe di armi dagli arsenali delle varie nazioni" (27).

Sulla stessa scia - quella di limitare un tipo di tecnologia prima che diventi militarmente utile o importante - gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica nel 1963 accettarono in linea di principio una risoluzione delle Nazioni Unite che bandiva l'uso delle armi nucleari nello spazio. Le dichiarazioni di ogni paese erano sì conseguenza di qualche trattativa precedente, ma l'impeto per un trattato formale (firmato dopo nuovi negoziati nel 1967) venne da azioni indipendenti da parte di entrambi i governi (28). Ironicamente, alla luce delle nuove tecnologie che si stanno sviluppando per una difesa strategica basata nello spazio, questo trattato potrebbe avere più significato oggi che 20 anni fa.

Nel 1985 il Congresso americano, con una decisione molto insolita, decretò una moratoria su alcuni tipi di test dell'arma antisatellite (ASAT) dell'aeronautica, un ordigno a energia cinetica lanciato da un caccia a reazione F-15, come risposta - e sotto la spinta - di una moratoria sovietica degli esperimenti ASAT durata 3 anni. Una misura simile è passata alla Camera dei rappresentanti nel 1986 nel tentativo di appoggiare la moratoria sovietica dei test nucleari sotterranei. C'è qualche controversia sulle ragioni dell'autolimitazione da parte sovietica sull'ASAT, ma la decisione del Congresso americano fu presa chiaramente come misura complementare a quella. E' insolita non solo in quanto rappresenta una restrizione unilaterale e insieme reciproca di una tecnologia militare emergente, ma perché è stata emanata dal potere legislativo in contrasto con l'amministrazione - cosa assai difficile nei processi parlamentari europei.

L'attivismo del Congresso è, comunque, particolarmente importante, data la riluttanza o il rifiuto dell'amministrazione Reagan di rispondere in modo intelligente alle iniziative unilaterali russe, sia sull'ASAT che sulle esplosioni nucleari. L'iniziativa di Gorbaciov sugli esperimenti nucleari, iniziatasi il 6 agosto 1985 e rinnovata varie volte sino al 1987, dimostra che è ancora possibile - ed anche ben visto dall'opinione pubblica mondiale - un livello di capacità decisionale dei capi di Stato simile a quello del presidente Kennedy, ma mostra anche che è necessario che entrambe le parti siano pronte ad agire. Il Congresso, comunque, ha assunto il ruolo di attore sostitutivo nel campo della diplomazia Usa. L'attivismo del Congresso su questi gesti unilaterali, sebbene con saltuarie iniziative coraggiose, ha creato un tipo di "intervento" nel controllo degli armamenti nuovo nel processo politico americano, un precedente probabilmente molto significativo.

Il congelamento dell'ASAT dimostra chiaramente i vantaggi di questa forma di controllo degli armamenti tramite la messa al bando dei test. Esso ritarda una tecnologia che, se schierata, rappresenterebbe una provocante minaccia per entrambe le parti, data l'importanza dei satelliti nell'allarme strategico e in altri compiti militari di vitale importanza. Violazioni della moratoria sono rapidamente individuabili e le probabilità di infrazioni sono minime. Il prolungarsi della moratoria in termini mutualmente accettabili potrebbe portare a un accordo formale che potrebbe includere un divieto più vasto - che gli sforzi di Eisenhower e Kennedy non comprendevano.

6. Il caso dell'Italia

Le possibilità di controllo unilaterale degli armamenti all'interno di un singolo paese che non ha il ruolo centrale degli Stati Uniti o dell'Unione Sovietica rispecchieranno, comunque, quelle delle superpotenze - riguarderanno cioè la dottrina, la struttura delle forze, il numero di armi effettivamente schierate e gli sviluppi tecnologici. Come abbiamo visto, affermazioni della sovranità nazionale possono avere un profondo effetto, come hanno dimostrato tra gli altri il caso della Nuova Zelanda e quello dell'Olanda. Tali azioni possono avere un impatto salutare sulla sicurezza nazionale - forse niente di più che il non invischiarsi nel pantano nucleare delle superpotenze - ma, ed è la cosa più importante, possono sollevare quel tipo di dibattito e di esame di coscienza che può portare a politiche più ragionevoli in generale. Quali tipi di strategie e di armamenti possono essere definiti difensivi? Le armi nucleari sono necessarie per la sicurezza europea? I sovietici risponderanno positivamente a misure di

disarmo unilaterale?

Ironicamente le alleanze occidentali sono diventate troppo compiacenti nel loro modo di giudicare quali sono le forze e la dottrina adeguate e necessarie, infatti le risposte ufficiali tendono sempre verso il "di più" e il "più minaccioso". Se il processo di controllo degli armamenti non riesce, come è successo, a cambiare queste risposte, a maggior ragione c'è bisogno di azioni unilaterali.

Quali tipi di azioni unilaterali utili sono dunque praticabili in Italia? Sebbene l'Italia non faccia parte delle potenze nucleari come la Gran Bretagna e la Francia, il suo posto nella sicurezza occidentale è tutt'altro che insignificante. Confina con la Iugoslavia ed è vicina a Cecoslovacchia e Ungheria; è una vasta e crescente potenza industriale; è il sesto esportatore di armamenti al mondo (29). Inoltre in Italia ci sono le più importanti basi della NATO del Mediterraneo, importanti non solo per il nordafrica e per il medioriente, ma anche per gli Oceani Atlantico e Indiano. Ci si può rendere rapidamente conto del ruolo chiave dell'Italia nella NATO se si pensa alla preoccupata reazione americana all'eurocomunismo negli anni '70 e all'accettazione di 112 missili da crociera nel quadro dello schieramento degli euromissili avvenuto negli ultimi anni.

L'Italia ha giocato a lungo un ruolo di forte sostegno alla dottrina nucleare della NATO, schierando missili nucleari ed aerei a capacità nucleare molto prima della crisi degli euromissili dello scorso decennio. La controversia sui GLCM, che la Camera dei deputati accettò nel novembre del 1983 con 351 voti contro 219, sollevò considerevoli proteste, inclusa una marcia a Roma di circa 100.000 persone nell'ottobre del 1983 e sondaggi d'opinione in quello stesso periodo che indicavano che gli italiani erano "in linea di principio" contrari allo schieramento (30). Malgrado tale atteggiamento e le sue occasionali manifestazioni pubbliche, l'Italia ha schierato i GLCM senza seri incidenti.

Il sostanzioso schieramento nucleare in Italia - il quarto nel mondo, eccettuate le superpotenze - e la sua importanza geopolitica sul fianco sud della NATO, presentano opportunità di significative misure unilaterali. Alcune di queste opportunità possono essere riassunte, come suggerisce la precedente discussione generale, in poche categorie:

1. revisione della dottrina, inclusa la non partecipazione alla strategia NATO del 'first use' (primo uso) o allo schieramento di armi che minaccino, in modo offensivo, i paesi del Patto di Varsavia;

2. riduzioni delle forze nucleari, ovvero rimozione non solo dei 112 GLCM, ma anche delle centinaia di pezzi d'artiglieria nucleare, degli aerei con capacità nucleare e dei missili 'Nike Hercules', che assieme comprendono più di 500 testate nucleari (31);

3. rinuncia allo sviluppo di tecnologie avanzate di sistemi d'arma, come la partecipazione dell'industria italiana all'SDI (32) e limitazioni alle considerevoli attività di esportazione di armamenti.

Ci sono naturalmente varie altre possibilità, molte delle quali verranno esaminate nei capitoli seguenti. Per l'Italia, come per ogni altra nazione che contempli tali azioni, si pongono numerose domande: esiste un saldo sostegno dell'opinione pubblica per un cambiamento radicale di direzione? Il processo politico permette la realizzazione di misure unilaterali? Che tipo di passi unilaterali, che abbiano un senso, sono attuabili immediatamente? Sono possibili azioni di sovranità nazionale che migliorino il controllo degli armamenti, senza spaccare l'Alleanza atlantica? Se i bisogni dell'Alleanza in campo di sicurezza sono diversi da quelli dell'Italia, come influirà su entrambe l'unilateralismo? Esistono azioni che l'Italia può intraprendere che non abbiano un effetto positivo esclusivamente per quanto riguarda la sua propria sicurezza, ma che possano avere un'eco favorevole attraverso l'Europa - dell'est e dell'ovest?

7. Conclusioni

L'unilateralismo in Italia, in Europa occidentale, nel Pacifico e negli Stati Uniti offre importanti opportunità di ribaltare la competizione militare est-ovest. E ciò avviene perché il processo formale dei negoziati è intrinsecamente limitato anche durante i periodi migliori. Però il nuovo processo dell'unilateralismo non può sostituire interamente il vecchio - in realtà i risultati finali di molte iniziative simili sarebbero dei negoziati, esattamente come Kennedy concluse la moratoria dei test atmosferici mandando Averell Harriman a Mosca a codificare la messa al bando di tali test. Riduzioni di armamenti su vasta scala - in particolare di missili già schierati - richiedono trattative faccia a faccia, poiché la percezione della sicurezza nazionale è profondamente legata a tali armi. E' ovvio, tuttavia, che il vecchio processo di mediazioni e decisioni attorno al tavolo delle trattative sarebbe enormemente favorito se altre armi fossero state limitate o ritardate in precedenza; se la dottrina nucleare dest

abilizzante dell'occidente dovesse far posto a zone denuclearizzate e al rifiuto di strategie per il combattimento di una guerra nucleare, e se le potenze minori cominciassero ad affermare - tramite parole e fatti - di non essere più disposte a partecipare alla competizione nucleare che Mosca e Washington sembrano così determinate a perpetuare. Una volta intraprese, le misure unilaterali e reciproche potrebbero facilmente susseguirsi una all'altra, imprimendo uno slancio e rinforzando la fiducia nelle possibilità di limitazione degli armamenti.

NOTE

1. E' questo il periodo in cui l'autore ha terminato la redazione del presente capitolo. Come è chiaro da tutte le osservazioni fatte nel testo, allora il trattato sulle armi nucleari a raggio intermedio e più corto tra Usa e Urss - firmato a Washington l'8 dicembre del 1987 - non sembrava imminente (nota del curatore).

2. La disillusione cominciò, in realtà, poco dopo il più grande trionfo dei negoziati bilaterali: il SALT 1. Le trattative del periodo 1969-72 portarono sì al trattato ABM, che ha arrestato lo schieramento di armi difensive, ma le limitazioni su quelle offensive ebbero una cattiva riuscita. Come afferma George Kennan descrivendo il processo tipo SALT, ognuna delle parti "si sforza solo di mantenere per sé il maggior numero di armamenti, mettendo i suoi interlocutori nella situazione di massimo svantaggio". Inoltre, la messa al bando della tecnologia più profondamente offensiva emergente a quel tempo, le testate multiple, fu per la verità bloccata da Henry Kissinger, in parte come risposta alla violenta opposizione del Pentagono. Venne delusa anche la speranza di ridurre il numero di missili. Il negoziato diretto di Kissinger con il Cremlino produsse un frettoloso miscuglio di limitazioni sui missili che frenò a malapena l'Urss. Il risultato di tale processo, compresa quella che molti considerano un'esposizio

ne fuorviante del SALT davanti al Congresso (quando Kissinger menzionò limiti sui missili sovietici che non erano nell'accordo), fu la quasi rovina dell' 'arms control' negli Stati Uniti per il resto del decennio. I critici fecero leva sul disaccordo per screditare il processo e suonare l'allarme del declino dell'immagine americana nel mondo. Il SALT 2, firmato nel 1979, garantì nuovamente limiti generosi per i missili intercontinentali basati a terra (ICBM) e fu accolto senza entusiasmo sia dalla destra che dalla sinistra americana. Durante le trattative nacquero nuove terribili armi: in cambio dell'appoggio al SALT 1, Nixon promise al Pentagono il bombardiere B-1 e il sottomarino 'Trident', e il prezzo per il SALT 2 fu il programma dei missili da crociera. Si è tentati di attribuire il deprimente risultato del SALT alla vanità di Nixon e Kissinger - che volevano prima di ogni altra cosa un trattato, 'qualunque' trattato, per le elezioni del 1972 - ma il processo negoziale è costantemente legato alla politi

ca interna, fenomeno confermato dall'esperienza americana da quando Nixon si è dimesso in poi.

3. Il pacifismo ha una ricca e varia letteratura, e comprende sostenitori come Tolstoy, Gandhi, Einstein, Debs e molti altri che hanno articolato posizioni chiare e stimolanti. Una raccolta interessante che include documenti originali in versione integrale è C. Chatfield (a cura di), 'International War Resistance Through World War II', Garland, New York, 1975. Si veda per esempio il saggio "If We Should Be Invaded: Facing a Fantastic Hypothesis", di Jessie Wallace Hughan, scritto fra le due guerre mondiali, in cui viene delineato un piano di "difesa nonviolenta", pp. 619-642. Sull'evoluzione dal pacifismo all'unilateralismo si veda N. Hentoff (a cura di), 'The Essays of A.J. Muste', Bobbs-Merrill, Indianapolis, 1967. L'articolo di Muste del 1959 per la rivista 'Liberation', intitolato "Getting Rid of War", illustra chiaramente tale evoluzione e cita il libro di C. Wright Mills, 'The Causes of World War III' per la sua influenza particolare; egli menziona pure, e cita con approvazione, il libro di G.F. Kennan

del 1958, 'Russia, the Atom and the West'.

4. Tra gli esperti di controllo degli armamenti, insoddisfatti del processo formale, che suggeriscono azioni di stampo unilaterale ci sono G.B. Kistiakowsky ed H.F. York, "Strategic Arms Race Slowdown through Test Limitations", 'Science', 2 agosto 1974, pp. 403-406; F.A. Long, "Unilateral Initiatives", 'Bulletin of the Atomic Scientists', maggio 1984, pp. 50-54. Negli ultimi anni della sua vita anche Herbert Scoville ha scritto e parlato frequentemente delle possibilità di ciò che ha chiamato "limitazione unilaterale reciproca". Ci sono molti altri esempi, compresi alcuni come McGeorge Bundy e Robert McNamara, che verranno discussi in seguito in questo capitolo. Tutti e quattro gli uomini qui menzionati sono scienziati che hanno lavorato per il governo americano con funzioni legate al controllo degli armamenti.

5. 'Defence Without the Bomb', The Report of the Alternative Defence Commission, Taylor Francis, London, 1983, pp. 11-22.

6. Il dibattito è stato riacceso da un articolo a favore del 'no-first-use' di Bundy, Kennan, McNamara e Smith, "Nuclear Weapons and the Atlantic Alliance", 'Foreign Affairs', primavera 1982, pp. 753-768. Si veda anche la replica polemica da parte di quattro tedeschi occidentali, K. Kaiser 'et al.', "Nuclear Weapons and the Preservation of Peace: A German Response to No-First-Use", 'Foreign Affairs', autunno 1982, pp. 1157-1170.

7. M. Bundy, "Some Thoughts About Unilateral Moderation", ristampato in R. Kolkowicz e N. Joeck (a cura di), 'Arms Control and International Security', Westview Press, Boulder (Colorado), 1984, pp. 15-22. L'espressione più recente di questi ex funzionari governativi preoccupati dalla politica del primo uso si trova in "Back From the Brink", 'The Atlantic', agosto 1986, pp. 35-41.

8. J.M. Lee (direttore della ricerca), 'No First Use', Union of Concerned Scientists, Cambridge (Massachusetts), 1983, p. 8.

9. Nel gergo strategico per "controforza" ('counterforce') si intende un attacco rivolto contro le installazioni militari - in particolare le forze strategiche - dell'avversario. Capacità controforza è quindi la capacità di condurre un tale attacco con successo, cioè distruggendo l'obiettivo. Sempre in gergo, il termine 'counterforce' viene contrapposto a 'countervalue', che indica invece attacchi contro le città dell'avversario (nota del curatore).

10. B. Blair, 'Strategic Command and Control: Redefining the Nuclear Threat', The Brookings Institution, Washington DC, 1985, pp. 243-44. Si veda anche P. Bracken, 'The Command and Control of Nuclear Forces', Yale U.P., New Haven London, 1983, pp. 238-248.

11. J.W. Lewis e C.D. Blacker (a cura di), 'Next Steps in the Creation of an Accidental War Prevention Center', Center for International Security and Arms Control, Stanford University, Palo Alto, California, pp. 1-14. Si veda, nello stesso volume, anche W.J. Perry, "Measures to Reduce the Risk of Nuclear War", pp. 20-21.

12. S. Lodgaard e M. Thee (a cura di), 'Nuclear Disengagement in Europe', Taylor Francis, London, 1983, p. 15.

13. Cfr. 'Defence Without the Bomb', cit., pp. 98, 176-77.

14. Cfr., tra gli altri, J.M. Goshko, "Belgium to Delay Missiles", 'Washington Post', 16 gennaio 1985, p. A1; si veda anche il saggio del giornalista belga P. Belien, "Why the Belgians Backed Out Before They Backed In", 'The Wall Street Journal', 20 marzo 1985, p. 31.

15. 'Washington Post', 17 novembre 1985.

16. Non meglio identificati "alti funzionari della Difesa", citati da F. Hiatt, "Dutch Warned to Accept U.S. Missiles", 'Washington Post', 27 marzo 1984; cfr. anche "Text of Dutch Statement on Delay in Deploying of Missiles", 'New York Times', 2 giugno 1984.

17. Citato dal 'New York Times', 24 marzo 1984; il giurista olandese è Jan van Houten e il suo articolo è "Dutch Missile Treat: You Pay, We Bray", 'The Wall Street Journal', 16 maggio 1984.

18. Lo stesso giorno in cui veniva firmato il trattato Usa-Urss sui missili a raggio intermedio e più corto, tuttavia, il primo ministro olandese Ruud Lubbers annunciava che il suo paese avrebbe ripreso le due missioni nucleari (nota del curatore).

19. Cfr. W. Drozdiak, "Conventional Buildup Troubling NATO", 'Washington Post', 21 novembre 1984, p. A9; W. Drozdiak, "NATO Agrees on Buildup", 'Washington Post', 5 dicembre 1984, p. A1.

20. W. Branigin, "U.S. Ship Visits Spur Row in ANZUS Alliance", 'Washington Post', 26 gennaio 1985, p. A13; C. Mohr, "New Zealand Rebuff: A Baffling Furor", 'New York Times', 7 febbraio 1985, p. A10.

21. I. Templeton, "Lange Signals Readiness to Scrap ANZUS Pact, 'Washington Post', 28 settembre 1985, p. A16; S. Mydans, "New Zealand Dispute: Lange Draws the Line", 'New York Times', 6 ottobre 1985, p. 24.

22. G.F. Kennan, 'The Nuclear Delusion: Soviet-American Relations in the Atomic Age', Pantheon, New York, 1982, p. 179.

23. L'arsenale nucleare strategico degli Usa, per la verità, si è ridotto negli anni '60, ma ciò fu il risultato di modernizzazioni e ridefinizioni, piuttosto che un tentativo deliberato di diminuire gli armamenti intercontinentali. Nel 1960 gli Stati Uniti avevano 6068 tra bombe e testate nucleari, quasi tutte schierate sui bombardieri. Nel 1970 ne avevano 4000. Questa riduzione di 2000 denotò la progressiva sostituzione dei bombardieri a lungo raggio (inclusi quelli basati in Europa) con le testate dei missili balistici, che da 68 che erano nel 1960 sono aumentate a 1800 nel 1970 - oggi ce ne sono 8000. Inoltre gli Usa hanno semplicemente ridefinito ciò che costituisce un'arma strategica; molte bombe che prima erano incluse nelle forze strategiche sono entrate nella categoria "forze di teatro" e ciò rende conto ulteriormente della cosiddetta contrazione avvenuta tra il 1960 e il 1970. Le cifre provengono dall'International Institute for Strategic Studies (IISS) e altre fonti citate in P. Morrison 'et al.',

'Toward a New Security: Lessons of the Forty Years Since Trinity', Union of Concerned Scientists, Cambridge (Massachusetts), 1985, p. 37.

24. "Unilateral Cuts in Arms Possible, NATO Aide Says", 'Washington Post', 21 giugno 1983.

25. W. Pincus, "U.S. Is Rapidly Reducing Stockpile of Tactical Nuclear Arms in Europe", 'Washington Post', 17 gennaio 1986, p. A9.

26. Sul PTBT cfr. G.T. Seaborg, 'Kennedy, Khrushchev, and the Test Ban', University of California Press, Berkeley, 1981; A.M. Schlesinger, 'A Thousand Days: John F. Kennedy in the White House', Houghton-Mifflin, Boston, 1965; J.R. Killian, 'Sputnik, Scientists, and Eisenhower', MIT Press, Cambridge (Massachusetts), 1977, pp. 159-168; Committee on International Security and Arms Control, National Academy of Sciences, 'Nuclear Arms Control: Background and Issues', National Academy Press, Washington DC, 1983, pp. 187-223.

27. 'Arms Control and Disarmament Agreements', US Arms Control and Disarmament Agency, Washington DC, 1980, pp. 120-128; A.F. Neidle, "The Rise and Fall of Multilateral Arms Control: Choices for the United States", in E.C Luck (a cura di) 'Arms Control: the Multilateral Alternative', New York U.P., New York, 1983, pp. 12-14.

28. Cfr. R.L. Garthoff, "Banning the Bomb in Outer Space", 'International Security', anno quinto, numero 3, pp. 25-40; K.L. Adelman, "Arms Control With and Without Agreements", 'Foreign Affairs', inverno 1984, p. 260.

29. Gli altri sono gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania federale. Le esportazioni italiane, pari a 9,15 miliardi di dollari nel periodo 1974-82 (il 6 per cento di tutte le esportazioni dal "mondo libero"), sono andate principalmente alla Libia, all'Iran, al Venezuela e all'Arabia Saudita, un chiaro segnale della sua dipendenza dall'OPEC. Si veda M.T. Klare, 'American Arms Supermarket', University of Texas Press, Austin, 1984, pp. 206-211.

30. Cfr. S. Gilbert, "Antinuclear Groups Falling Flat In Italy", 'Washington Post', 21 ottobre 1983 e "Italians Approve Plan on Missiles", 'New York Times', 17 novembre 1983.

31. Cfr. IISS, 'The Military Balance, 1984-1985'; W.M. Arkin e R. Fieldhouse, 'Nuclear Battlefields: Global Links in the Arms Race', Ballinger, Cambridge (Massachusetts), 1985, p. 174.

32. Nel settembre del 1986 il governo italiano ha invece aderito all'SDI (nota del curatore).

 
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