di Marco De AndreisSOMMARIO: Questo articolo analizza gli strumenti internazionali esistenti per impedire la proliferazione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche. Auspica inoltre la creazione di un regime internazionale, o di un cartello di produttori, per fermare l'esportazione dei maggiori sistemi d'arma convenzionali.
(Micromega, aprile 1991)
Il 20 febbraio scorso, la seconda sezione del Tribunale penale di Brescia condannava a pene variabili tra un anno e sei mesi e un anno e dieci mesi di reclusione sette dirigenti della Valsella Meccanotecnica. Il reato era esportazione illegale di armi: nove milioni di mine anticarro e antiuomo erano finite in Iraq tra il 1982 e il 1986, passando prima per Singapore, in un classico caso di cosiddetta triangolazione.
Nelle stesse ore, in Arabia Saudita, il comando delle forze delle coalizione antirachena metteva a punto gli ultimi dettagli dell'offensiva terrestre volta a liberare il Kuwait. Grande cura veniva posta nella preparazione delle operazioni di sminamento - operazioni che, presumibilmente, continueranno in tutto l'emirato per parecchio tempo dopo la fine delle ostilità.
Non è stato questo l'unico paradosso delle Guerra del Golfo, poiché quasi la metà delle armi irachene era di provenienza occidentale. Il resto era stato acquistato da quella stessa Unione Sovietica che, pur non partecipando alle operazioni militari, ha appoggiato in tutte le sedi diplomatiche l'obiettivo del ripristino del governo legittimo del Kuwait. Gran parte di queste esportazioni, a differenza del caso della Valsella, erano avvenute alla luce del sole, in modo perfettamente legale, nel corso degli ultimi vent'anni.
Come se non bastasse tutto ciò, durante tutto il corso dell'operazione Desert Storm, si è continuato a temere che gli iracheni usassero le armi chimiche che sicuramente possedevano; mentre nessuno poteva escludere con assoluta certezza che quella decina di chili di materiale fissile in loro possesso non li avesse messi in grado di approntare un ordigno nucleare, per quanto rudimentale. Sia i programmi chimici che quelli nucleari si basavano su tecnologia occidentale.
Su chi, come, quando e per quanti soldi ha alimentato l'arsenale di Saddam Hussein è stato detto tutto, in particolare negli ultimi mesi, ed è abbastanza inutile ritornarci [per un quadro sintetico cfr. M. Dassù, 1990; per le esportazioni di armi italiane in particolare cfr. M. De Andreis, 1988; per i trasferimenti di tecnologia chimica cfr. K. R. Timmerman, 1990].
Meglio, forse, volgere l'attenzione agli strumenti disponibili - e a quelli che sarebbe opportuno creare - per evitare il ripetersi di fenomeni simili nel futuro.
Il Trattato di Non Proliferazione (TNP) nucleare, in vigore dal 1970, è un po' l'archetipo di tali strumenti. Esso si basa su uno scambio esplicito: i paesi che rinunciano a dotarsi di armi atomiche hanno diritto di accedere alla tecnologia nucleare civile, sottoponendo nel contempo tutte le proprie attività nel settore al controllo dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA).
Le critiche al TNP non sono mai mancate. Esso codifica - si dice - una situazione di ingiustizia: da una parte le potenze nucleari (Usa, Urss e Gran Bretagna), libere di possedere armi nucleari e non sottoposte ad alcun controllo; dall'altra gli Stati non-nucleari. Ancora: l'articolo VI del Trattato, che impegnava le potenze nucleari a intraprendere negoziati "in buona fede" per ridurre progressivamente i propri arsenali, è andato completamente disatteso; i paesi più interessati all'opzione nucleare militare non hanno aderito (Israele, Sudafrica, Pakistan, India, Argentina, Brasile); i controlli dell'AIEA sono inefficaci, perché si limitano a tener conto del materiale fissile senza vigilare su tutte le altre tecnologie associate alla costruzione di un ordigno nucleare.
Malgrado tutti questi limiti, però, il TNP è stato sottoscritto da più di 140 paesi e in vent'anni non si sono dati casi di violazione o di ripudio tra gli aderenti. Francia e Cina, che non ne fanno parte, hanno dichiarato la propria intenzione di comportarsi come se lo avessero sottoscritto e hanno aderito all'AIEA.
C'è stato solo un caso di flagrante doppio gioco: quello dell'Iraq che, pur avendo firmato e ratificato il trattato, ha continuato a sfruttare tutte le pieghe possibili per perseguire un proprio programma militare. Un caso su 141: ciò significa che almeno come segnale di larga massima delle intenzioni di un paese, il TNP funziona. La riprova sta nel fatto che tutti coloro che avevano invece interesse all'opzione nucleare, hanno avuto almeno il buon gusto di non aderire.
Recentemente si sono aperte buone prospettive per il rafforzamento del regime di non-proliferazione: il governo di Israele ha più volte ripetuto di essere pronto a discutere la creazione di una zona denuclearizzata in Medio Oriente. Lo smantellamento dell'apartheid e il passaggio a una democrazia piena in Sud Africa finiranno per influire, si spera, sulla politica estera e militare di quel paese. Brasile e Argentina hanno avviato delle misure di fiducia bilaterali e interrotto i propri programmi nucleari militari. Infine, l'imminente firma dello START, il trattato Usa-Urss sulla riduzione delle armi nucleari strategiche, dovrebbe almeno cominciare a dar corpo agli impegni contratti con l'art. VI del TNP.
Rimangono, certo, i problemi legati al controllo della tecnologia: oltre a vigilare sul materiale fissile è necessario impedire la diffusione delle tecniche di riprocessamento del plutonio e di arricchimento dell'uranio, nonché della panoplia di congegni (di misurazione, di innesco etc.) che occorre per approntare un ordigno. Qui, molto è lasciato all'iniziativa dei singoli esportatori e proprio l'apprensione creata dal caso iracheno lascia credere che i controlli siano destinati a restringersi. Ad esempio in Germania, dopo gli scandali seguiti ai trasferimenti di tecnologia chimica alla Libia e all'Iraq, si è proceduto a una riforma profonda di tali controlli. In Italia ci si comincia a muovere: nel settembre del 1990, Piccoli e Zamberletti hanno presentato una proposta di legge che è almeno una base di discussione. Infine gli Stati Uniti stanno già proponendo agli alleati di riciclare il Comitato di Coordinamento per i Controlli Multilaterali all'Esportazione (meglio noto come COCOM) dalla sua dimensi
one Est-Ovest a quella Nord-Sud [cfr. J. Markoff, 1991].
Il problema principale legato a queste iniziative è che quasi tutte le tecnologie sotto vigilanza hanno chiare applicazioni civili: per impedire la proliferazione nucleare, dunque, si rischia di strozzare lo sviluppo economico di un paese - come è appunto avvenuto, tutto sommato, col COCOM. Non è detto, però, che il dilemma non si possa risolvere. Si può pensare, ad esempio, a trasferire certe tecnologie sotto salvaguardia - proprio come fa l'AIEA col materiale fissile. Mentre un sano ricorso al buon senso non guasta mai: le intenzioni di un paese possono essere colte da una serie di indicatori, che vanno dal rispetto dei diritti umani alle spese militari e alla presenza o meno di ambizioni egemoniche regionali.
Nel 1995 si porrà il problema di rinnovare il TNP, che altrimenti scadrà. Sembra che ci siano tutte le premesse perché esso venga non solo rinnovato, ma anche rafforzato; in particolare se si riuscirà a mantenere, di qui ad allora, quel senso d'urgenza e di vigilanza innescato dalla guerra del Golfo.
Per quanto riguarda le armi chimiche, la conclusione positiva di negoziati che si trascinano da decenni è, come con lo START, imminente: anche in questo caso, sembra logico prevedere un'accelerazione dopo le vicende del Golfo. La parte del leone nei colloqui - formalmente multilaterali presso la Conferenza sul Disarmo a Ginevra - è stata fatta da Usa e Urss e non è escluso che la soluzione delle ultime divergenze nelle rispettive posizioni venga annunciata al prossimo vertice Bush-Gorbaciov.
L'accordo che si profila ricalcherà per molti versi il regime del TNP: i paesi aderenti rinunceranno allo sviluppo, alla produzione e allo stoccaggio di agenti chimici, accettando nel contempo di sottoporre le proprie attività industriali nel settore al controllo di un'agenzia internazionale che vigili sulla non diversione a fini militari. Di più e meglio rispetto al TNP, c'è il fatto che tutte le parti della Convenzione saranno sullo stesso piano, nel senso che tutti rinunceranno a questi ordigni e coloro che li possiedono si impegneranno a distruggere gli stock esistenti.
Si tratta, come si vede, di un grosso passo avanti rispetto al Protocollo di Ginevra del 1925 che impegnava gli aderenti al non-uso degli agenti chimici ma li lasciava liberi di dotarsene - l'Iraq, va notato, l'aveva sottoscritto.
Non diversamente dal regime di non-proliferazione nucleare, la Convenzione non sarà assolutamente impermeabile, tanto più che nel settore chimico le aree grigie tra tecnologie civili e militari sono assai più numerose. Occorreranno, dunque, una serie di cautele aggiuntive da parte dei principali esportatori - cautele singole e collettive: proprio come nel caso della proliferazione nucleare.
Un altro degli incubi ridestati da Hussein sono le armi biologiche: nel corso della guerra, il comando americano ha a un certo punto sostenuto di aver bombardato un centro di ricerca di tali armi alla periferia di Bagdhad; centro che gli iracheni sostenevano essere un impianto per la fabbricazione di latte in polvere.
La migliore garanzia contro lo sviluppo a fini militari di agenti infettivi e tossine sta nel fatto che esso richiede grandi e costosi sforzi, pone dei seri problemi di stoccaggio e di mezzi di disseminazione e ha degli effetti militari assai incerti - tra l'altro le epidemie non distinguono tra amici e nemici e il rischio di fare la fine dell'apprendista stregone è un deterrente da non sottovalutare. A questo va aggiunto che chiunque voglia dotarsi di armi di distruzione di massa ha a disposizione alternative migliori dove concentrare le proprie energie: appunto le armi nucleari e quelle chimiche. Quest'ultimo argomento, tuttavia, potrebbe mutarsi nel contrario se il TNP e la Convenzione sulle armi chimiche riuscissero a funzionare al meglio.
Per fortuna, comunque, non si parte da zero: è in forza, dal 1975, la Convenzione sulle armi biologiche e le tossine, che ne proibisce lo sviluppo, la produzione e lo stoccaggio. Vi hanno aderito 112 paesi. Due successive conferenze di revisione hanno migliorato i meccanismi di verifica, in origine assai scarsi. La terza conferenza di revisione è prevista proprio per quest'anno. Tra le misure urgenti necessarie al rafforzamento di questo regime vi sono: l'ampliamento del numero di aderenti; l'adozione di procedure per la verifica sul posto dei laboratori e degli impianti; un accordo per la trasparenza delle attività nei laboratori e per un migliore scambio di dati e informazioni tra le parti.
Non esiste niente - ma proprio niente: trattati, negoziati, colloqui - che riguardi invece la proliferazione delle armi convenzionali. Come accennato all'inizio, anche se avvengono talvolta forniture non autorizzate dalle autorità del paese d'origine e c'è un piccolo mercato clandestino, il grosso delle esportazioni di armamenti ha luogo in un quadro perfettamente legale. Tanto legale che non pochi paesi si danno da fare per sponsorizzare e promuovere all'estero i prodotti delle proprie industrie belliche - così come avveniva per gli aspirapolvere de "Il nostro agente all'Avana", o come accade per i frigoriferi e le automobili.
Ciò è manifestamente assurdo: non ci vuol molto a capire che, accumulate in grande quantità, le armi convenzionali diventano altrettanto pericolose di quei mezzi di sterminio di massa che la comunità internazionale ha da tempo ritenuto di limitare o eliminare. E a chi non fosse arrivato a capirlo prima, c'è da sperare che la Guerra del Golfo abbia aperto gli occhi una volta per tutte.
Non diversamente dagli altri casi visti sopra, le esportazioni di armamenti convenzionali e i trasferimenti delle tecnologie necessarie alla loro fabbricazione, possono essere regolati in via unilaterale, tramite le rispettive leggi nazionali, o multilaterale, tramite trattati o accordi.
Tutto quello di cui si dispone al momento è di natura unilaterale: le norme per l'esportazione di armi variano da paese a paese. Come è logico aspettarsi, ve ne sono di molto restrittive e di molto lasche, mentre alcuni (Francia, Gran Bretagna) non fanno mistero di sostenere sul "mercato" internazionale i propri prodotti bellici come e quanto possono.
L'Italia ha appena varato una nuova legge (9 luglio 1990, n. 185) che per la prima volta introduce alcuni principi importanti: l'esportazione di armi deve essere "conforme alla politica di sicurezza e di difesa" e dunque l'amministrazione dei relativi controlli spetta al ministero degli affari esteri e non a quello del commercio con l'estero; non si può esportare a paesi in guerra, a paesi colpiti da un embargo delle Nazioni Unite, a paesi che violino le convenzioni sui diritti dell'uomo, a paesi che destinino al proprio bilancio militare "risorse eccedenti le esigenze di difesa". Insomma un gran passo avanti rispetto al passato, anche se rimane il fatto che l'interpretazione delle limitazioni appena viste è per forza di cose affidata al giudizio soggettivo del governo. Inoltre essa arriva a chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati: negli ultimi anni le vendite di armi italiane all'estero si sono fortemente ridotte, sino quasi ad annullarsi, sia per la crisi finanziaria dei clienti abituali (p
aesi del Terzo Mondo), sia per la scarsa concorrenzialità dei "prodotti".
Nel campo delle iniziative multilaterali, invece, esistono due soli precedenti: un fiasco e un parziale successo. Il fiasco è rappresentato da un tentativo fatto nel 1977 dall'amministrazione Carter. Dopo aver annunciato una politica unilaterale restrittiva in materia di esportazione di armamenti convenzionali, l'ultimo presidente democratico avviò dei colloqui bilaterali con l'Unione Sovietica detti Conventional Arms Transfer Talks (CATT). Furono tenute tre sessioni, sino al luglio del 1978. Il capo della delegazione americana, Leslie Gelb (che è, tra l'altro, un giornalista del New York Times) testimoniò in ottobre al Congresso, sostenendo che l' armonizzazione dei criteri nazionali sembrava già possibile. Pochi mesi dopo, però, la rivoluzione in Iran e l'invasione sovietica dell'Afghanistan travolsero tutti i negoziati di controllo degli armamenti, ivi inclusi i CATT.
Un parziale successo è invece il Missile Technology Control Regime (MTCR), un accordo dell'aprile del 1987 sottoscritto da Usa, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone e Italia, volto a impedire l'esportazione di missili balistici con portata superiore a 300 km e carico pagante di più di 500 kg. Si tratta di un successo solo parziale perché: è arrivato tardi, quando parecchi paesi del Terzo Mondo (Brasile, Argentina, Israele, Egitto, Iraq etc.) avevano già avviato ambiziosi programmi missilistici; diversamente da quanto fa pensare la sua denominazione, esso non prevede controlli all'esportazione di componenti e tecnologia utili per lo sviluppo dei vettori; non vi fanno parte la Cina e l'Unione Sovietica. Sull'altro piatto della bilancia vanno tuttavia messe altre considerazioni. Anche a causa di difficoltà finanziarie, vari programmi sono stati rallentati se non fermati del tutto: è il caso del progetto iracheno-argentino-egiziano Condor2, dei programmi brasiliani e di quelli indiani. Inoltre
, nel 1989 la Spagna si è associata all'MTCR, la Svezia ha dichiarato di applicarne le misure, pur non aderendo formalmente, e lo stesso ha fatto l'Unione Sovietica nel 1990.
Regime di Controllo della Tecnologia Missilistica: una sigla più fuorviante di questa non poteva essere scelta. Non solo perché, come appena ricordato, controlla molto poco tale tecnologia; ma anche perché non è un regime. Non lo è, almeno, nel senso in cui lo sono il TNP o la prossima Convenzione sulle armi chimiche, che mettono tutti gli aderenti sullo stesso piano, esportatori e importatori, produttori e consumatori. Insomma, l'MTCR è un cartello di produttori che, come in tutti i cartelli, si sono messi d'accordo per non farsi le scarpe tra loro, per evitare che l'interesse a breve del singolo pregiudichi quello collettivo nel lungo periodo.
I cartelli generano sempre risentimento negli esclusi: anche in questo caso parecchi paesi in via di sviluppo si sono affrettati ad accusare il Nord di voler bloccare i loro tentativi di sfruttamento pacifico dello spazio (i missili balistici, oltre agli usi militari, servono a mettere in orbita i satelliti). Queste critiche hanno qualche fondamento, e non sarebbe certo male se gli aderenti all'MTCR offrissero ai paesi più poveri condizioni agevolate per il lancio dei loro satelliti civili. Come che sia, la diffusione dei missili balistici è un fenomeno troppo pericoloso (di nuovo: Saddam insegna) ed è benvenuto ogni sforzo volto a limitarla.
Rimane il fatto che niente di multilaterale - regime, cartello o quant'altro - esiste a tutt'oggi per fermare la proliferazione delle armi convenzionali. E' il caso, allora, di provare a promuovere qualcosa.
Chi scrive è l'estensore di una mozione presentata alla Camera dal Partito Radicale (primo firmatario: Emma Bonino) in cui si impegna il governo "ad agire in tutte le sedi...per la creazione di un regime internazionale o, in subordine, di un cartello di produttori per impedire il trasferimento ai paesi in via di sviluppo dei maggiori sistemi d'arma convenzionali...nonché della tecnologia e dei componenti necessari alla loro fabbricazione" [per "maggiori sistemi d'arma convenzionali" si intendono: aerei, elicotteri, navi, veicoli corazzati, missili, artiglieria di calibro superiore ai 100mm, radar e apparati elettronici di controllo]. Il testo così prosegue: "Nell'ambito di tale regime o cartello, e in modo analogo a quanto previsto dal Trattato di Non-Proliferazione nucleare, dovrebbero venir offerti garanzie e incentivi per il trasferimento di tecnologia civile (contestualmente alla creazione di salvaguardie per impedirne la diversione a fini militari) a quei paesi che rinuncino ad acquisire armi conve
nzionali sofisticate e alla relativa tecnologia, che riducano le proprie spese militari e che conformino la propria politica interna ai principi democratici e al rispetto rigoroso dei diritti umani".
In pochi giorni, questo documento ha raccolto più di cento firme e, quel che più importa, tra tutti i gruppi parlamentari. Tra i firmatari figurano i responsabili esteri di alcuni partiti - Margherita Boniver per il PSI, Giorgio Napolitano per il PDS - e il presidente della Commissione esteri della Camera, Flaminio Piccoli. Una mozione simile è stata presentata al Parlamento Europeo dal Gruppo Verde.
Il relativo successo di quest'iniziativa va preso con una certa cautela. Primo, perché si è avvantaggiata dell'atmosfera creata dalla Guerra del Golfo, dove tutti hanno dovuto prendere atto di ciò che può conseguire all'esportazione indiscriminata di armamenti. E poi perché resta da vedere come verrà accolta all'estero, nell'ipotesi ottimistica che il governo italiano se ne faccia portavoce in piena buona fede.
Vale in ogni caso la pena di provare a vedere se l'idea di bloccare il flusso di armamenti convenzionali dal Nord al Sud sia realmente praticabile. Qui di seguito si prenderanno in considerazione alcune delle possibili obiezioni tra le infinite immaginabili. Per comodità verranno divise tra, diciamo, quelle di realpolitik e quelle di principio. Cominciamo dalle prime.
Si può obiettare, ad esempio, che le esportazioni di armi sono uno strumento della diplomazia, procurano alleati e clienti. Tutto ciò è vero. Tuttavia può benissimo scontrarsi con altre priorità, come quella di evitare che gli alleati e i clienti finiscano per menare loro la danza: cambiando protettore, perseguendo obiettivi del tutto autonomi, rivolgendo le armi contro gli stessi fornitori. Vi sono stati parecchi repentini cambiamenti di campo nel recente passato - basterà ricordare l'Egitto e l'Etiopia - tanto da far parlare di un buyers market, un mercato delle armi dominato dai compratori. Inoltre, la politica delle sfere di influenza sembra in piena fase recessiva: se non altro perché l'Unione Sovietica non ha più le energie e le voglia di continuare questa partita. Il Patto di Varsavia è stato appena sciolto, Mosca ha abbandonato a se stessi tutti i suoi clienti compreso, ancora una volta, l'Iraq. Il venir meno di uno dei due poli riduce fortemente i margini di manovra dei compratori. A meno di gi
ganteschi passi indietro da parte dei sovietici, dunque, sembra si apra finalmente la possibilità di acquisire influenza prescindendo dai trasferimenti di armi.
L'altra obiezione di realpolitik riguarda gli interessi. In parole povere: esportare armamenti è una proficua attività economica. Ora, dal punto di vista delle singole aziende produttrici ciò è senz'altro vero. Resta da vedere se non nasconda diseconomie esterne assai più consistenti e quanto realmente incida sul reddito dei paesi esportatori.
La tabella 1 presenta alcuni dati relativi alle esportazioni di armi di tredici paesi: insieme rappresentano circa il 95% di tutte le esportazioni mondiali. Come si vede, in nessun caso esse arrivano all'1% della ricchezza prodotta annualmente nel paese considerato. Molto bassa è anche la loro incidenza sull'export complessivo, con due importanti eccezioni: gli Stati Uniti (5%) e l'Unione Sovietica (quasi il 20%). Nel primo caso, tuttavia, c'è da dire che molti dei trasferimenti si rivolgono non a paesi in via di sviluppo, quanto piuttosto a paesi dell'area OCSE. Dal canto suo, L'Urss sconta la propria chiusura agli scambi commerciali con l'estero e la propria scarsa competitività: oltre alle armi, questo paese esporta quasi esclusivamente energia e materie prime. La controprova di ciò sta nel fatto che l'incidenza dell'export bellico sul prodotto interno è solo marginalmente superiore agli altri paesi della tabella.
Questi dati trascendono, ovviamente, dai mezzi di finanziamento. Parecchi indizi fanno pensare che le importazioni di armi abbiano una particolare propensione alla creazione di debito. Nel 1989, il presidente della Banca Mondiale Conable ha stimato che circa un terzo del debito di alcuni dei paesi del Terzo Mondo più esposti sia da attribuire all'importazione di armi [Sipri, 1990, p. 210]. Un buon trenta percento delle forniture di armi statunitensi a Egitto e Israele è finanziato dal contribuente americano [Sipri, 1990, p. 233] attraverso crediti che vengono periodicamente condonati: l'ultimo caso riguarda sette miliardi di dollari a carico dell'Egitto, cancellati a seguito dell'embargo all'Iraq nell'autunno del 1990. Ancora: nel settembre del 1989, la Francia aveva acconsentito a una ristrutturazione del debito iracheno, pari a 3,7 miliardi di dollari, metà dei quali dovuti a trasferimenti di armi. Sono soldi che, è facile prevedere, i francesi non rivedranno mai. L'Unione Sovietica, dal canto suo, è
sulla carta un creditore netto: se solo potesse rientrare di crediti a tutti gli effetti inesigibili; crediti imputabili in buona parte a esportazioni di armi in Africa e in America Latina. E infine l'Italia: non solo dovremo tenerci la flotta (quattro fregate, sei corvette, una nave appoggio) ordinata nel 1980 da Bagdhad, ma davvero non si vede come potremo rientrare dei 3500 miliardi concessi agli iracheni dalla filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro e anch'essi destinati all'importazione di armi.
Anche senza tener conto di tutti questi sussidi impliciti, resta comunque il fatto che il commercio di armamenti costituisce una frazione trascurabile - qualche decimo di punto percentuale - del reddito dei paesi che li producono. Questa realtà è completamente rovesciata se uno la guarda dal lato di chi le armi le importa: le spesi militari di paesi come Arabia Saudita, Siria, Iraq, Yemen, Libia, Israele non sono mai scese, negli ultimi dieci anni, sotto il 10 percento dei rispettivi PIL, con punte di quasi il 30 percento. Dunque, per noi questi traffici sono un'inezia economica, mentre per i destinatari sono una tragedia che falcidia il soddisfacimento dei bisogni primari e lo sviluppo.
Le critiche di principio sollevano tutt'altre questioni. Un regime, e ancor più un cartello, sancirebbero una situazione di ineguaglianza: da una parte il Nord libero di produrre armi convenzionali e di commerciarle al suo interno; dall'altra il Sud, cui viene negato l'accesso alle tecnologie avanzate e persino il diritto alla propria sicurezza.
Qui c'è subito da osservare che il Sud del mondo non è un'entità indifferenziata, ma una molteplicità di stati-nazioni, retta da governi che non sempre basano le proprie scelte su pure considerazioni di sicurezza e di difesa. Esistono politiche egemoniche e di potenza anche nel Sud, attuate spesso da regimi autoritari e dittatoriali. Non si vede perché tali politiche debbano venir assecondate mettendo a loro disposizione il massimo della tecnologia bellica mondiale. Così come singoli Stati sono liberi, sino a prova del contrario, di discriminare tra i potenziali destinatari della propria produzione di armamenti, allo stesso titolo possono esserlo gruppi di Stati. Il cartello è un passo necessario per agire dal lato dell'offerta, per evitare che i produttori soccombano alla vecchia logica del "tanto se non esporto io, lo farà il mio vicino".
Ma è evidente che occorrono altre misure per agire dal lato della domanda. Si tratta prima di tutto di misure politiche che rimuovano le cause dei conflitti locali. In questo senso andrebbero avviate conferenze regionali modellate sulla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, capaci cioè di sciogliere i nodi della sicurezza, del disarmo e della cooperazione tra gli Stati; della democrazia e dei diritti umani nella politica interna agli Stati.
Oltre a ciò, il Nord può offrire un sistema di incentivi: aiuti economici e trasferimenti di tecnologia civile (eventualmente sotto salvaguardie) ai paesi con un più basso profilo militare e con un più alto profilo di politica interna. Si tratta di allargare gli aspetti di condizionalità degli aiuti dalla sfera economica a quella politica. Si può anche pensare a garanzie di sicurezza negative (non uso delle armi contro i paesi che rinunciano a possederle) e positive (protezione ai paesi sprovvisti di armi, contro l'attacco, o la minaccia di attacco, da parte di chi le possiede).
Infine la questione dell'ineguaglianza. Ora, è indubbio che lo schema qui proposto sanzionerebbe una divisione del mondo tra "potenze convenzionali" e Stati non-militari o quasi. Ma, al di là del fatto che questa divisione è già nelle cose, ciò che conta è accettarla solo in via transitoria. L'esempio da seguire è proprio quello del Trattato di Non Proliferazione, dove 138 paesi non-nucleari convivono con tre altri paesi cui viene riconosciuto uno status diverso, quello di potenze nucleari. La base per questa convivenza è che la divisione sia transitoria: l'art. VI già ricordato chiama le potenze nucleari a adoperarsi per disarmare.
Sembra di poter dire che una sorta di articolo VI sia già all'opera in campo convenzionale: si pensi al Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa, firmato a Parigi il 19 novembre scorso. Insomma, lo smantellamento degli enormi apparati militari della NATO e del Patto di Varsavia - il vero motore della corsa al riarmo di questo dopoguerra - è cominciato.
Si tratta ora di continuare e di estendere questo processo al resto del pianeta.
Bibliografia
- M. Dassù, "Le armi di Saddam", Politica ed Economia, dicembre 1990.
- M. De Andreis, "Le esportazioni italiane di armi all'Iraq e all'Iran", CeSPI Note & Ricerche n. 18, marzo 1988.
- J. Markoff, "U.S. Seeks Restrictions on Third World Arms", International Herald Tribune, 22 gennaio 1991.
- SIPRI Yearbook 1990, World Armaments and Disarmament, Oxford University Press, Oxford, 1990.
- K. R. Timmerman, "The Poison Gas Connection", rapporto commissionato dal Centro Wiesenthal alla Middle East Defense News, Los Angeles e Parigi, 1990.
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Valore delle esportazioni di armamenti di 13 paesi industrializzati. Anno 1987 (tra parentesi il 1986). In milioni di dollari correnti.
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armi armi come % armi come %
del totale del PIL
export
Grandi Produttori
Con questo termine si intende indicare quei paesi in grado di produrre gran parte dei maggiori sistemi d'arma (aerei, elicotteri, navi, veicoli corazzati, missili, cannoni di calibro superiore ai 100 mm, radar e centrali di tiro) senza assistenza dall'estero (produzioni su licenza, importazione di componenti-chiave etc.)
USA 12600 5,0 0,3
(9100) (4,2) (0,2)
URSS 21200 19,7 0,9
(19100) (19,7) (0,8)
Francia 2600 1,8 0,3
(4000) (3,2) (0,5)
Gran Bretagna 2100 1,6 0,3
(1400) (1,3) (0,2)
Germania federale 1800 0,6 0,1
(625) (0,3) (-)
Cina 1000 2,5 0,2
(1200) (3,8) (0,3)
Medi Produttori
Con questo termine si intende indicare quei paesi che, pur producendo maggiori sistemi d'arma, sono fortemente dipendenti dall'estero (produzioni su licenza, importazione di componenti-chiave).
Italia 210 0,2 -
(550) (0,6) (-)
Canada 120 0,1 -
(130) (0,1) (-)
Giappone 80 - -
(130) (0,1) (-)
Svezia 160 0,4 0,1
(290) (0,8) (0,2)
Svizzera 180 0,4 0,1
(190) (0,5) (0,1)
Spagna 100 0,3 -
(140) (0,5) (-)
Olanda 180 0,2 -
(20) (-) (-)
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NOTA BENE: il segno "-" indica un valore inferiore allo 0,1. Nei 13 paesi elencati originano circa il 95% delle esportazioni mondiali di armamenti. Circa i due terzi di queste ultime sono dirette a paesi in via di sviluppo e un terzo a paesi industrializzati.
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FONTE: Arms Control and Disarmament Agency, World Military Expenditures and Arms Transfers 1988 (Washington DC: U.S. Government Printing Office, 1989).