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Archivio Partito radicale
Bonino Emma - 15 luglio 1993
LINEE D'INIZIATIVA POLITICA
di Emma Bonino, segretaria del Partito radicale

RIUNIONE DELL'ASSEMBLEA DEI PARLAMENTARI E DEL CONSIGLIO GENERALE

Sofia, 15/18 luglio 1993

SOMMARIO: Nell'assumere le funzioni di segretario politico del partito radicale dopo l'elezione avvenuta al Congresso di Roma del febbraio 1993, Emma Bonino traccia le linee programmatiche di iniziativa ritenute prioritarie nella nuova dimensione transnazionale. La lunga relazione è introdotta da tre paragrafi (Le ragioni del Partito radicale; Compiti e priorità del Partito radicale; Panorama di iniziative possibili) nei quali si mette in luce l'apparente discrepanza tra la situazione politica ("Gli eventi internazionali di questi ultimi anni sembrerebbero aver realizzato in gran parte le aspirazioni politiche di cui è stato storicamente portatore il partito radicale...") e la realtà effettuale, che deve constatare invece "l'incapacità dei maggiori governi a prefigurare un nuovo ordine mondiale fondato sulla giustizia, sul diritto e sulla capacità di garantire a tutti sicurezza e sviluppo". Di questa crisi mondiale si danno numerosi esempi, dalla Jugoslavia alla Somalia. Dalla constatazione emerge la necessi

tà che il partito radicale transnazionale si assuma la responsabilità di avviare una serie di iniziative che valgano a correggere o a modificare la tendenza.

La relazione indica quindi i settori di intervento che Emma Bonino privilegerà nel suo mandato. Essi riguardano a) Le Nazioni Unite e i loro problemi di rafforzamento e democratizzazione; b) l'exJugoslavia e le possibili iniziative politiche da assumere; c) l'ambiente; d) la droga; e) l'AIDS; f) la Lingua Internazionale. Di questa suddivisione una più dettagliata spiegazione viene fornita nella relazione, e ad essa rimandiamo.

Per quanto concerne i contenuti affrontati sotto nei capoversi corrispondenti alla suddivisione sopra indicata rinviamo, per necessità di spazio e per semplicità espositiva, alle SINTESI premesse a ciascun paragrafo: una loro ripetizione in questa sede sarebbe superflua.

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INDICE

Le ragioni del Partito radicale

Compiti e priorità del Partito radicale

Panorama di iniziative possibili

1. NAZIONI UNITE:

- Tribunale internazionale permanente

- Tribunale contro i crimini di guerra nell'ex-Jugoslavia

- Istituzione di un organo parlamentare presso le UN: le diverse opzioni

- Assemblea generale dei parlamentari degli stati membri dell'ONU

- Considerazioni sulle opzioni

- Modifica del ruolo delle UN per il mantenimento della pace ed il rafforzamento dell'intervento umanitario - Corpi civili per la democrazia

- Abolizione della pena di morte entro il 2000

- I diritti delle minoranze nazionali

2. EX-JUGOSLAVIA:

- Disconoscimento della Repubblica federale di Jugoslavia

- Tutela del Kossovo

- Macedonia

- Federazione balcanica

3. AMBIENTE:

- La protezione ambientale e lo sviluppo ecologicamente sostenibile dell'Europa centro-orientale

- Campagna per l'efficienza energetica e la chiusura delle centrali nucleari pericolose

- Campagna per l'istituzione della comunità dei grandi fiumi e delle idrovie

- Campagna per il diritto all'informazione

4. DROGA:

- La politica antiproibizionista

- Campagna per la denuncia delle convenzioni internazionali sugli stupefacenti

5. AIDS:

- Una strategia pragmatica

- L'iniziativa nei confronti dell'OMS

6. LINGUA INTERNAZIONALE:

- Il diritto alla lingua

Le scelte

Quale strumento per queste battaglie

[La mozione approvata dal 36· Congresso del Partito radicale - 4/8 febbraio 1993 - incaricava il segretario di presentare alla prima riunione del Consiglio Generale le »linee d'iniziativa politica definite d'intesa con gli organi uscenti - Hanno collaborato: Angiolo Bandinelli, Giandonato Caggiano, Roberto Cicciomessere, Marco De Andreis, Sergio D'Elia, Gianfranco Dell'Alba, Olivier Dupuis, Giorgio Pagano, Mauro Politi, Danilo Quinto, Filippo di Robilant, Mario Signorino]

Le ragioni del Partito radicale

Apparentemente gli eventi internazionali di questi ultimi anni sembrerebbero aver realizzato in gran parte le aspirazioni politiche di cui è stato storicamente portatore il Partito radicale.

Molte cose sono cambiate infatti da quando i radicali "storici" conducevano le azioni politiche nonviolente nei paesi a regime totalitario rivendicando - completamente isolati - il diritto d'ingerenza ovunque si dovesse ristabilire il rispetto dei diritti della persona tutelati da trattati e delibere vincolanti per tutti i paesi rappresentati alle Nazioni Unite. Tutta la cultura politica prevalente, non solo quella comunista, affermava invece che la difesa dei diritti della persona doveva arrendersi davanti al principio della sovranità nazionale. In nome dell'ipocrita sacralizzazione del principio di "non ingerenza negli affari interni" che ha consentito ai dittatori dell'est e del sud di massacrare i propri popoli, l'Occidente ha per quarant'anni assistito inerte - quindi complice - al genocidio di intere popolazioni, alla compressione più brutale dei diritti sanciti dai trattati internazionali.

Oggi il diritto-dovere d'ingerenza a tutela dei diritti inviolabili e inalienabili della persona si sta affermando nell'ambito delle maggiori istituzioni internazionali e in nome di questo diritto il Consiglio di sicurezza delle nazioni Unite ha potuto condurre azioni di peace-keeping e peace-enforcing in numerosi paesi.

Ma ancora, con 10 anni di ritardo rispetto alle richieste radicali formalizzate in numerosi atti parlamentari, i paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza hanno indicato come »nuove minacce alla pace" la povertà, l'aumento della popolazione, i disastri ambientali. Inutilmente nei primi anni '80 chiedemmo che il Consiglio deliberasse un intervento straordinario per arrestare lo sterminio per fame in atto nel sud del mondo in considerazione della grave minaccia alla sicurezza internazionale che tale situazione determinava.

[A conclusione della 3046 riunione del Consiglio di Sicurezza, svoltasi a livello di Capi di Stato e di Governo il 31 gennaio 1992 il Presidente di turno - John Major - a nome del Consiglio fece la seguente "Dichiarazione": »l'assenza di guerra o di conflitti armati tra Stati non assicurano di per sé pace e sicurezza. Fonti non militari di instabilità in campo economico, sociale, umanitario ed ecologico, sono diventate minace alla pace e alla sicurezza. Le Nazioni Unite, in quanto tali, attraverso le diverse Organizzazioni devono dedicare il massimo sforzo alla soluzione di questi problemi ... »Il Consiglio di Sicurezza riconosce che pace e sviluppo sono indivisibili e che pace e stabilità durature richiedono una efficace cooperazione internazionale per sradicare la povertà e promuovere una migliore qualità di vita per tutti in condizioni di maggiori libertà ]

Anche la tradizionale battaglia antimilitarista del Partito radicale, che proponeva in ultima analisi come obiettivo principale il trasferimento delle prerogative nazionali in materia di difesa e di sicurezza ad istituzioni sovranazionali, inizia a trovare i primi riscontri politici ed operativi. In numerosi paesi le stesse dottrine militari, con la scomparsa dei "nemici" alle frontiere, delimitano sempre più le ipotesi d'impiego delle forze armate alla cooperazione internazionale in ambito ONU e non escludono pregiudizialmente la prospettiva della costituzione di forze militari delle Nazioni Unite a carattere non-governativo, sottoposte ad un comando internazionale. Certamente le resistenze all'attuazione integrale dell'articolo 43 dello Statuto delle nazioni Unite è ancora fortissima ma è significativo che anche le più grandi potenze ritengano oggi preferibile operare sotto l'ombrello delle Nazioni Unite piuttosto che sotto la esclusiva bandiera nazionale.

[Art. 43 dello Statuto delle Nazioni Unite: 1. Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle Nazioni Unite s'impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l'assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessarie per il mantenimento della pace e delle sicurezza internazionale.

2. L'accordo o gli accordi suindicati determineranno il numero ed i tipi di forze armate, il loro grado di preparazione e la loro dislocazione generale, e la natura delle facilitazioni e dell'assistenza da fornirsi.

3. L'accordo o gli accordi saranno negoziati al più presto possibile su iniziativa del Consiglio di Sicurezza. Essi saranno conclusi tra il Consiglio di Sicurezza ed i singoli Membri, oppure tra il Consiglio di sicurezza e gruppi di Membri, e saranno soggetti a ratifica da parte degli Stati firmatari in conformità alle rispettive norme costituzionali]

Questi esempi sembrerebbero perciò delineare l'esistenza di un accordo generalizzato per la costruzione di un nuovo ordine mondiale basato sull'effettività del diritto internazionale e sulla capacità delle istituzioni a carattere sovranazionale di difendere i diritti della persona e la democrazia in tutto il mondo.

Purtroppo la situazione - pur con gli innegabili passi in avanti nella direzione da molti auspicata - è molto diversa e la rinuncia delle istituzioni a carattere sovranazionale ad arrestare l'operazione di "pulizia etnica" e di genocidio in atto nella Bosnia-Erzegovina, l'accettazione dei nuovi confini che Serbia e Croazia hanno ridisegnato con la guerra, testimoniano nella maniera più drammatica la crisi dell'ONU, della CSCE, dell'Unione Europea e l'incapacità dei maggiori governi a prefigurare un nuovo ordine mondiale fondato sulla giustizia, sul diritto e sulla capacità di garantire per tutti sicurezza e sviluppo.

Accade infatti che se da una parte le Nazioni Unite vengono caricate di sempre maggiori responsabilità, dall'altra sono ancora prive degli strumenti giuridici, operativi e finanziari per esercitare efficacemente questo ruolo internazionale facendo rimanere lettera morta gran parte delle risoluzioni del Consiglio. Significativo è osservare che se le missioni di peace-keeping si sono moltiplicate rispetto al passato, un solo dollaro ogni 1.500 spesi per la difesa nazionale dai paesi sviluppati viene devoluto per le missioni delle NU. Stesse prospettive di fallimento per quanto riguarda la lotta alla povertà e contro lo sterminio nel sud del mondo che vede la progressiva riduzione dei contributi nazionali e il definitivo abbandono dell'obiettivo dello stanziamento a questi fini di almeno lo 0,70% del Pil, come stabilito nel lontano 1970 dalla risoluzione n. 2626 dell'Assemblea delle NU. Al fallimento della conferenza di Rio sull'ambiente fa seguito quello della conferenza di Vienna sui diritti umani che si è an

ch'essa conclusa con un nulla di fatto. In particolare mentre è diffusa la consapevolezza del carattere globale e sovranazionale della questione ambientale, della necessità ed urgenza di "leggi" internazionali e di una politica che affronti le singole tematiche nell'ambito delle strategie di sviluppo, di democrazia, di sicurezza e di cooperazione internazionali, assolutamente carenti sono gli strumenti politici e giuridici che consentano di superare i confini e i poteri degli Stati. Totalmente abbandonati sono inoltre tutti i progetti per un controllo internazionale del commercio delle armi. Infine il problema della democratizzazione delle Nazioni unite è per ora discusso prevalentemente al di fuori di questa istituzione poiché i governi sembrano più interessati alla questione dell'allargamento dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza piuttosto che ad una riforma più generale dell'Onu e delle sue procedure decisionali, anche attraverso l'istituzione di un organismo parlamentare.

A questa situazione di crisi - che speriamo sia di crescita - delle Nazioni Unite e ad alcuni errori come quelli compiuti in Somalia, che rischiano di deteriorare il prestigio di cui gode questa istituzione, fa eco il fallimento della costituenda Unione Europea che ha dimostrato in maniera definitiva di non voler essere il punto di riferimento autorevole e il modello politico autenticamente federale di riferimento per tutti i paesi dell'ex impero sovietico impegnati nella costruzione di nuovi sistemi democratici e sconvolti dalle tensioni nazionaliste interne e regionali. Accecati dalle crisi economiche, politiche e sociali interne, i paesi della Comunità europea hanno rinunciato a svolgere qualsiasi ruolo non solo nei confronti dell'ex-Jugoslavia ma anche nei confronti di tutti quei paesi che pur avevano mostrato interesse ad un loro progressivo ingresso nella Comunità nella speranza che questa potesse offrire una maggiore capacità di governare le tensioni nazionali interne. Analoga assenza e indifferenza p

er tutte le altre drammatiche tragedie che si consumano in tante parti dell'Europa centrale o orientale nonché sul territorio dell'ex Unione Sovietica, a partire dal Nagorno-Karabakh e dal Kossovo.

Un altro elemento di crisi del sistema internazionale è rappresentato dalla politica sulla droga che sempre più mostra il suo carattere "autolesionista" e profondamente lesivo dei diritti della persona. La politica proibizionista imposta a livello internazionale ha infatti completamento mancato il suo obiettivo e gli Stati assistono impotenti agli effetti devastanti che ha prodotto nei rispettivi sistemi sociali e giudiziari e all'inquinamento economico e politico determinato dagli enormi profitti ricavati dalle organizzazioni criminali internazionali e delle mafie locali.

Si assiste infine alla caduta progressiva di interesse alle questioni internazionali da parte delle famiglie politiche dei paesi industrializzati. Anche i partiti di antica tradizione europeista e federalista hanno abbandonato nei fatti ogni impegno nei confronti dello sviluppo dell'Unione europea in senso democratico e federale e non come giustapposizione di governi. Accade così che mentre l'opinione pubblica dei paesi industrializzati viene sempre più ampiamente informata sugli eventi internazionali, di conseguenza percepisce in maniera sempre più chiara i rapporti d'interdipendenza fra il proprio benessere, la propria sicurezza e quella degli altri paesi meno sviluppati e manifesta sconcerto di fronte all'incapacità della comunità internazionale a far fronte in modo risolutivo - una volta caduto l'alibi dell'opposizione del blocco sovietico ad ogni ingerenza nelle politiche nazionali - alla barbarie della guerra e del genocidio e a garantire il rispetto degli elementari diritti della persona, le classi di

rigenti nazionali si muovono come se tutto ciò non riguardasse la politica, i programmi di governo e le scelte economiche. Nell'assenza di un impegno politico di questa natura buon gioco hanno le emergenti forze nazionaliste e xenofobe nell'imporre l'attenzione politica esclusivamente sugli elementi di crisi interna.

Compiti e priorità del Partito radicale

Questa situazione di crisi della politica internazionale e delle istituzioni sovranazionali è aggravata dallo stato confusionario della "politica estera" di molti paesi fra cui gli Usa, per le scelte dell'amministrazione Clinton, e la Russia, per gli evidenti problemi di politica interna. Non si manifesta infatti alcun segnale che mostri da parte dei governi delle maggiori potenze la consapevolezza dei pericoli che tutto il mondo corre nel momento in cui si accetta, ancora una volta in nome del "realismo", di barattare una precaria pace con il riconoscimento di quei regimi che sul razzismo, il totalitarismo e la "pulizia etnica" hanno costruito il loro potere e con l'accettazione delle conquiste territoriali ottenute per mezzo della guerra di aggressione. Non vi sono neppure indicazioni sull'intenzione d'investire maggiore risorse nel rafforzamento delle Nazioni Unite e delle altre istituzioni a carattere sovranazionale al fine di scongiurare anche per il futuro nuove e più gravi sconfitte della democrazia.

Inoltre, come abbiamo visto, nessuna inversione di rotta si può registrare nella politica proibizionista sulla droga, a parte alcuni ripensamenti dell'organizzazione specializzata delle Nazioni Unite (UNDCP), e scarsi risultati ha avuto, nel corso della Conferenza di Rio de Janeiro, il tentativo di promuovere e rendere vincolanti alcune convenzioni sull'ambiente.

Scrivevamo nell'ultima lettera inviata a tutti i parlamentari iscritti al Pr e ai membri del Consiglio Generale che »Occorre quindi essere consapevoli che il nuovo ordine mondiale che si annuncia rischia di riprodurre le stesse sofferenze e ingiustizie di quello che abbiamo conosciuto e conosciamo, di tollerare e provocare altri stermini per fame e per guerra, se non sarà fondato su un nuovo diritto positivo internazionale, su nuove leggi che abbiano efficacia sovranazionale, sulla riforma democratica del sistema delle Nazioni Unite .

Ma come può un piccolo partito di alcune decine di migliaia di iscritti, concentrati perlopiù solo in Italia e nei paesi dell'Europa dell'est e dell'Africa, pretendere non solo di andare controcorrente ma di modificare, seppur di un millimetro, il corso della politica internazionale?

E' la domanda alla quale dobbiamo cercare di dare una risposta in questa nostra assemblea, consapevoli certamente che la forza delle idee non è sempre commisurata al numero delle persone che inizialmente le sostengono ma attenti anche a non ritenere che le nostre decisioni e i nostri documenti possano avere conseguenze rilevanti per il solo fatto di averli approvati. Ogni nostra decisione, per essere tale, deve essere capace d'indicare obiettivi, procedure, tempi di realizzazione e risorse necessarie.

Per queste ragioni dobbiamo adottare criteri rigorosi anche se dolorosi di scelta delle campagne politiche da sviluppare, resistendo alle tante spinte che ci sollecitano invece ad affrontare tutte le questioni che riguardano la violazione dei diritti della persona.

Il primo criterio da adottare per la scelta delle campagne politiche deve essere quindi legato alla loro possibilità di produrre risultati concreti in tempi determinati. Bisogna insomma individuare obiettivi precisi, delineare procedure effettivamente percorribili e proporsi i tempi necessari per perseguirli. Occorre respingere la tentazione di limitarci ad agitare problemi e a "prendere posizione" su ogni questione che vede la compressione dei diritti umani e dobbiamo impegnare il partito solo quando abbiamo la ragionevole convinzione che esso possa raggiungere risultati concreti.

Il secondo criterio riguarda le risorse umane e finanziare necessarie per gestire ogni campagna. E' necessario poter sempre valutare, almeno nelle sue linee generali, il costo di una campagna e decidere di farla propria solo se si ritiene ragionevolmente possibile portarla avanti con le forze disponibili o indicando con chiarezza le risorse aggiuntive che possono essere reperite.

Il terzo criterio di scelta delle priorità politiche deve basarsi sulla convinzione che non possiamo pretendere velleitariamente di risolvere "globalmente" tutti gli immensi problemi ma che dobbiamo avere la serietà di affrontarne solo alcuni, quelli che a nostro avviso meglio possono consentire non tanto di affermare un generico aumento delle competenze, dei compiti e dei poteri delle istituzioni sovranazionali quanto di dotare queste stesse istituzioni di quella legittimità democratica e giuridica e di quegli strumenti indispensabili per poter esercitare una autorità e un potere, anche sanzionatorio, sovranazionali.

Panorama di iniziative possibili

Sulla base di questi tre criteri ho predisposto i primi approfondimenti delle ipotesi di campagne ed iniziative politiche indicate sommariamente nella prima lettera dell'aprile 1993 (inviata a tutti i parlamentari iscritti al Pr e ai membri del Consiglio Generale) per consentire a questa Assemblea di discuterle a partire da maggiori elementi di riflessione. La scelta delle iniziative da adottare dovrà inoltre tenere conto degli altri elementi che saranno forniti dalla relazione del Tesoriere.

Queste iniziative possono essere ricomprese sotto cinque titoli e sottotitoli:

1) NAZIONI UNITE: Tribunale internazionale permanente e tribunale contro i crimini nell'Ex-Jugoslavia; Istituzione di un organo parlamentare presso le NU; Modifica del ruolo delle NU per il mantenimento della pace ed il rafforzamento dell'intervento umanitario; Abolizione della pena di morte entro il duemila; I diritti delle minoranze nazionali;

2) EX-JUGOSLAVIA: Disconoscimento della Repubblica federale di Jugoslavia; Tutela del Kossovo; Macedonia; Federazione balcanica;

3) AMBIENTE: Campagna di protezione ambientale e per lo "sviluppo ecologicamente sostenibile" nell'Europa centro-orientale;

4) DROGA: Denuncia delle convenzioni internazionali che impongono politiche proibizioniste;

5) AIDS: Una strategia pragmatica; L'iniziativa nei confronti dell'OMS

6) LINGUA INTERNAZIONALE: Il diritto alla lingua

NAZIONI UNITE

Tribunale internazionale permanente

SINTESI: L'idea di un tribunale internazionale permanente è oggetto di discussioni nelle Istituzioni internazionali da oltre cinquanta anni, ma solo nel 1989 l'Assemblea Generale dell'ONU adottava una risoluzione per chiedere all'International Law Commission (ILC) di elaborare un quadro di riferimento per la costituzione di un "Tribunale internazionale sui crimini od altro meccanismo giuridico internazionale". Nel 1992, sotto la pressione del dramma della ex-Jugoslavia e delle vicende libanesi, numerose nazioni - tra cui la Comunità europea nel suo assieme, incluse Gran Bretagna e Francia - prendevano posizione a favore della costituzione di questo tribunale, e nel novembre 1992 l'Assemblea Generale assumeva una risoluzione che dava mandato alla ILC di elaborare un progetto di "statuto" come "materia prioritaria" in vista della successiva Sessione. A settembre, dunque a brevissima scadenza, la ILC dovrebbe depositare davanti all'Assemblea Generale la sua relazione, se non addirittura la bozza di statuto: se

si verificherà la seconda ipotesi, l'Assemblea generale potrebbe invitare gli Stati membri a convocare una Conferenza al fine di negoziare un trattato multilaterale per la creazione del Tribunale permanente.

Lo statuto che la ILC proporrà all'Assemblea Generale conterrà la lista dei crimini internazionali suscettibili di ricadere sotto la giurisdizione della nuova Corte internazionale. Certo, è previsto che si parta da una base "modesta e realistica", ma nella lista sono compresi delitti che non possono essere commessi senza intervento diretto o indiretto dello Stato. Sono evidentemente quelli a maggior contenuto politico: aggressione, crimini contro l'umanità e genocidio.

A questo punto, appare evidente che la prima esigenza è di definire scadenze e gli adempimenti precisi per la convocazione, ad una data certa, di una Conferenza internazionale sotto il patrocinio delle N.U. per l'istituzione del tribunale. Su questo obiettivo noi potremmo concentrare una forte campagna parlamentare ed anche militante, articolata secondo le forme di iniziativa che ci sono note, su cui abbiamo esperienza e capacità di mobilitazione: il primo traguardo da cogliere è che la ILC approvi il progetto di statuto del tribunale almeno per il settembre 1994.

Background e aggiornamento

L'idea di un tribunale internazionale permanente è oggetto di discussioni nelle istituzioni internazionali da oltre 50 anni. Nel corso degli Anni 80 l'inasprimento delle attività criminali nel mondo ha rafforzato l'opportunità di creare una giurisdizione internazionale in materia di reati criminosi. Nel 1989 l'Assemblea Generale dell'ONU ha adottato una risoluzione nella quale si richiedeva alla International Law Commission (ILC) di elaborare un quadro di riferimento per la costituzione di un "tribunale internazionale sui crimini od altro meccanismo giuridico internazionale".

In occasione della 45a e della 46a Sessione dell'Assemblea Generale (1990 e 1991) il progetto perse slancio, con nuove risoluzioni che si limitavano a reiterare all'ILC l'invito a continuare a lavorare sull'argomento. Questo atteggiamento frenante era dovuto sostanzialmente alle posizioni di alcune paesi occidentali, specialmente Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.

Poi nel 1992, spinti da quanto accadeva nell'ex-Jugoslavia e nel Libano per quanto riguarda le controversie in tema di estradizioni, numerose Nazioni prendevano per la prima volta pubblicamente posizione a favore della costituzione del tribunale internazionale, tra queste Australia , Canada, Colombia, Giappone, Venezuela, Zimbabwe e - in modo del tutto inatteso - la Comunità Europea nel suo insieme, inclusi quindi Gran Bretagna e Francia. La ILC fece a questo punto sapere che essa richiedeva un nuovo mandato dalle Nazioni Unite per poter elaborare un progetto più dettagliato sotto forma di bozza di statuto. Malgrado alcune resistenze iniziali di Stati Uniti e lo scetticismo di Cina, Indonesia ed altri paesi in via di sviluppo, l'Assemblea Generale ha adottato nel novembre 1992 una risoluzione che invitava la ILC a "continuare il proprio lavoro elaborando un progetto di statuto per un tribunale permanente sui crimini come materia prioritaria in vista della Sessione successiva".

Di conseguenza, a conclusione di quest'anno di lavoro, la ILC dovrebbe sottoporre nella seduta plenaria di settembre dell'Assemblea Generale una relazione o addirittura la bozza di statuto stessa. Nel caso si tratti di una relazione l'Assemblea Generale dovrà fornire orientamenti per procedere ulteriormente ed arrivare ad una bozza di statuto per la assemblea dell'autunno 1994; se, inversamente, sarà subito presentata la bozza di statuto, l'Assemblea Generale dovrebbe invitare gli Stati membri a prendere le misure necessarie per la convocazione di una conferenza, da tenersi sotto gli auspici delle Nazioni Unite, al fine di negoziare un trattato multilaterale per la creazione del tribunale permanente. Il primo passo in questa direzione sarà la richiesta rivolta agli Stati membri di inoltrare commenti alla bozza di statuto affinché la ILC li possa valutare nel corso del 1994.

I crimini internazionali

Lo statuto che l'International Law Commission proporrà alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite conterrà la lista di tutti i crimini internazionali suscettibili di ricadere sotto la giurisdizione del Tribunale Internazionale.

Da questa lista gli stati che si riuniranno per discutere ed approvare la Convenzione o Trattato istitutivo del Tribunale, sceglieranno le fattispecie criminose per le quali decideranno di conferire giurisdizione esclusiva o concorrente a questo organo

E' da tener presente che il gruppo di lavoro istituito dalla ILC ha prodotto un rapporto il 6 luglio 92 in cui, confermando che l'istituzione del Tribunale Internazionale è un obiettivo realizzabile, afferma che "ogni tentativo per istituire un sistema processuale internazionale praticabile deve partire da una base modesta e realistica"

[Le convenzioni e il diritto consuetudinario internazionale riconoscono 24 categorie di crimini trasnazionali: aggressione, crimini di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio - queste tra l'altro sono le basi del tribunale ad hoc ex jugoslavia - schiavitù e pratiche relative, sperimentazioni umane illegali, tortura, uso illegittimo di armi, pirateria, sequestro e sabotaggio di aerei, attacco e sequestro di diplomatici o di persone che godono di protezione internazionale, utilizzo di civili come ostaggi, traffico internazionale di droghe, distruzione o furto di tesori nazionali, furto di materiale nucleare, uso illegittimo della posta, danneggiamento di cavi sottomarini internazionali, ricatto di pubblici ufficiali stranieri, traffico internazionale di materiale osceno, alcuni tipi di danni ambientali, contraffazione.

Alcuni di questi crimini non possono essere commessi senza intervento diretto o indiretto dello Stato: essi sono perciò quelli a maggiore contenuto "politico": aggressione crimini contro l'umanità e genocidio. Sarebbe necessario aggiungere i crimini contro l'ambiente]

Iniziative possibili

La prima esigenza è quella di definire quali dovrebbero essere le scadenze e gli adempimenti per la convocazione ad una data certa - sotto il patrocinio delle Nazioni Unite - di una Conferenza per l'istituzione del Tribunale internazionale permanente. Su questo obiettivo potrebbe essere organizzata una campagna parlamentare e militante articolata attraverso le note forme di iniziativa politica.

Il primo obiettivo è quello di premere perché la ILC approvi il progetto di statuto del Tribunale almeno per il settembre 1994 e perché fra i crimini perseguibili siano compresi anche quelli contro l'ambiente.

Tribunale contro i crimini di guerra nell'ex-Jugoslavia

SINTESI: Con le risoluzioni n. 808 del 22 febbraio 1993 e n. 827 del 25 maggio 1993 il Consiglio di Sicurezza delle N.U. decideva l'istituzione di un Tribunale internazionale contro i crimini compiuti nella ex-Jugoslavia. Il partito radicale si è subito mobilitato, per sostenere questa decisione, riuscendo a far presentare diversi documenti nei parlamenti di Croazia, Macedonia, Bulgaria, Italia, e con la raccolta di 50.000 firme sotto un appello (diffuso dalle colonne del giornale "Il partito nuovo") consegnato poi a Vienna al Segretario generale della Conferenza delle N.U. sui diritti umani, Ibrahima Fall. Molti problemi restano ancora aperti e pregiudicano l'insediamento del tribunale: in particolare quelli finanziari, che rischiano di divenire l'alibi - o un alibi - per intralciare il cammino a che la struttura divenga davvero operativa.

Anche in questo caso è necessario individuare scadenze ragionevoli per il completamento degli adempimenti e per l'avvio del tribunale, e su queste impegnarsi - cosicché vengano rispettate - sollecitando e organizzando il massimo numero di iniziative parlamentari e nonviolente. Due scadenze importanti e ravvicinate già sono sopra di noi: la fine di luglio, data entro la quale il Consiglio di Sicurezza dovrà nominare il Pubblico Ministero (General prosecutor), e il 31 agosto, quando cioè da parte degli Stati membri dovranno essere presentate le candidature al ruolo di giudici. L'elezione dei giudici potrebbe già avvenire per la fine di settembre di quest'anno, ma perché ciò accada sarà necessaria una forte pressione internazionale.

Se a partire dalla riapertura dei parlamenti non ci sarà una forte mobilitazione dei deputati, con la presentazione di mozioni ed altri strumenti adeguati, sostenuta da iniziative e mobilitazioni nonviolente (come anche da campagne di stampa ovunque ciò sarà possibile), si correrà il rischio di veder vanificata e non applicata la risoluzione dell'ONU: va sottolineato, peraltro, che su tutto il processo già pesa la contraddizione per la quale sono in corso trattative - sotto gli auspici del Consiglio di Sicurezza! - con le stesse persone che si vorrebbe, o si dovrebbe, processare.

Con le risoluzioni n. 808 del 22 febbraio 1993 e n. 827 del 25 maggio 1993 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso l'istituzione di un Tribunale internazionale contro i crimini compiuti nell'ex-Jugoslavia.

Il Partito radicale si è mobilitato per sostenere questa decisione attraverso la presentazione di numerosi documenti nei parlamenti della Croazia, Macedonia, Bulgaria, Italia e con la raccolta di 50.000 firme ad un appello diffuso con un numero del giornale "il partito nuovo". Queste firme sono state consegnate a Vienna, alla vigilia della Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani, al Segretario generale della Conferenza Ibrahima Fall.

Molti problemi rimangono aperti ed in particolare quelli finanziari che rischiano di divenire un alibi per impedire l'insediamento del Tribunale.

Nell'addendum al rapporto presentato dal Segretario Generale al consiglio di sicurezza - 3 maggio 1993 - si precisa che l'istituzione del Tribunale costerà circa 31 milioni di dollari, escluse le spese di funzionamento.

Tale cifra coprirà tra l'altro le spese per lo staff (373 persone previste) per il Pubblico Ministero e gli 11 giudici e le spese operative. Sono invece escluse le spese di funzionamento cioè l'affitto della sede, la protezione dei testimoni, la ricerca di altre prove, ulteriori indagini se necessarie, spese per la detenzione degli imputati prima durante e dopo il processo, etc.

Il Tribunale sarà finanziato dal bilancio ordinario delle Nazioni Unite. Questa soluzione evita perdite di tempo alla ricerca di Stati donatori per istituire uno Special Fund, ma è fin troppo chiaro che "ristrettezze di bilancio" emergeranno molto presto.

Attualmente sono in corso trattative con il Governo Olandese per risolvere i problemi pratici di insediamento della struttura.

Anche in questo caso è necessario individuare delle scadenze ragionevoli per l'esecuzione degli adempimenti necessari e per l'inizio delle attività e impegnarsi con azioni parlamentari e nonviolente per il loro rispetto.

Ecco le scadenze relative alla procedura per la costituzione del Tribunale indicate dal rapporto presentato dal Segretario generale delle NU approvato dal Consiglio:

Entro la fine di luglio il Consiglio di Sicurezza deve nominare il Pubblico Ministero (General prosecutor) a partire da una proposta del Segretario Generale.

Il pubblico Ministero deve iniziare a raccogliere le prove, anche a partire dagli elementi già raccolti dalla Commissione di 5 Esperti nominata dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione 780 (6-ott-92)

Tale Commissione sta attualmente continuando il lavoro di raccolta e informatizzazione di tutte le informazioni ed i dati disponibili.

In base a questi o altri elementi il Pubblico Ministero stilerà la lista degli imputati che trasmetterà ai giudici della Corte i quali a loro volta decideranno se confermare le accuse ed emetteranno i relativi mandati di arresto

Elezione dei giudici.

Il tempo limite per la presentazione delle candidature al ruolo di giudici da parte degli stati membri scade il 31 agosto.

A partire da quella data il Segretario Generale proporrà al Consiglio di sicurezza una rosa di nomi. Il consiglio di sicurezza approverà una lista (22-33 candidati) da sottoporre alla Assemblea Generale che ne dovrà eleggere 11.

Poiché l'Assemblea Generale sarà in sessione dal 15 settembre al 31 dicembre, si può desumere che tale elezione potrà avvenire solo a fine settembre. Questa scadenza sarà rispettata solo in presenza di una forte pressione internazionale altrimenti l'elezione dei giudici slitterà a dicembre.

Se a partire dalla apertura dei Parlamenti non ci sarà una mobilitazione dei deputati con mozioni e strumenti vari, abbinata ad iniziative nonviolente e campagne di stampa, il rischio che si corre è di vedere vanificata e non applicata la risoluzione ONU. Su tutto pesa inoltre la contraddizione per cui attualmente sono in corso trattative, sotto gli auspici del Consiglio di Sicurezza, con le stesse persone che si vorrebbero o dovrebbero processare.

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Alcune date significative

6 ottobre 1992: La Commissione di Esperti. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU - risoluzione 780 - istituisce una Commissione di Esperti per indagare sulle violazioni del diritto umanitario internazionale nel territorio della ex-Jugoslavia. Della Commissione fa parte Cherif Bassiouni, docente di Diritto ed esperto di Scienze Criminali, iscritto al PR.

2-5 dicembre 1992: Il Convegno di Siracusa. Si svolge a Siracusa il convegno internazionale per la creazione di una Corte penale internazionale. Il Convegno è organizzato tra gli altri da "Parliamentarians for Global Action" e dall'ISISC (Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali), ed è presieduto dal professor Cherif Bassiouni; al Convegno sono presenti giuristi e parlamentari di tutto il mondo

Per casi di aggressioni belliche, e anche contro la criminalità organizzata internazionale, ad esempio contro il traffico di stupefacenti, contro il traffico internazionale di minori, contro lo sfruttamento sessuale di donne e bambini, contro il terrorismo internazionale, una corte penale potrebbe servire da deterrente o, almeno, essere strumento di punizioni nei confronti di coloro che sembrano non temere niente e nessuno. Questi, alcuni presupposti del Convegno di Siracusa, che il Pr, attraverso il suo Presidente, Emma Bonino, aveva chiesto al Presidente del Governo italiano, Giuliano Amato, di co-promuovere.

22 gennaio 1993: La Commissione italiana. In seguito alle pressioni del Gruppo Federalista Europeo e del Partito Radicale, il Governo italiano (insieme ad altre importanti decisioni relative alla situazione nella ex-Jugoslavia, incluso l'invito al Sindaco di Sarajevo), istituiva una commissione di studio sul tema "composta da alti magistrati ed esperti - si legge nel comunicato di Palazzo Chigi - incaricata di predisporre entro 30 giorni una proposta del Governo italiano, da sottoporre alle appropriate istanze internazionali, in ordine alla creazione di un Tribunale internazionale preposto a giudicare i crimini contro l'umanità nei territori della ex-Jugoslavia".

17 febbraio 1993: La proposta italiana. In base allo studio della commissione, presieduta dall'attuale Ministro di Grazia e Giustizia italiano Giovanni Conso, e che aveva tra i suoi membri il professor Antonio Papisca, docente di diritto internazionale all'Università di Padova, il Governo italiano presentava alle Nazioni Unite una proposta, un vero e proprio progetto di statuto, per la creazione di un Tribunale internazionale incaricato di giudicare i crimini commessi nell'ex Jugoslavia. Alla proposta italiana si aggiungevano analoghe proposte francese e svedese.

22 febbraio 1993: La Risoluzione 808. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 808, decide "l'istituzione di un Tribunale internazionale per giudicare i responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse sul territorio dell'ex Jugoslavia dal 1991". Da quella data, il Segretario Generale Boutros Boutros-Ghali ha due mesi di tempo per formulare una proposta su come procedere alla creazione dell'organismo.

3 maggio 1993: Boutros-Ghali presenta il rapporto al Consiglio di sicurezza che lo fa proprio con la risoluzione del 25 maggio 1993 n.827.

Vengono recepiti due principi importanti contenuti nel progetto italiano: l'esclusione di qualsiasi condanna od esecuzione della pena di morte e l'esclusione di processi in contumacia.

La sede viene stabilita a L'Aja. Il tribunale sarà composto da 11 giudici eletti dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite in base ad una rosa di 20-30 nominativi presentata dal segretario generale ONU. Il pubblico Ministero sarà designato dal Segretario generale.

Iniziativa per l'Istituzione di un organo parlamentare presso le Nazioni Unite

SINTESI: I recenti eventi internazionali, coinvolgendo sempre più drammaticamente le N.U., hanno accelerato il dibattito non solo sul ruolo e le funzioni, ma anche sulla struttura stessa della Organizzazione mondiale, rispetto alle rinnovate e sempre più pressanti esigenze di rappresentatività democratica dei popoli come degli individui in una prospettiva sempre più accentuatamente federalistica.

Tra le proposte atte a colmare o almeno a ridurre il "deficit democratico" delle N.U., una particolare considerazione merita quella dell'istituzione di un organo a rappresentanza parlamentare (Assemblea Generale dei parlamentari degli Stati membri). Per la sua piena costituzione è richiesta ovviamente una formale modifica dello Statuto ONU. Invece di seguire le via difficilissima della Convocazione di una conferenza generale di revisione dello Statuto, potrebbe essere più agevole mettere a punto un progetto di risoluzione tale da ottenere i 2/3 dei voti degli Stati, quoziente necessario alla sua adozione. Nel breve termine, però, è stata avanzata anche l'ipotesi di una iniziativa a carattere intermedio, vale a dire la costituzione di un organo a rappresentanza parlamentare avente natura "sussidiaria". Questa scelta non richiede modifiche statutarie. Certo un organo "sussidiario" avrebbe poteri limitati, prevalentemente consultivi, ma comunque da non sottovalutare, soprattutto per la sensibilizzazione dei par

lamenti e dei parlamentari nazionali.

Sotto il profilo procedurale, questa seconda ipotesi potrebbe essere sviluppata attraverso una proposta di inserimento all'o.d.g. della prossima Assemblea Generale da parte di uno Stato membro: vi sono ancora termini di tempo utili. Sotto il profilo dei contenuti, già nel progetto di risoluzione relativo all'istituzione del nuovo organo dovrebbero essere contenute indicazioni dettagliate, e la questione non appare né bloccata né complessa. L'elemento di maggiore importanza e delicatezza politica del progetto riguarda invece, ovviamente, la composizione dell'organismo: composizione che dovrà rispettare in ogni modo, e qualunque sarà la strada scelta, il principio dell'"eguaglianza sovrana", cui molto tengono, in particolare, i paesi in via di sviluppo.

Sono opzioni che abbiamo considerato in dettaglio nel documento che fa da base alla relazione, al quale ovviamente qui rimandiamo. Ma, visto che analoghe assemblee parlamentari - quelle del Consiglio d'Europa, della Nato, della CSCE - hanno un ruolo assolutamente marginale se non addirittura rappresentano un alibi per impedire un controllo efficace di quelle Istituzioni, bisogna valutare se sia forse preferibile chiede per il 1995 una vera riforma dell'ONU che arrivi all'istituzione di una Assemblea parlamentare con competenze effettive.

Assemblea generale dei parlamentari degli stati membri delle nazioni unite

A seguito della attuale difficile situazione delle relazioni internazionali la prospettiva di una riforma del sistema delle Nazioni Unite richiede uno specifico impegno del Partito radicale transnazionale che produca un vero impulso ed una "accelerazione" democratica del dibattito interno ed esterno della stessa Organizzazione. Recentemente, riferendosi all'impianto istituzionale dell'ONU, il Segretario Generale sollecitava "that transfiguration of this house which the world hopes to be completed before its fiftieth anniversary, in 1995" (S/PV.3046).

In effetti i recenti eventi che coinvolgono drammaticamente il ruolo delle Nazioni Unite si prestano in modo particolare al dibattito relativo alla struttura e funzioni dell'Organizzazione mondiale rispetto alle rinnovate esigenze di rappresentatività democratica dei popoli e degli individui in una prospettiva federalistica.

Tra le varie proposte di aggiornamento verso una riduzione del "deficit democratico" nell'ONU, una particolare considerazione merita quella relativa all'istituzione di un organo a rappresentanza parlamentare (Assemblea Generale dei Parlamentari degli Stati Membri delle Nazioni Unite).

1) Si tratta di un'iniziativa che nella sua piena realizzazione dovrà sfociare in una formale modifica dello Statuto ONU, ai sensi dell'art.108, consistente in: A) un emendamento dell'art. 7, nel senso di aggiungere agli organi principali una "Assemblea Parlamentare"; B) l'inserimento di un nuovo capitolo nello Statuto (probabilmente XIII bis) che disciplini composizione, funzioni, poteri e procedure del nuovo organo.

Al fine di perseguire questo risultato, è preferibile, per non incontrare difficoltà insormontabili evitare la convocazione di una Conferenza generale di revisione dello Statuto secondo la procedura di cui all'art.109.

Sarebbe preferibile invece elaborare un progetto di risoluzione da negoziare in Assemblea Generale al fine di ottenere i 2/3 dei voti necessari per la sua adozione. La modifica statutaria così adottata entrerebbe in vigore solo dopo la ratifica parlamentare da parte dei 2/3 degli Stati membri, compresi i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

2) E' tuttavia da prendere in considerazione nel breve termine l'opportunità di esperire un'iniziativa di carattere intermedio, sia in termini formali che di contenuto. Si tratterebbe di perseguire l'istituzione di un organo a rappresentanza parlamentare, avente la natura di organo sussidiario dell'Assemblea generale dell'ONU, ai sensi dell'art. 22 dello Statuto.

Differentemente dall'istituzione di un organo principale, la creazione di un organo sussidiario dell'Assemblea generale non richiede alcuna modifica formale dello Statuto ONU e, quindi, non e' soggetta al c.d. "diritto di veto" che gli artt. 108 e 109 dello Statuto conferiscono ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.

Naturalmente un organo sussidiario ha poteri limitati, trattandosi fondamentalmente di funzioni consultive, ma da non sottovalutare, di iniziativa rispetto all'organo principale. Ma oltre al sostegno supposto dell'Assemblea Generale attuale (che chiameremo data la sua attuale composizione, Assemblea Generale dei Governi), un organo a rappresentanza parlamentare potrebbe aggiungere un'importante funzione di sensibilizzazione e coordinamento nei riguardi dei parlamenti nazionali relativamente alle esigenze dell'Organizzazione mondiale.

Per quanto riguarda la competenza del nuovo organo sussidiario, (l'Assemblea Generale dei Parlamentari), l'Assemblea Generale potrebbe conferire a questo nuovo organo alcuni caratteri molto significativi. Ai sensi dell'art. 10 l'A.G. "può discutere qualsiasi questione o argomento che rientri nei fini dello [...] Statuto". Soprattutto, l'ampio ambito di competenza dell'Assemblea Generale dei Parlamentari dovrebbe essere mutuato (così come avviene di norma per gli organi sussidiari) in base all'art. 13 nel quale ultimo vengono affidati all'A.G., tra l'altro, i seguenti compiti: a) "promuovere la cooperazione nel campo politico [...]"; b) "sviluppare la cooperazione internazionale nei campi economico, sociale, culturale, educativo e della sanità pubblica, e promuovere il rispetto dei diritti dell'uomo [...]".

Sebbene inizialmente l'A.G. si sia avvalsa di questo potere (art.22) per creare organi sussidiari di carattere tecnico con funzioni di studio, spesso composti da membri a titolo individuale, va ricordato che con la stessa procedura si e' dato vita ad organi composti da delegati di Stati Membri che svolgono importanti funzioni di indirizzo politico e operative, principalmente nel settore economico e sociale. Si ricordano, tra gli altri, l'UNIDO (NU Industrial Development Organization), l'UNDP (UN Development Program) e l'UNICEF (UN Children Fund).

3)

a) Sotto il profilo procedurale, l'iniziativa di cui al punto 2 potrebbe essere perseguita attraverso una proposta d'inserimento all'o.d.g. della prossima A.G. da parte di qualsiasi Stato Membro. Ai sensi della regola 20 di procedura dell'AG, tale proposta deve essere accompagnata da un documento esplicativo.

Poiché l'o.d.g. provvisorio dell'AG viene comunicato dal Segretario Generale agli Stati Membri intorno alla metà del mese di luglio, cioè, almeno 60 gg. prima dell'inizio della sessione annuale dell'AG, potrebbe essere opportuna la presentazione della proposta in oggetto prima di tale data (in forma di comunicazione scritta da un rappresentante permanente di uno Stato al Segretario Generale). Tuttavia, non si tratta di termini improrogabili. Le norme di procedura dell'AG prevedono che uno Stato Membro possa presentare richiesta d'inserimento di un punto supplementare all'o.d.g. almeno 30 gg. dall'inizio della sessione annuale dell'AG.

Se tale proposta fosse fatta propria dal General Committee dell'AG e il tema in questione venisse incluso nell'o.d.g. dell'AG, la sede più idonea a trattare dello stesso sarebbe la Riunione plenaria dell'AG, piuttosto che una delle sue sette Commissioni principali.

b) Sotto il profilo dei contenuti, indicazioni relative a composizione e funzioni dell'"organo parlamentare" dovranno essere contenute in dettaglio nel progetto di risoluzione relativo all'istituzione dell'organo stesso. Tuttavia, poiché non e' necessario che un progetto di risoluzione venga allegato alla richiesta d'inserimento di un punto all'o.d.g., e' preferibile che indicazioni di merito circa composizione e funzionamento del costituendo organo sussidiario vengano tracciati in termini più generali e aperti a più opzioni nell'ambito del documento esplicativo da allegare alla proposta d'inserimento di un punto all'o.d.g. Questo consentirebbe una doppia fase di negoziazione del testo, cosicché tra la prima e la seconda fase negoziale vi sarebbero i margini per ricercare il maggior numero possibile di delegazioni "co-sponsor" del progetto di risoluzione per la creazione dell'organo sussidiario in parola.

Si deve tenere conto che, nella misura in cui l'istituzione dell'organo comporti oneri finanziari gravanti in parte o nella totalità sul bilancio ordinario dell'Organizzazione, ai sensi della norma 153 della procedura dell'AG, il progetto di risoluzione non potrà essere presentato senza una stima delle spese derivanti dall'istituzione dell'organo in parola da parte del Segretario Generale o della Sesta Commissione dell'AG (Administrative and Budgetary Committee).

Più specificamente sul merito della proposta, l'elemento di maggiore importanza e delicatezza politica riguarda la composizione dell'organo parlamentare.

Da un lato, conformemente ad un'interpretazione formale del principio della "eguaglianza sovrana" (art. 2, par. 1), richiamata costantemente da numerosi Paesi in via di sviluppo, si può pensare ad una disposizione che, oltre a prevedere che l'organo sia composto di tutti i Membri delle Nazioni Unite, indichi che ogni Membro avrà un numero x di rappresentanti designati dalla propria assemblea parlamentare, tra i quali almeno x appartenenti a uno schieramento non rappresentato nell'Esecutivo dello Stato Membro in questione. La ratio dello stesso art. 9, par. 2, ("ogni Membro ha non più di cinque rappresentanti nell'Assemblea Generale") prevedeva che ogni Stato Membro annoverasse tra i suoi rappresentanti in A.G. elementi non appartenenti all'Esecutivo, ma la pratica degli Stati non ha seguito questa indicazione, peraltro non precettiva.

Un'ulteriore variante potrebbe essere quella di conferire il potere di esprimere un voto ad ogni singolo rappresentante, il che equivarrebbe ad affermare che l'organo sarebbe composto da individui, ogni Stato Membro dell'Organizzazione avente diritto a designare x membri. Se ad ogni Stato Membro venisse attribuito il potere di designare 3 membri l'organo in parola sarebbe composto di 540 membri.

D'altro lato, fermi restando il principio della composizione individuale dell'organo sussidiario in oggetto a designazione parlamentare da parte degli Stati Membri, si potrebbe considerare una rappresentanza ponderata, nel senso che ogni Stato Membro possa designare un numero maggiore o minore di membri sulla base di criteri oggettivi (popolazione, estensione territoriale, PNL, contributo finanziario all'ONU).

Considerazioni sulle opzioni

La necessità di modificare il carattere interstatuale e consensuale del sistema delle Nazioni Unite e la esigenza di promuovere un organo parlamentare con poteri effettivi sollevano numerose riserve sulla proposta di una Assemblea meramente consultiva. Analoghe assemblee parlamentari (Consiglio d'Europa, Nato, CSCE) hanno un ruolo assolutamente marginale e addirittura costituiscono un alibi per impedire un efficace controllo sulle istituzioni a cui sono riferite.

Bisogna valutare quindi l'opportunità di proporre, nonostante le enormi difficoltà, l'opzione massimale e cioè una riforma dell'ONU che comprenda una Assemblea parlamentare con competenze effettive.

Si deve anche valutare se sia necessario sostenere espressamente l'esclusione dall'organo parlamentare delle NU dei paesi non retti da un sistema parlamentare e di democrazia politica.

Azione per la modifica del ruolo delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace ed il rafforzamento dell'intervento umanitario - La creazione di corpi civili per la democrazia

Per un nuovo ordine internazionale a sostegno delle democrazie con il contributo determinante di forze militari permanenti delle Nazioni Unite (sotto il controllo diretto delle NU) e l'intervento umanitario di volontari e obiettori di coscienza ("polizia di pace per la democrazia") .

SINTESI: Il pilastro principale dell'ordine giuridico mondiale fissato dallo Statuto delle N.U. è costituita dal divieto dell'uso della forza (art. 2, par. 4) e dal sistema di sicurezza collettivo (cap.VII), che attribuisce il monopolio della forza militare internazionale al Consiglio di Sicurezza. L'art. 43 dello Statuto prevedeva - e prevede ANCORA - che gli Stati membri mettano a disposizione del Consiglio di Sicurezza contingenti militari. Nell'epoca della divisione della Comunità internazionale in due blocchi ideologici e militari contrapposti, gli accordi per la creazione dei contingenti militari non sono mai stati conclusi; in tempi successivi, sotto l'incalzare di eventi di guerra, si è messa comunque in atto una "prassi statutaria evolutiva" che ha consentito la creazione di organi sussidiari ad hoc del Consiglio di Sicurezza, entrati in funzione in determinate occasioni, previo consenso delle parti in conflitto e con limitatissimi poteri di autodifesa.

Piccoli passi avanti ulteriori sono stati compiuti proprio in occasione del conflitto bosniaco. L'UNPROFOR (Forza di Protezione dell'ONU) raggruppa tre diverse principali modalità del "peace-keeping": a) protezione delle popolazioni e mantenimento del cessate-il-fuoco nelle Zone Protette in Croazia (UNPAS); b) protezione dei convogli umanitari, in Bosnia Erzegovina; c)prevenzione dei conflitti e monitoraggio delle frontiere, in Macedonia. Questa "Forza di Protezione" ha segnato uno spartiacque importante. Oggi, il "peace-keeping" dell'ONU non tanto o non solo riguarda il "congelamento" delle crisi internazionali, ma deve essere in grado di provvedere ad interventi concreti e rapidi in situazioni le più diverse, e di garantire il rispetto del consenso internazionale. In Angola, Cambogia, Namibia e Mozambico, le forze di peace-keeping dell'ONU devono anche assolvere a funzioni di carattere non militare, fino all'assistenza alle autorità locali nella gestione di elezioni democratiche. Dove invece l'ONU ha segna

to insuccessi è nella risposta "regionale" alle necessità di mantenimento della pace. Ad es. la CEE si accontenta di mantenere una presenza solo simbolica, o "politica" (ma non capiamo cosa ciò significhi) nella ex-Jugoslavia.

Ma qualcosa sembra evolversi sotto la spinta degli eventi. Il Segretario generale delle N.U., Boutros Ghali, nel documento "Una agenda per la pace", ha avanzato una serie di proposte importanti, tra cui quella di dare finalmente attuazione agli artt. 43 e successivi dello Statuto, con la costituzione di contingenti militari permanentemente a disposizione del Consiglio di Sicurezza, con un Comando di Stato Maggiore che sia "braccio armato" del Governo della Comunità internazionale. Una seconda proposta contempla però una soluzione intermedia, la creazione cioè di "Peace Enforcement Units", con personale civile, di polizia e militare.

Intanto, in attesa che queste proposte prendano corpo, occorre prendere atto che recenti crisi che pur richiedevano interventi "umanitari" - ex-Jugoslavia e Somalia - sono pericolosamente uscite dal controllo delle N.U. proprio per l'inadeguatezza e l'insufficienza dei meccanismi internazionali. I problemi, le difficoltà, si moltiplicano. In presenza di conflitti etnici e civili, molti Stati sono lacerati tra le richieste di autonomia o autodeterminazione e il pericolo della frammentazione, in situazioni di rischio incombente di violazione dei diritti umani e delle regole democratiche. Una problematica dilagante e devastante che si salda sovente col circolo vizioso della povertà, della pressione demografica, del degrado ambientale. Noi siamo convinti, e non siamo soli, che tutto ciò non possa essere abbandonato ulteriormente a forze incontrollate, ma richieda un sempre più determinato coinvolgimento delle N.U. in campo umanitario.

Qualche pur timido passo avanti in tale direzione è stato comunque fatto, e si veda ad es. l'istituzione del Dipartimento per gli Affari Umanitari (DHA) e del Sottosegretario generale per gli affari umanitari e il Coordinamento dei soccorsi d'urgenza. Da qui si può certamente partire per sviluppare l'intervento delle N.U., tenendo però fermo che il soccorso d'urgenza non può essere solo di carattere congiunturale, ma va legato allo sviluppo, per costruire legami più solidi tra il soccorso e la crescita anche in termini di democrazia.

Occorre, e in tale direzione dovremo spingere attivamente, una Risoluzione dell'Assemblea Generale che punti sulla ristrutturazione del Dipartimento per gli Affari Umanitari, ponendo ad esso come obiettivo principale la formazione di strutture operative costituite di volontari e obiettori di coscienza, quale contingente fisso ed istituzionale delle N.U., a disposizione delle N.U. in qualsiasi momento e circostanza sia richiesto. Si propone in particolare la costituzione di corpi civili di "caschi blu" - da affiancare alle forze militari sotto diretto controllo ONU -, su base volontaria nei quali far confluire anche gli obiettori di coscienza, per l'intervento e l'azione "umanitaria", per la difesa dei diritti della persona e lo sviluppo della democrazia. Queste forze potrebbero compiere anche tutte quelle azioni "preventive", di pressione "aggressiva" e di "guerra non convenzionale" che potrebbero rendere non necessario e comunque non automatico il ricorso alle armi. Si indica il Dipartimento per gli Affari

Umanitari (DHA) come struttura delle NU che potrebbe recepire questa proposta.

1. L'attuale architettura delle Nazioni Unite per il governo e la cooperazione tra gli Stati nel mantenimento della pace.

Il pilastro principale dell'architettura dell'ordine giuridico mondiale, fissato dallo Statuto delle Nazioni Unite è costituito dal divieto dell'uso della forza (art.2, par.4) e dal sistema di sicurezza collettivo (cap.VII) che attribuisce il monopolio della forza militare internazionale al Consiglio di sicurezza (CdS).

Dal punto di vista formale, l'art. 43 dello Statuto prevedeva e prevede, ancor oggi - ma è restato lettera morta - che gli Stati membri mettano a disposizione del Consiglio di sicurezza contingenti militari attraverso accordi (tra CdS e Stati membri) che "determineranno il numero ed i tipi di forze armate, il loro grado di preparazione e la loro dislocazione generale (...)".

A causa della divisione della Comunità Internazionale in due blocchi ideologici e militari contrapposti, gli accordi per la creazione dei contingenti militari delle Nazioni Unite non sono stati mai conclusi. A titolo indicativo, si ricorderà che gli USA avevano originariamente previsto di mettere a disposizione delle Nazioni Unite trecentomila militari, mille bombardieri, e duemila caccia da combattimento.

L' impossibilità di raggiungere una intesa sull'attuazione dei principi dell'architettura originale dello Statuto apparve subito evidente in occasione del conflitto arabo-israeliano. Da allora venne adottata una soluzione "minimalistica", al di fuori del contenuto e della lettera dello Statuto, giustificata come "prassi statutaria evolutiva". Questa prassi consiste nel creare un organo sussidiario ad hoc (occasionale, anche se in qualche caso di notevole durata) del Consiglio di sicurezza, previo consenso delle parti del conflitto e con limitatissimi poteri di autodifesa. Qualche piccola evoluzione, nell'accrescimento del potere di usare la forza, per attuare coercitivamente il proprio mandato é riscontrabile nella recente Risoluzione sulle zone protette in Bosnia.

In relazione al finanziamento delle forze delle Nazioni Unite, occorre ricordare che, dal 1973, tutte le operazioni sono sostenute dagli Stati membri in relazione ad una scala variabile di quote che tengono conto di parametri oggettivi. Tuttavia, uno Stato, che partecipi con propri uomini e materiale militare ad una missione, deve sostenere, oltre alla sua quota parte, il pagamento di un maggior costo per uomo-mese (ad esempio, per l'Italia, il maggior costo è di nove milioni di lire per uomo-mese con un recupero di ottocento dollari per uomo-mese, mentre per il Pakistan, il costo è di trenta dollari per uomo-mese ed il recupero dalle Nazioni Unite di ottocento dollari per uomo-mese). Pur nella limitatezza degli interventi sinora svolti, gli arretrati degli Stati membri riferiti ai contributi nazionali per operazioni di pace ammontavano, al 31 dicembre 1992, a ottocento milioni di dollari.

Per quanto riguarda l'evoluzione della prassi più recente delle forze di pace, l'UNPROFOR (Forza di Protezione dell'O.N.U.), ultima versione delle forze di peace-keeping delle Nazioni Unite, raggruppa tre diverse principali modalità del "mantenere la pace": a) la protezione delle popolazioni e mantenimento del cessate il fuoco, nelle Zone Protette in Croazia (UNPAS); b) la protezione dei convogli umanitari, in Bosnia Erzegovina; c) la prevenzione dei conflitti e monitoraggio delle frontiere, in Macedonia.

Questa "Forza di Protezione" ha segnato uno spartiacque importante nella strategia del peace-keeping. Durante la guerra fredda, l'azione di peace-keeping fu utilizzata per congelare crisi internazionali in situazioni di stallo nell'equilibrio tra i due blocchi. Oggi, il peace-keeping dell'O.N.U. deve provvedere a interventi concreti e rapidi ed, in presenza di una sola Superpotenza, ha anche il difficile compito di garantire il rispetto del consenso internazionale.

Per quanto riguarda la composizione e i compiti delle forze di peace-keeping, l'evoluzione più significativa, realizzatasi di recente nelle operazioni in Angola, Cambogia, Namibia e Mozambico, riguarda funzioni di carattere non militare, ciò che ha comportato largo impiego di personale civile. Un elemento di grande rilievo, e novità, consiste nella circostanza che il mandato delle forze impiegate, in alcune di queste operazioni, riguardava l'assistenza alle autorità locali nella preparazione e gestione di elezioni democratiche.

Va infine ricordato l'insuccesso della risposta regionale alle necessità di mantenimento della pace. Il Cap. VIII della Carta dell'O.N.U. prevede che le organizzazioni regionali, su richiesta del Consiglio di Sicurezza ed in coordinamento con esso, assumano la responsabilità operativa delle azioni di peace-keeping.

La CEE, priva di una politica internazionale e di vero controllo democratico del Parlamento europeo, si accontenta di mantenere una presenza "politica", ovvero simbolica (ECMM nella ex-Jugoslavia, European Community Monitoring Mission). Le iniziative della CSCE sono anch'esse da inserire nel tentativo europeo di avere un ruolo politico, ma non a carattere operativo, nella ex-Jugoslavia.

Ancora di difficile previsione è quello che sarà il ruolo della NATO e dell'Unione dell'Europa Occidentale che rientra nel quadro della cooperazione del Trattato di Maastricht sull'Unione politica.

2. Proposte di modifica e rilancio delle forze di mantenimento della pace

Il Segretario generale, B.Boutros Ghali, nel documento Un'agenda per la pace, elaborato su richiesta del Consiglio di sicurezza, ha avanzato un ventaglio di proposte.

La prima proposta consiste nel dare finalmente attuazione agli articoli 43 e successivi dello Statuto, costituendo contingenti militari permanenti a disposizione del Consiglio di sicurezza che potrebbe così esercitare azioni coercitive impossibili nel passato, anche in situazioni come quelle dell'invasione del Kuwait. Si tratterebbe di attuare la norma dello Statuto, sulla istituzione di un Comando di Stato Maggiore come "braccio armato" del Consiglio di sicurezza e del Governo della Comunità Internazionale.

La seconda proposta riguarda una soluzione intermedia, quella della creazione di "Peace Enforcement Units". Si tratterebbe di azioni volte a evitare la degenerazione delle crisi in un conflitto esistente. Si tratterebbe di misure provvisorie, tali da rafforzare, ma non modificare sostanzialmente l'azione attuale delle forze delle Nazioni Unite. Dal punto di vista operativo, l'esigenza più importante è quella di avere la disponibilità permanente di personale, civile e di polizia, oltre che militare, adeguatamente addestrato. Il Segretario generale ha sollecitato, in questo senso gli Stati membri e le organizzazioni non-governative ad attivarsi per colmare questa carenza, poiché un addestramento specifico deve riguardare sia gli aspetti militari, che la conoscenza di procedure elettorali, nonché il trattamento e l'assistenza ai rifugiati, le modalità degli aiuti umanitari ecc.

3. Verso operazioni di "polizia di pace per la democrazia"

L'evoluzione recente dimostra che gli interventi più efficaci delle Nazioni Unite riguardano crisi tradizionali di tipo interstatuale, mentre appaiono sempre più inadeguati, in situazioni più complesse con elementi di guerriglia e milizie non-governative (Angola, Bosnia, Cambogia, Somalia).

Oggi solo gli interventi umanitari che si attuano in aree povere (fuori delle zone di interesse economico) sono lasciati alla leadership dell'O.N.U. (Mozambico; Angola; Cambogia). La crisi Jugoslava non ha trovato l'accordo (e la convergenza di interessi) degli sponsors degli interventi umanitari e questo spiega, finora, la carenza di coesione ed efficacia dell'azione internazionale. Gli aiuti umanitari inviati nell'ex-Jugoslavia sono prevalentemente aiuti di emergenza che rispondono, solo in minima parte, alle necessità degli individui e dei gruppi. Se nelle zone dove il conflitto è ancora attivo, è difficile immaginare aiuti diversi da quelli di emergenza, nelle zone dove il conflitto è "congelato" (le zone protette da UNPROFOR, in Croazia) è invece necessario avere un approccio umanitario diverso e che sviluppi la capacità produttiva locale.

In ogni caso negli interventi umanitari delle Nazioni Unite occorre accompagnare gli aiuti con programmi di sostegno all'economia locale i quali soli possono ridare dignità agli individui e renderli autosufficienti.

Le posizioni più illuminate espresse in questo senso riguardano la creazione di forze di volontariato al servizio delle Nazioni Unite (v.ad es. la proposta di Sir Brian Urquhart, decano dei funzionari ONU).

Una forte azione per la difesa dei diritti umani, di sviluppo della democrazia e della libertà (e pluralità) di espressione è l'elemento essenziale di un nuovo ordine mondiale (con principi di democrazia rappresentativa) a condizione che siano resi effettivi da sistemi di garanzia e di controllo. Occorre promuovere e avanzare una proposta perché le Nazioni Unite abbiano in pieno la responsabilità e la capacità operativa, necessarie nel nuovo equilibrio mondiale, promuovere un nuovo approccio al peace-keeping che tenga in dovuta considerazione che il supporto militare è necessario ma non sufficiente.

Occorre rafforzare il diritto di ingerenza nella sovranità dello Stato che ha cominciato timidamente a manifestarsi. Un'azione internazionale effettiva per il rispetto dei diritti umani deve essere accompagnata a varie forme di intervento umanitario.

La soluzione deve pertanto essere cercata attraverso forze militari e civili sotto l'autorità diretta delle NU che riducano il livello di "resistenza endemica" delle popolazioni interessate.

4. Il rafforzamento dell'azione umanitaria delle Nazioni Unite e le proposte di struttura istituzionale

Le crescenti crisi con risvolti umanitari, come quella della Somalia e dell'ex Jugoslavia sono pericolosamente uscite dal controllo delle Nazioni Unite per l'inadeguatezza ed insufficienza dei meccanismi internazionali.

In presenza di conflitti etnici e civili, molti Stati sono lacerati tra le richieste di autonomia o autodeterminazione e il pericolo della frammentazione in una situazione di rischio potenziale di violazione delle regole della democrazia e dei diritti umani.

Questo, insieme al circolo vizioso della povertà, alla pressione demografica e al degrado ambientale, richiede un crescente coinvolgimento delle Nazioni Unite in campo umanitario.

In questo campo le Nazioni Unite hanno fatto qualche timido passo in avanti negli ultimi anni. L'adozione della Risoluzione 46/182 dell'Assemblea Generale sul rafforzamento del coordinamento dell'aiuto umanitario delle Nazioni Unite, fissa i principi basilari dell'assistenza umanitaria fornita dall'Organizzazione, e raccomanda misure specifiche per assicurare una risposta pronta e coordinata a situazioni complesse di emergenza e disastri naturali.

Di conseguenza, nell'aprile 1992, il Segretario Generale ha istituito un nuovo Dipartimento per gli Affari Umanitari (DHA), e un Sottosegretario Generale per gli affari umanitari e per il Coordinamento dei soccorsi di urgenza (il Dipartimento incorpora l'ex UNDRO e le ex-Unità di emergenza, per l'Africa, l'Iraq e il Sud-est Asiatico). Il DHA ha il compito di provvedere a una risposta rapida e coordinata nelle situazioni complesse di emergenza per salvare vite umane e per contribuire alla riabilitazione ed allo sviluppo delle popolazioni colpite.

La risoluzione 46/182 fornisce le Nazioni Unite di strumenti di coordinamento, che accrescono la capacità della Organizzazione di rispondere prontamente in situazioni complesse di emergenza, con un'effettiva divisione dei compiti tra i diversi istituti specializzati della famiglia delle Nazioni Unite.

Il Dipartimento opera nelle "zone grigie" dove convergono sicurezza e interessi politici e umanitari. Coordinamento politico, pianificazione politica e funzioni di allerta sono svolte a New York, in stretto contatto con gli organi delle Nazioni Unite e con i Dipartimenti politici, finanziari, economici del Segretariato. L'Ufficio di Ginevra agisce come supporto operativo di emergenza per il coordinamento del soccorso, nonché delle misure per l' attenuazione del disastro.

Il ruolo del Dipartimento va comunque oltre il puro coordinamento. Negli interventi umanitari, non solo occorre tener presente le emergenze umanitarie secondo le difficoltà del momento, ma anche integrare le azioni con sforzi a più lungo termine per affrontare le cause fondamentali delle crisi ed i problemi strutturali dello sviluppo e della democrazia.

Il soccorso di urgenza non può essere di carattere congiunturale. Esso ha bisogno di essere legato allo sviluppo per costruire legami più solidi fra il soccorso, lo sviluppo e la democrazia.

Inoltre, in situazioni particolari dove per ragioni politiche, le operazioni di soccorso sul terreno sono limitate o impossibili, solo l'esercizio della diplomazia umanitaria può essere effettivo per il necessario raggiungimento dell'obiettivo del mantenimento della pace.

Tutto questo deve essere fissato con una Risoluzione dell'Assemblea Generale sulla struttura del Dipartimento per gli Affari umanitari delle Nazioni Unite il cui obiettivo maggiore deve essere quello di creare strutture operative di volontari e obiettori di coscienza quale contingente fisso ed istituzionale delle Nazioni Unite che possano servire al mantenimento della pace attraverso il rafforzamento delle democrazie. Queste forze potrebbero essere messe direttamente a disposizione delle Nazioni Unite in qualsiasi momento e circostanza, pur restando all'interno del proprio paese.

Campagna per l'abolizione della pena di morte entro il 2000

SINTESI: Il partito radicale trasnazionale ha messo in cantiere un progetto denominato "Nessuno tocchi Caino - Campagna parlamentare mondiale per l'abolizione della pena di morte entro il Duemila": all'alba del nuovo millennio, vogliamo veder affermato ovunque nel mondo, e scritto nei testi fondamentali della Comunità internazionale e degli Stati, il diritto a non essere uccisi a seguito di una sentenza o misura giudiziaria, anche se emessa nel rispetto della legge. Un appello alle Nazioni Unite, sottoscritto da 50000 cittadini, Premi Nobel, parlamentari, personalità del mondo della cultura e della scienza di tutto il mondo e lanciato in occasione della recente Conferenza mondiale sui Diritti umani di Vienna di giugno chiede all'ONU di operare subito perché il "diritto a non essere uccisi" sia affermato come nuovo, fondamentale diritto della persona.

L'obiettivo è ottenere una Risoluzione della N.U. in tal senso. Non vogliamo però, e rifiutiamo fermamente, che essa abbia i connotati generici o minimalisti di tante altre risoluzioni sullo stesso tema approvate e subito cadute nel nulla. E in tal senso salutiamo con favore la Risoluzione del 25 maggio 1993, n. 827, del Consiglio di Sicurezza (già ricordata) la quale stabilisce che la pena capitale non possa essere comminata dall'istituendo Tribunale ad hoc contro i crimini commessi nella ex-Jugoslavia: come può ritenersi legittima la pena di morte inflitta da un qualsiasi Stato, se la Comunità internazionale (di cui quello Stato è membro) la esclude per crimini di guerra gravissimi, e per lo stesso genocidio?

Questo passo avanti ottenuto per via "indiretta" ci conforta ad una iniziativa più precisa e mirata: vorremmo far sì che allo stesso giorno, alla stessa ora, nel maggior numero di parlamenti diversi - e col sostegno della mobilitazione della pubblica opinione e dei mezzi di informazione - vengano presentati progetti di legge di comune ispirazione e indirizzo, che impegnino i rispettivi Governi a promuovere presso le N.U. questo nuovo diritto della persona.

Un'altra strada che può esser percorsa fruttuosamente è quella dell'impegno di tutti perché si affermi una "consuetudine" internazionale che sancisca l'indisponibilità allo Stato della vita di qualsiasi cittadino, anche se colpevole di gravissimi reati, quale base suprema di tutto il sistema internazionale dei diritti umani. Tale tipo di norma, portato della partecipazione convinta agli accordi internazionali da parte di un altissimo numero di Stati, prevarrebbe anche sul diritto interno contrastante ed opposto.

Alcune direttive di confronto si presentano immediatamente per questa battaglia:

1) gli Stati Uniti, per il ruolo internazionale cui assolvono, rappresentano un fronte decisivo della battaglia abolizionista; occorre mettere alla prova l'Amministrazione Clinton, ottenere una moratoria di tre-cinque anni, la ratifica del patto Internazionale per i Diritti Civili e Politici che pone limitazioni alle esecuzioni di minori, donne incinte, malati di mente. La presentazione in più parlamenti di mozioni che invitino i Governi ad "obiettare" alle "riserve" degli USA alla ratifica di questo atto internazionale potrebbe costituire il primo "confronto" tra paesi abolizionisti e gli USA di Clinton.

2) Un'Europa senza pena di morte può essere obiettivo intermedio, da conseguire entro il 1995/96. In tal senso occorrerà sviluppare l'iniziativa verso i paesi della ex unione Sovietica, i Paesi Baltici, la stessa Russia e la Bulgaria, che hanno proposte di legge incardinate in parlamento.

3) Il seminario del POPEM (Organizzazione per la pace dei popoli dell'Europa e del mediterraneo) di Tunisi del 16 novembre 1992, ha promosso un "comitato per l'abolizione della pena di morte nel mediterraneo", e sta organizzando una grande Convention dei Paesi arabi e del Mediterraneo. Analoga iniziativa potrebbe essere assunta verso l'Africa entro il 1994.

4) E' poi urgente avviare una iniziativa nei confronti del Vaticano, mentre è uscito il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica con la tesi della legittimità della pena di morte. L'appuntamento potrebbe essere una marcia abolizionista a San Pietro per Pasqua 1994.

5) Infine, nel febbraio scorso a Roma, durante il congresso del partito radicale, si è svolta una Convention per la costituzione della Lega Internazionale per l'abolizione della pena di morte entro il 2000. Si è costituito un Comitato promotore che ha assunto come obiettivo la convocazione entro un anno di un Congresso Mondiale di fondazione della Lega. Questa potrebbe divenire la sede adeguata per la crescita dell'intera iniziativa.

Il progetto

Il Partito Radicale ha elaborato un progetto denominato "Nessuno tocchi Caino - Campagna parlamentare mondiale per l'abolizione della pena di morte nel mondo entro il Duemila", con il quale si è posto l'obiettivo di vedere affermato, ovunque nel mondo, all'alba del nuovo millennio, e veder scritto nei testi fondamentali della comunità internazionale e degli stati, il diritto a non essere uccisi a seguito di una sentenza o misura giudiziaria, anche se emessa nel rispetto della legge.

Le iniziative alle Nazioni Unite

Un appello alle Nazioni Unite, lanciato in occasione della Conferenza mondiale sui Diritti umani di Vienna, a giugno del '93, e sottoscritto da 50.000 cittadini, Premi Nobel, parlamentari, personalità del mondo della scienza e della cultura di tutto il mondo, chiede all'Onu di operare subito - attraverso l'elaborazione di testi e programmi e la loro promozione a livello internazionale - perché "il diritto a non essere uccisi" sia affermato come nuovo, fondamentale diritto della persona.

L'obiettivo principale di questa azione è una Risoluzione delle Nazioni Unite proposta su iniziativa del Segretario Generale destinatario dell'appello o su iniziativa dei parlamenti di alcuni Paesi che impegnino i rispettivi governi a porre tale Risoluzione all'ordine del giorno dell'Assemblea Generale e del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite.

La Risoluzione non potrà avere connotati generici o minimalisti come tutte le precedenti risoluzioni sul tema approvate sia dall'assemblea plenaria delle Nazioni Unite che dal Comitato Economico e sociale: (1968, 1971, 1977, 1981, 1982 1985 ..)

Valga per tutte la risoluzione 8 dicembre 1977.."L'assemblea generale, visto l'art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, il quale afferma che tutti hanno diritto alla vita e l'art. 6 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, il quale anche afferma che il diritto alla vita appartiene ad ogni essere umano...

1. Riafferma che, come stabilito dall'Assemblea Generale (20 dicembre 1971)....e Dal Comitato Economico e sociale..., il principale obiettivo da perseguire in materia di pena capitale è di restringere progressivamente il numero di delitti passibili di pena di morte nella prospettiva di una desiderabile abolizione di questa sanzione..."

In effetti dopo la risoluzione 25 maggio 1993 n.827 del Consiglio di Sicurezza che ha stabilito che la pena capitale non può essere comminata dall'istituendo tribunale ad hoc contro i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia, occorre un pronunciamento più deciso e che preveda tempificazioni certe se pure graduali

Come può, infatti, ritenersi legittima la pena di morte comminata dallo Stato per un omicidio, se per il genocidio e per crimini di guerra come quelli commessi nella ex Jugoslavia la Comunità internazionale esclude esplicitamente il ricorso alla pena capitale?

Lo stesso giorno alla stessa ora, in parlamenti diversi...

Per conseguire questo obiettivo sarebbe molto utile organizzare, lo stesso giorno alla stessa ora, in Parlamenti diversi, sostenuta dalla mobilitazione civile davanti a quei parlamenti e dall'informazione delle opinioni pubbliche, la presentazione di un analogo testo di legge o risoluzione in cui si affermi il nuovo diritto della persona e che impegni i governi a promuoverlo presso le Nazioni Unite.

In molti Paesi la pena di morte è abolita da tempo oppure è prevista soltanto nel codice militare di guerra. Ma la linea del fronte della battaglia abolizionista attraversa anche questi Paesi. I militanti democratici, laici, liberali, i "rivoluzionari" del diritto alla vita e la vita del diritto hanno, nei paesi che non applicano la pena capitale, la base di un rinnovato impegno internazionalista, le leve istituzionali e militanti per dare voce, speranza, giustizia le migliaia di condannati che in tutto il mondo attendono, nei bracci della morte, di essere uccisi.

Una consuetudine internazionale abolizionista

Un'altra strada da percorrere per conseguire l'obiettivo dell'abolizione entro il 2000 è quella dell'impegno di tutti affinché si affermi una consuetudine internazionale che sancisca l'indisponibilità allo Stato della vita di qualsiasi cittadino, anche se giudicato colpevole di gravissimi reati, quale base suprema di tutto il sistema internazionale dei diritti umani: questo tipo di norma, che è il portato della partecipazione ampia e convinta ad accordi internazionali da parte di un altissimo numero di Stati, sarebbe vincolante per tutti gli Stati e prevarrebbe, secondo il diritto internazionale, sul diritto interno contrastante.

Stati Uniti: moratoria e obiezioni alle "riserve"

In questo senso, gli Stati Uniti, per il ruolo e il prestigio internazionali di cui godono, rappresentano un fronte decisivo della battaglia abolizionista a livello mondiale.

Si tratta di mettere alla prova l'amministrazione Clinton, concepire azioni per ottenere una moratoria delle esecuzioni della durata di tre-cinque anni e la ratifica senza riserva alcuna del Patto Internazionale per i Diritti Civili e Politici, che pone forti limitazioni riguardo alle esecuzioni di minori, donne incinte, malati di mente. La presentazione, subito, in più parlamenti di mozioni che impegnino il Governo a "obiettare" alle "riserve" che gli Stati Uniti hanno posto alla ratifica del Patto Internazionale, può essere il primo confronto tra i paesi abolizionisti e gli Stati Uniti di Clinton.

Per un'Europa senza pena di morte

Un'Europa senza pena di morte può essere l'obiettivo intermedio della campagna da conseguire entro il 1995/96.

E' possibile concepire un'azione parlamentare nei confronti degli Stati membri della Comunità Europea che ancora non hanno abolito la pena di morte e un'azione nei confronti di repubbliche della ex Unione Sovietica che stanno elaborando i nuovi codici penali e di stati che stanno approntando gli strumenti di ratifica delle Convenzioni europee. In collaborazione con Amnesty International, è in corso una campagna per l'abolizione della pena di morte nei Paesi Baltici. E' urgente un'azione nei confronti della Russia e della Bulgaria, di cui conosciamo la situazione normativa e le proposte di legge incardinate in parlamento.

Verso l'abolizione nel Mediterraneo e in Africa

Il seminario del Popem (Organizzazione per la pace dei popoli dell'Europa e del Mediterraneo) che si è svolto a Tunisi il 16 novembre scorso, ha promosso un "Comitato per l'abolizione della pena di morte nei paesi del Mediterraneo" e si è dato come primo obiettivo l'organizzazione entro un anno di una grande convention del mondo arabo e mediterraneo, con la partecipazione di giuristi, parlamentari, associazioni, partiti, e l'obiettivo di un protocollo di intesa in senso abolizionista fra paesi islamici.

La stessa iniziativa potrebbe essere presa in Africa, entro il '94, al fine di promuovere un accordo regionale in senso abolizionista, a partire innanzitutto dai paesi abolizionisti de jure o de facto, uno dei quali potrebbe finanziare l'iniziativa.

Una marcia a Pasqua del '94 in Vaticano

E' urgente avviare un'azione nei confronti del Vaticano, il cui ruolo può essere decisivo nella campagna abolizionista, mentre è uscito il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica con la tesi sulla legittimità della pena di morte.

L'appuntamento potrebbe essere una marcia abolizionista che giunga a S. Pietro a Pasqua del '94.

La convention di Roma per la costituzione della Lega Internazionale

Il 6 Febbraio '93, a Roma, durante il congresso del Partito radicale, si è svolta la Convention per la costituzione di una "Lega Internazionale per l'abolizione della pena di morte entro il Duemila": un organismo politico transnazionale, strumento di lotta parlamentare e militante con obiettivi da conseguire in un tempo determinato.

Alla fine dei lavori, a cui hanno preso parte parlamentari, giuristi, personalità della cultura di tutto il mondo, è stato costituito un Comitato promotore e di coordinamento delle attività della Lega Internazionale, con Ramsey Clark, François Fejto, Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel della Pace, Nikolaj Arzhannikov, vice presidente Comitato Diritti umani del parlamento russo. Elena Bonner Sacharova, presente ai lavori e Mihail Gorbaciov, con un messaggio, hanno dichiarato il loro appoggio alla Lega Internazionale.

Il primo fondamentale obiettivo che la Convention di Roma si è dato è la convocazione entro un anno di un Congresso mondiale di fondazione della Lega Internazionale.

Obiettivo di questo Congresso e compito della Lega, è la promozione di una grande campagna di azione parlamentare e di mobilitazione civile, perché testi di legge o di risoluzione siano presentati contemporaneamente e approvati in tutti i parlamenti in cui si è presenti.

I diritti delle minoranze nazionali

Il ruolo della CSCE, le funzioni dell'Alto Commissario per le minoranze nazionali e la creazione di un sistema di ricorsi individuali in materia di diritti umani e delle minoranze

SINTESI: L'atto finale di Helsinki (1975) era assai prudente, ed anche ambiguo, in merito al riconoscimento delle minoranze nazionali e i loro diritti collettivi. Un vero salto di qualità su questo argomento fu fatto con la seconda sessione della Conferenza sulla dimensione umana di Copenaghen (1990). Sono gli individui - si stabilì - che "scelgono" la loro appartenenza ad una minoranza nazionale.

La conferenza CSCE di Parigi (1990) cercò quindi di definire il quadro istituzionale paneuropeo della questione, che apparve essere uno dei versanti più fragili della sicurezza europea. Al momento della dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia, una riunione di esperti tenutasi a Ginevra (luglio 1991) dichiarava che "le minoranze nazionali non costituiscono esclusivamente un affare interno di uno Stato". Era una dichiarazione opportuna nel momento in cui venne stilata. Ma occorre arrivare al summit di Helsinki del 1992 perché venga istituito un Ufficio di Alto Commissario per le minoranze nazionali.

E' su questo piano che occorre intervenire, rafforzando gli strumenti di prevenzione e di soluzione pacifica delle controversie. In definitiva, solo la istituzione di un sistema come quello della Convenzione Europea dei diritti umani di Strasburgo potrebbe riportare in primo piano la legittimità ad agire dell'individuo per la difesa del diritto di appartenenza ad una minoranza.

L'Atto finale di Helsinki del 1975 presenta una prudenza estrema per quanto riguardava il riconoscimento delle minoranze nazionali e maggiormente per i loro eventuali diritti collettivi.

Secondo il VII principio dell'Atto finale:"Gli Stati sul territorio dei quali esistono delle minoranze nazionali rispettano i diritti delle persone appartenenti a queste minoranze di eguaglianza davanti alla legge, danno loro la piena possibilità di usufruire effettivamente dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in questo modo, proteggono i loro legittimi interessi in questo ambito". I termini utilizzati non permettono le interpretazioni che autorizza il Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 27).

All'espressione "minoranze etniche, religiose e linguistiche" utilizzata nell'articolo 27 del Patto viene preferita quella più ambigua di "minoranze nazionali'"

Dopo inutili tentativi di far avanzare i diritti e le garanzie delle minoranze negli anni '70 e '80 il Documento di chiusura della riunione di Vienna adottato il 15 gennaio 1989 introduceva due novità: da una parte, evoca la protezione delle "identità etniche, culturali, linguistiche e religiose" delle minoranze nazionali, dall'altro estende espressamente a beneficio di "persone appartenenti alle minoranze nazionali o alle culture regionali" le disposizioni relative ai contatti fra persone (emigrazione e viaggi all'estero), all'informazione, alla cultura e all'educazione.

In sostanza il Documento di Vienna del 1989 estende i diritti individuali legati all'appartenenza a una minoranza nazionale alla dimensione umana CSCE (terzo cesto). Ed è proprio per questi diritti secondo il meccanismo detto della "dimensione umana della CSCE" il documento di Vienna permette richieste e scambi di informazioni intergovernative sulle questioni relative ivi comprese situazioni e casi specifici.

La seconda sessione della Conferenza sulla dimensione umana, tenuta a Copenaghen dal 5 al 29 giugno 1990, fu l'occasione di un vero salto di qualità in materia. La questione delle minoranze nazionali occupa un capitolo intero della dichiarazione finale. Il testo afferma l'interdipendenza tra i diritti delle minoranze e un quadro politico democratico così come il ruolo delle organizzazioni non governative, "ivi compresi i partiti politici, i sindacati, le organizzazioni dei diritti dell'uomo e i gruppi religiosi" nella " ricerca di soluzione ai problemi riguardanti le minoranze nazionali" (par.30); poi specifica che "l'appartenenza a una minoranza nazionale è una questione dipendente da una scelta personale, e nessuno svantaggio può derivare da tale scelta". (par.32) In altre parole, non sono gli Stati che determinano l'esistenza delle minoranze nazionali, ma gli individui che lo reclamano (in questa prospettiva vi é un ribaltamento implicito della formulazione del principio VII dell'Atto finale).

Questa nozione permette inoltre di evitare la questione molto controversa della definizione di minoranze nazionali e di conservare un criterio di appartenenza individuale mantenendo l'esistenza dei diritti collettivi. Questi ultimi sono per altro precisati: "Le persone appartenenti a delle minoranze nazionali hanno il diritto di esprimere, di preservare e di sviluppare in tutta libertà la loro identità etnica, culturale, linguistica o religiosa e di mantenere e sviluppare la loro cultura sotto tutte le forme, al riparo di tutti i tentativi d'assimilazione contro la loro volontà" (par.32).

La Conferenza della CSCE di Parigi riunita dal 19 al 21 novembre 1990 ha cercato di definire il quadro istituzionale paneuropeo. La questione delle minoranze nazionali è apparsa come uno dei versanti più fragili della sicurezza europea. La Carta di Parigi per una nuova Europa, adottata in questa occasione afferma nella sua dichiarazione intitolata " una nuova era di democrazia di pace e di unità", che "l'identità etnica, culturale, linguistica e religiosa delle minoranze nazionali sarà protetta e che le persone appartenenti a queste minoranze hanno il diritto di esprimere, di preservare e di sviluppare questa identità senza alcuna discriminazione e in piena uguaglianza davanti alla legge". Gli Stati partecipanti riconoscono inoltre " il prezioso contributo delle minoranze nazionali per la vita delle nostre società" ed esprimono ancora una volta la loro "determinazione a lottare contro tutte le forme di odio razziale o etnico, di antisemitismo, di xenofobia e di discriminazione verso chiunque, così come

di persecuzione per motivi religiosi od ideologici" .

Una riunione di esperti sulle minoranze nazionali convocata a Ginevra dal 1 al 19 luglio 1991 si rivelò di estrema opportunità e urgenza, quando la Slovenia e la Croazia dichiararano la loro indipendenza, il 25 giugno 1991. In quella sede si é affermato un principio fondamentale di diritto internazionale, le minoranze nazionali "non costituiscono (....) esclusivamente un affare interno di uno Stato" . In secondo luogo, il Rapporto di Ginevra chiede un'informazione adeguata e forme di monitoraggio sulle elezioni libere della CSCE con l'invio di osservatori in occasione di qualsiasi elezione pubblica, compreso il livello regionale e locale, in particolare nelle regioni dove vivono delle minoranze nazionali.

Non si riuscì tuttavia ad adottare un meccanismo specifico di protezione, malgrado tre proposte da parte dei Paesi neutrali e non allineati, della Pentagonale e gli Stati Uniti.

Quest'ultimo meccanismo fu finalmente adottato nel corso della terza sessione della Conferenza sulla dimensione umana tenuta a Mosca dal 10 settembre al 4 ottobre 1991, in occasione della quale il meccanismo della dimensione umana fu considerevolmente rinforzato ed esplicitamente esteso a "la protezione e la promozione dei diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali".

Creato in occasione del summit di Helsinki del 1992 su proposta olandese l'ufficio di Alto Commissario per le minoranze nazionali è concepito come una nuova istituzione della CSCE e "come strumento di prevenzione dei conflitti allo stadio più precoce possibile". La sua funzione é esplicitamente legata alla dimensione di sicurezza della questione delle minoranze nazionali, poiché interviene "quando le tensioni legate a problemi di minoranze nazionali rischiano di degenerare in un conflitto nella zona della CSCE, minacciando la pace, la stabilità o le relazioni fra gli Stati partecipanti". La dimensione umana e la legittimazione dell'azione di denuncia degli individui beneficia dei mezzi dell'ufficio delle istituzioni democratiche e dei diritti dell'uomo di Varsavia.

Le tensioni che coinvolgono minoranze nazionali possono potenzialmente trasformarsi in conflitti che mettano in pericolo la pace, la stabilità e le relazioni tra gli Stati membri. L'Alto Commissario deve intervenire quando un conflitto minaccia potenzialmente di estendersi oltre i confini dello Stato nel quale é stabilita la minoranza nazionale, deve però astenersi dall'intervenire quando il conflitto é segnato da atti di terrorismo organizzato.

Le funzioni dell'Alto Commissario includono l'avviso precoce ("early warning") e l'azione precoce ("early action"). L'avviso precoce comprende un attento esame della situazione e la raccolta delle necessarie informazioni, compreso l'utilizzo di visite in loco con richiesta di consenso da parte dello Stato territoriale.

Questi strumenti di prevenzione appaiono ancora molto deboli in relazione alla sfida costituita dalle questioni delle minoranze nazionali. Per quel che riguarda la loro dimensione collettiva ed il loro impatto in materia di sicurezza, il rafforzamento delle istituzioni idonee della CSCE si rivela possibile su tre piani:

- la creazione di un segretariato generale dotato di reali poteri di coordinamento e di mezzi di azione;

- dei meccanismi di azione rapida cioè di mantenimento della pace attraverso un processo di decisione a maggioranza qualificata o in seno ad un consiglio di sicurezza ristretto investito di questa responsabilità;

- lo sviluppo di nuovi strumenti di prevenzione e di risoluzione pacifica delle controversie, come una Corte pan-europea di arbitrato e di conciliazione, che sia anche competente in materia territoriale, di frontiere interne degli stati e di minoranze nazionali; si tratterebbe di una estensione del meccanismo di risoluzione pacifica delle controversie, creato a La Valletta nel febbraio 1991 e per il momento non ancora utilizzato.

Anche se la dimensione umana dei diritti delle minoranze nazionali, ha fatto notevoli progressi, resta innegabile l'ambiguità della CSCE in due campi, la cui complessità é stata pienamente rivelata dai precedenti lavori delle Nazioni Unite e da quelli contemporanei del Consiglio d'Europa. Da un lato, la CSCE non ha mai tentato di definire il termine stesso di "minoranza nazionale", preferendo utilizzare un approccio pragmatico. D'altra parte, il suo carattere intergovernativo e molto politico le ha impedito un dibattito approfondito sulle modalità di conciliare tra i principi del Decalogo sulla inviolabilità dei confini (principio III), sulla integrità territoriale degli Stati (principio IV), sul non intervento negli affari interni (principio VI) e sulla autodeterminazione dei popoli (principio VIII).

Solo la istituzione di un sistema come quello della Convenzione europea dei diritti umani di Strasburgo potrebbe riportare in primo piano la legittimazione ad agire dell'individuo per la difesa del diritto di appartenenza ad una minoranza.

Alto Commissario per le Minoranze Nazionali (Atto di Helsinki 1992)

Il Consiglio nominerà un Alto Commissario per le Minoranze Nazionali. L'Alto Commissario assicura il "preallarme" e, come opportuno, un'"azione tempestiva" con la massima sollecitudine possibile in relazione alle tensioni che implichino questioni relative alle minoranze nazionali, che siano suscettibili di svilupparsi in un conflitto nell'area CSCE, pregiudicando la pace, la stabilità, o le relazioni tra gli Stati partecipanti. L'Alto Commissario si avvarrà dei mezzi di cui dispone l'Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti dell'Uomo (ODIHR) a Varsavia.

- Mandato

L'Alto Commissario agirà sotto l'egida del CAF e sarà pertanto uno strumento per prevenire i conflitti nella fase più tempestiva possibile.

L'Alto Commissario assicurerà un "preallarme" e, come opportuno, un"azione tempestiva" nella fase più sollecita possibile in relazione a tensioni concernenti questioni relative alle minoranze nazionali che non si siano ancora sviluppate oltre una fase di preallarme, ma che, a giudizio dell'Alto Commissario, possano degenerare in un conflitto nell'area CSCE, pregiudicando la pace, la stabilità o le relazioni fra gli Stati partecipanti, richiedendo l'attenzione e l'azione del Consiglio dei Ministri della CSCE o del CAF.

Nell'ambito del mandato, basato sui principi e sugli impegni CSCE, l'Alto Commissario agirà con discrezione e opererà indipendentemente da tutte le parti direttamente coinvolte nelle tensioni.

L'Alto Commissario prenderà in considerazione le questioni relative alle minoranze nazionale che si verifichino nello Stato di cui l'Alto Commissario sia un cittadino o un residente, o che coinvolgano una minoranza nazionale cui l'Alto Commissario appartiene, soltanto se tutte le parti direttamente coinvolte, incluso lo Stato interessato, sono d'accordo.

L'Alto Commissario non prenderà in considerazione le questioni relative alle minoranze nazionali in situazioni che comportino azioni organizzate di terrorismo.

L'alto Commissario non prenderà in considerazione neppure le violazioni degli impegni CSCE concernenti una singola persona appartenente ad una minoranza nazionale.

Nel prendere in considerazione una situazione, l'Alto Commissario terrà pienamente conto della disponibilità di mezzi democratici e di strumenti internazionali atti ad affrontarla e della loro utilizzazione ad opera delle parti interessate.

Qualora una questione particolare relativa ad una minoranza nazionale sia stata sottoposta all'attenzione del CAF, il coinvolgimento dell'Alto Commissario richiederà una domanda e un mandato specifico da parte del CAF.

- Fonti di Informazione sulle Questioni Relative alle Minoranze Nazionali

L'alto Commissario potrà:

- raccogliere e ricevere informazioni concernenti la situazione delle minoranze nazionali ed il ruolo delle parti in questa coinvolte da qualsiasi fonte, inclusi i mezzi di informazione e le organizzazioni non governative con l'eccezione riportata nel paragrafo (25);

- ricevere rapporti specifici dalle parti direttamente coinvolte in merito agli sviluppi concernenti questioni relative alle minoranze nazionali. Questi potranno includere rapporti sulle violazioni degli impegni CSCE relative alle minoranze nazionali nonché su altre violazioni nel contesto di questioni relative a minoranze nazionali.

Tali rapporti specifici indirizzati all'Alto Commissario dovrebbero rispondere ai seguenti requisiti:

- essi dovrebbero essere scritti, inviati all'Alto Commissario come tale e firmati con nomi ed indirizzi completi;

- essi dovrebbero contenere un resoconto fattuale degli sviluppi che concernono lo stato di persone appartenenti a minoranze nazionali e del ruolo delle parti in essa coinvolte e che si sono recentemente verificati, in linea di principio, non più di dodici mesi prima. I rapporti dovrebbero contenere informazioni che possano essere sufficientemente provate.

L'Alto Commissario non comunicherà e non accoglierà comunicazioni da qualsiasi persona od organizzazione che pratichi o giustifichi pubblicamente il terrorismo o la violenza.

EX-JUGOSLAVIA

SINTESI: Mentre resta ferma la condanna alla spartizione etnica della Bosnia, l'evoluzione della situazione nella prospettiva di una divisione di questo paese in tre regioni autonome non lascia margini per una iniziativa che tenda a ristabilire il quadro preesistente.

E' possibile prospettare, di fatto, due scenari, non antitetici. Il primo guarda essenzialmente al crollo del regime di Belgrado come premessa indispensabile anche per una regolamentazione democratica della questione bosniaca; il secondo punta piuttosto a far promuovere dalla Comunità internazionale nuove regole di coesistenza, che scoraggino la via violenta per imporre le proprie ragioni.

Nell'ambito di questi scenari, ecco alcune opzioni possibili e utili su cui impegnare il partito:

1) "Disconoscimento" della Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia-Montenegro), approfondendo gli aspetti giuridici della tesi di non-continuità giuridica tra la Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia e la Repubblica Jugoslava (Serbia-Montenegro), e avviando una campagna per il "disconoscimento" della repubblica Jugoslava (Serbia-Montenegro).

2) Va sviluppata la proposta di porre sotto la tutela diretta delle NU il Kossovo, partendo dall'emendamento Molinari al Congresso americano e dalle richieste in tal senso dei presidenti del Kossovo e dell'Albania.

3) Questione macedone. Vanno aperte campagne presso i vari parlamenti per il riconoscimento della Repubblica di Macedonia.

4) Utilizzazione della mozione presentata al parlamento italiano da deputati radicali, in cui si critica la Risoluzione 838 del Consiglio di sicurezza dell'ONU che riconosce di fatto (puntando anche al riconoscimento di diritto) lo smembramento etnico della Repubblica di Bosnia secondo criteri razzisti e violenti.

5) Il lungo governo totalitario e comunista ha degradato e reso odioso, in Jugoslavia come in Russia, l'idea stessa di Federazione come modello valido di Stato. Il federalismo vigente in Russia e in Jugoslavia era sostenuto solo dalla violenza di Stato. Non è invece possibile rinunciare a proporre il sistema costituzionale di tipo federale, secondo il modello democratico attuato da secoli negli Stati Uniti: è forse l'unico che potrebbe consentire la convivenza fruttuosa e civile di popoli, etnie, lingue, culti e culture diverse.

La rapida evoluzione della situazione in Bosnia con la sostanziale accettazione da parte della comunità internazionale delle conquiste territoriali realizzate dai serbi e dai croati, nella prospettiva di una divisione di questo paese in tre regioni autonome non lascia molti margini per una iniziativa che possa tendere a ristabilire il quadro giuridico bosniaco ed internazionale preesistente alla guerra.

Per questa ragione è possibile prospettare due scenari che riguardano la questione dell'ex-Jugoslavia. La prima punta essenzialmente al crollo del regime razzista e antidemocratico di Belgrado, come premessa indispensabile anche per un regolamento democratico della questione bosniaca. La seconda invece tenta di far promuovere dalla comunità internazionale nuove regole di coesistenza che puntano a togliere ogni vantaggio a chi ha scelto la via violenta per imporre le sue ragioni. Rimane ferma e decisa la nostra condanna alla spartizione etnica della Bosnia.

Nell'ambito di questi scenari ecco un elenco di opzioni possibili:

"Disconoscimento" della Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia-Montenegro)

Oltre all'approfondimento degli aspetti giuridici della tesi di non-continuità giuridica tra la Repubblica Federativa Socialista di Yugoslavia e la Repubblica Yugoslavia (Serbia-Montenegro), va intrapresa la campagna per il "disconoscimento" della Repubblica Yugoslavia (Serbia-Montenegro), con il conseguente richiamo degli ambasciatori - pur da molti paesi già attuato - e la chiusura delle sedi diplomatiche "serbe" tutt'ora operanti

Tutela "ONU" del Kossovo

Va approfondito al livello politico e giuridico la proposta di porre sotto la tutela diretta delle Nazioni Unite il Kossovo, ex-provincia autonoma e soggetto costituente della ex-Yugoslavia, nella costituzione Yugoslavia del 1974.

In questo senso l'approvazione da parte del Congresso americano dell'emendamento "Molinari", che contiene le nostre richieste, e le richieste dei presidenti del Kossovo e dell'Albania, possono essere buoni punti di partenza.

[Il congresso americano ha approvato il 16 giugno due emendamenti presentati dalla deputata Molinari: il primo chiede al Presidente Clinton di premere sul Consiglio di Sicurezza per un dispiegamento di truppe ONU in Kossovo; il secondo chiede che il Consiglio di Sicurezza deliberi un aumento di ispettori-osservatori CSCE in Kossovo.

La richiesta di "protettorato" invece è stata avanzata dal Presidente del Kossovo Rugova (uno dei 10 punti del Piano che Rugova ha presentato ai mediatori Owen e Stoltenberg)

Anche il presidente albanese Berisha ha presentato agli stessi mediatori un piano in 6 punti per la soluzione del problema Kossovo: uno dei punti riguarda la richiesta al Consiglio di sicurezza del Protettorato. Un altro punto in comune dei due piani (Rugova-Berisha) chiede al Consiglio di Sicurezza di condizionare l'eventuale fine dell'embargo alla Serbia alla soluzione del problema Kossovo]

Macedonia

Rilancio nei vari parlamenti della campagna per il riconoscimento della Repubblica di Macedonia, tuttora riconosciuta da pochissimi stati europei.

Federazione balcanica

Il lungo assoggettamento dei Paesi dell'est europeo a regimi totalitari ha screditato profondamente la credibilità del modello istituzionale di tipo federale. Il "federalismo" realizzato nei regimi totalitari comunistici nulla aveva a che fare con la grande teoria e prassi democratica e liberale quale si è sviluppata sopratutto negli Stati Uniti d'America, dove il federalismo è stato la base istituzionale che ha reso possibile lo sviluppo delle libertà dei singoli e dei popoli. La sfiducia nel falso federalismo totalitario e comunista ha gettato i paesi interessati in una serie di guerre civili e statuali che nessuna "pulizia etnica", razziale o religiosa, ottenuta con la violenza ed il terrore, potrà risolvere in tempi storici: nessun paese può garantire l'assoluta esclusione di minoranze etniche, culturali o religiose dai propri confini, e in nessun paese potranno essere messe in atto leggi, o norme, davvero valide a garantire la parità delle minoranze "residue". Ciò pone le premesse per irrisolvibili lott

e civili e terroristiche, destinate a durare all'infinito.

Per quanto possano le norme internazionali appositamente studiate e messe in atto, l'unica soluzione è quella di togliere al termine "minoranza" la connotazione negativa che la circonda. Occorre rovesciare l'approccio, riconoscendo e valorizzando come autentica ricchezza ogni pluralismo culturale e linguistico (e pensiamo in particolare alla ricchezza del pluralismo culturale che è proprio dei Balcani). Perciò, forti dell'esperienza negativa dell'exJugoslavia, è necessario pensare alla costruzione, lenta e difficile ma necessaria, di una "Confederazione balcanica", nella quale si fondino e crescano assieme le tradizioni e le civiltà che fino ad oggi hanno costituito la propria identità sul conflitto, l'esclusione e il genocidio delle altre. E' su questa strada che i Balcani potranno portare un impareggiabile contributo di civiltà, di cultura e di vitalità all'intera Europa.

Non si propone per l'immediato una iniziativa in merito, ma si auspica che si formi un gruppo di ricerca e di proposta che possa avviare le prime iniziative.

Ritengo infine utile riprodurre una mozione presentata da deputati iscritti al Pr in Italia che riassume alcuni obiettivi che potrebbero essere assunti anche in altri parlamenti. In questa mozione si critica la risoluzione 836 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che »riconosce di fatto e tende a imporre anche in diritto lo smembramento etnico della Repubblica di Bosnia da parte della Serbia ed anche della Croazia, secondo criteri di "pulizia etnica", cioè razzisti e violenti . Si chiede al governo italiano di sollecitare da parte dell'ONU una azione di informazione rivolta ai cittadini serbi e montenegrini e di interrompere le relazioni diplomatiche tra Italia e "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)".

MOZIONE

- Considerato che la "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" è responsabile di gravi crimini internazionali quali l'aggressione della Bosnia, il genocidio delle popolazioni musulmane e la violazione su scala sistematica e massiccia in tempo di guerra dei diritti umani; considerato che appare evidente che i comportamenti delle unità paramilitari serbe in Croazia e in Bosnia sono da considerare imputabili alla "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)";

- Considerato che l'accordo sulla Bosnia-Erzegovina raggiunto a Washington il 22 maggio 1993, in qualche modo fatto proprio dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione n. 836, riconosce di fatto e tende a imporre anche in diritto lo smembramento etnico di questa Repubblica da parte della Serbia ed anche della Croazia, secondo criteri di "pulizia etnica", cioè razzisti e violenti;

- Considerato che tale accordo ha ancora una volta portato all'intensificazione delle azioni militari, in particolare delle forze serbe, con l'espulsione delle popolazioni musulmane dalle terre da queste abitate;

- Considerato che il regime di Belgrado prosegue anche al suo interno alla compressione dei diritti civili e alla repressione di ogni forma di opposizione politica; che il leader del partito di rinnovamento serbo, Vuk Draskovic, è stato arrestato e brutalmente percosso;

- Considerato che si aggravano le forme di repressione della Serbia nei confronti dei cittadini albanesi del Kossovo; che la scomparsa della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia impone la ridefinizione delle garanzie di autogoverno del Kossovo e della Voivodina;

- Considerato che la Risoluzione n. 713 del 25 settembre 1991 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, afferma che "le trasformazioni territoriali ottenute in Jugoslavia con la violenza non sono accettabili" (n. 8 del preambolo);

- Considerato che è in atto un processo di aggregazione dei serbi di Croazia e Bosnia, e in futuro nella "Grande Serbia";

- Considerato che la Risoluzione n. 757 del 30 maggio 1992 ha imposto agli Stati membri di ridurre lo staff delle missioni diplomatiche e consolari nella "Repubblica Federale di Jugoslavia" (Serbia e Montenegro), i quali stati membri restano ovviamente liberi di abolirle e non solamente ridurle;

- Considerato che la Risoluzione n. 777 del 19 settembre 1992 ha dichiarato che "lo Stato precedentemente conosciuto come Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia ha cessato di esistere" ed ha respinto la richiesta della "Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" di acquisire automaticamente lo stato di membro delle Nazioni Unite;

- Considerato che le opinioni n. 1 e n. 10 del Comitato di Arbitrato Badinter della Conferenza di Pace sulla Jugoslavia affermano che i principi del diritto internazionale pubblico considerano l'esistenza e la disparizione di uno Stato una questione di fatto e che la nuova "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" sarebbe da considerare un "nuovo Stato";

- Considerato che la stessa opinione n. 10 del Comitato di Arbitrato, dopo aver affermato che il riconoscimento, pur avendo carattere dichiarativo, è atto discrezionale che gli Stati terzi possono adottare purché lo Stato oggetto di tale riconoscimento rispetti i principi inderogabili del divieto dell'uso della forza e i diritti fondamentali dell'uomo e delle minoranze;

- Considerato che il riconoscimento de facto e la continuazione delle relazioni diplomatiche fra Italia e "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" costituirebbero, secondo la tradizione e la dottrina del diritto internazionale, un riconoscimento a tutti gli effetti;

- Considerato che il nostro Governo continua a conservare aperta una missione diplomatica a Belgrado e accetta che rappresentanti della "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" continuino ad occupare locali dell'ambasciata dell'ex-Repubblica Jugoslava;

- Considerato che il nostro Governo concede su condizione di reciprocità, l'immunità giurisdizionale degli agenti diplomatici di quello Stato; che tra questi ultimi e il nostro Governo intercorrono comunicazioni in varia forma assimilabili al contenuto tipico delle relazioni diplomatiche; che di recente il personale della sede diplomatica della "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" in Roma ha chiesto, per conto di quest'ultima, l'estradizione di un cittadino sloveno arrestato in Italia per traffico di armi, ai sensi del Trattato bilaterale italo-jugoslavo di estradizione;

- Considerato che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel costituire il Tribunale per la ex-Jugoslavia sulla base del capitolo VII della Carta, ha indicato che le gravi violazioni del diritto umanitario commesse nell'ex-Jugoslavia costituiscono una minaccia alla sicurezza e alla pace;

- Considerato quindi che le condizioni per il riconoscimento del nuovo Stato "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" fissate nell'opinione n. 10 della Commissione Badinter non vengono soddisfatte in alcun modo da quello Stato;

- Considerato che l'interruzione delle relazioni diplomatiche è una delle misure considerate dall'articolo 41 della Carta delle N.U. e che essa può rappresentare una legittima contromisura per i comportamenti illeciti di uno Stato;

- Considerato che le azioni tradizionalmente militari senza il supporto di quelle nonviolente di informazione, di diffusione delle verità e realtà presso i popoli e gli individui interessati possono essere vanificate o ostacolate o perfino controproducenti nell'immediato e nel medio-lungo periodo

impegna il governo

1. a sollecitare da parte dell'ONU un appello ed una dichiarazione - e una loro effettiva conoscenza - rivolti alla popolazione serba ed a tutti i cittadini della "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)" onde informarli puntualmente e in ogni modo possibile del fatto che la Comunità internazionale difende i loro stessi diritti ed il loro stesso avvenire contro anni di violenza interna ed internazionali, di azioni e disegni criminali, ed anche di tutte le conseguenze e misure internazionali che potrebbero concretamente gravare sul loro avvenire;

2. a sollecitare in questa direzione e questa azione anche singolarmente tutti gli Stati membri, oltre alla Unione Europea ed alla CSCE, e le organizzazioni riconosciute dall'ONU e le ONG;

3. ad operare comunque, per quanto lo concerne direttamente, secondo questi indirizzi ed obiettivi;

4. a non avallare in alcuna sede e in alcun modo - sia pure per omissione - l'accordo di Washington e a chiedere formalmente la modifica della risoluzione n. 836;

5. a sollecitare il Consiglio di sicurezza dell'ONU a conferire un più ampio mandato alle forze dell'ONU e a preparare un adeguato rafforzamento della loro presenza al fine di imporre il ritiro delle unità paramilitari serbe e croate in azione in Bosnia, per il disarmo di tutte le bande irregolari e per impedire l'afflusso di armi e aiuti a tali forze;

6. a sollecitare il Consiglio di sicurezza dell'ONU ad adottare una risoluzione, in analogia con quanto precedentemente deciso per il Kurdistan iracheno, volta ad interdire lo svolgimento di operazioni militari nel Kossovo e a sottoporre questa regione ad una particolare tutela amministrativa e militare da parte delle Nazioni Unite;

7. ad avviare con urgenza consultazioni in sede di Cooperazione Politica Europea - a cominciare dal Consiglio europeo di Copenaghen del 21, 22 giugno - affinché venga deciso da parte dei 12 un inasprimento delle sanzioni politiche contro la Repubblica di Jugoslavia (Serbia e Montenegro) attraverso l'adozione di un provvedimento di interruzione delle relazioni diplomatiche;

8. ad interrompere in ogni caso le relazioni diplomatiche tra Italia e "Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)".

AMBIENTE

Campagna di protezione ambientale e per lo sviluppo ecologicamente sostenibile dell'Europa centro-orientale

SINTESI: La questione ambientale è divenuta elemento essenziale di qualsiasi programma politico, sia per i paesi sviluppati che per le aree meno sviluppate e più povere del mondo.

Ormai non è più tempo della filosofia dell'"oasi", del protezionismo di particolari aree o di alcune specie minacciate di estinzione. La questione ambientale va incorporata nelle strategie di sviluppo, di democrazia, di sicurezza e di cooperazione internazionali, come indispensabile chiave di volta e punto di leva. Sempre più la questione ambientale ha carattere globale e sovranazionale, richiedendo un diritto internazionale forte e nuove forme di sicurezza tra i popoli. Per quel che riguarda i paesi dell'ex blocco sovietico si propongono alcuni progetti che presentano implicazioni di grande interesse. Mentre si configurano come un vero e proprio programma di "sviluppo sostenibile", essi tendono anche a contenere i conflitti nazionali, spingendo i popoli dei Balcani (ma non solo) a creare Istituzioni sovranazionali e fondando su basi corrette il processo di integrazione e cooperazione tra l'Est e l'Ovest d'Europa.

Tre sono i progetti considerati:

1) Nei paesi dell'Est europeo sono presenti almeno una trentina di centrali nucleari prive dei requisiti minimi di sicurezza e assai arretrate dal punto di vista tecnologico, tanto da essere causa di ritardo anche nello sviluppo economico. In questo quadro sono state progettate due iniziative: a) promozione di piani energetici nazionali che diano priorità al conseguimento di livelli soddisfacenti di efficienza energetica, indirizzando in tal senso i programmi internazionali di cooperazione finanziaria e tecnologica; b) chiusura delle centrali nucleari più pericolose nell'ambito di programmi internazionali di cooperazione. La chiusura sarà sollecitata anche facendo leva su referendum e altre iniziative popolari.

2) Campagna per l'istituzione della Comunità Europea dei grandi fiumi e delle idrovie, vale a dire di una Autorità sovranazionale con poteri di gestione, dal punto di vista economico e ambientale, del gigantesco sistema idroviario incentrato sul Danubio. Tale sistema idroviario già unisce, attraverso il Meno, il Reno e i terminali collegati, nove paesi dal Mare del Nord al Mar Nero, ma ha la capacità di coinvolgere anche la Francia, l'Italia, la Slovenia e la Croazia oltreché, in prospettiva, la Russia.

Si tratta del progetto più impegnativo e importante che riguardi i paesi dell'ex blocco sovietico, un progetto globale che porrebbe al suo centro la salvaguardia e la crescita di uno degli ecosistemi più importanti d'Europa e rivoluzionerebbe i commerci e l'intera economia di tutto il continente, rinnovando i contatti e il raccordo civile e culturale tra i suoi popoli. Il progetto sarà realizzabile solo se si sosterrà il disegno economico con istituzioni e strumenti di gestione sovranazionali, con la istituzione cioè di una Autorità di gestione dotata di poteri sovranazionali che innovi profondamente anche sulla attuale, inadeguata Convenzione per la navigazione sul Danubio.

Dovremo elaborare in merito proposte di legge e risoluzioni da presentare nei parlamenti nazionali e al parlamento europeo, con un programma pluriennale di iniziative di sostegno.

Campagna per il diritto all'informazione.

Connessa alla precedente, ma di portata più ampia, è la conquista del diritto di accesso dei cittadini all'informazione sull'ambiente. Il riconoscimento di questo diritto avrebbe effetti di grande innovazione per ciò che riguarda i rapporti tra cittadino e amministrazioni pubbliche come per la modernizzazione ed efficienza dell'amministrazione.

Due, le indicazioni:

1) presentazione di proposte di legge nei vari parlamenti per il riconoscimento del diritto di accesso alle informazioni detenute dalla pubblica amministrazione.

2) risoluzioni parlamentari, petizioni popolari, pressioni sulla CEE e sui governi per la creazione di un mercato comune telematico pan-europeo per le informazioni sull'ambiente e i consumatori. Saranno proposte attività di studio, ecc., e un seminario internazionale per l'individuazione di possibilità concrete di promozione della rete telematica.

1. PREMESSA

1.1. Le vicende dell'ultimo ventennio hanno fatto della questione ambientale un elemento essenziale di qualsiasi programma politico. Ciò è vero in ciascun ambito nazionale, nel ristretto numero dei paesi sviluppati; ma tende a coinvolgere progressivamente anche le aree meno sviluppate e persino le più povere del pianeta.

Non si tratta però di aggiungere un'appendice verde a politiche che continuano ad andare per il verso tradizionale. Non è più in gioco, insomma, la filosofia delle oasi, cioè il semplice protezionismo di aree e specie. Oggi la questione ambientale va incorporata (come vincolo e motore) nelle strategie di sviluppo, di democrazia, di sicurezza e di cooperazione internazionali, nei confronti delle quali può agire da chiave di volta o punto di leva.

Tramonta così la contrapposizione tra ambiente e sviluppo che ha segnato la fase di avvio dei movimenti ambientalisti, storicamente dominata da ideologie primitive e dall'attenzione esclusiva ai problemi del mondo sviluppato. La conferenza di Rio de Janeiro ne ha proclamato la fine e, con le prime elaborazioni del concetto di "sviluppo ecologicamente sostenibile", ha posto l'esigenza di un nuovo corso.

Per sua stessa natura, la questione ambientale ha carattere globale e sovranazionale, spezza le linee dei confini, limita i poteri degli Stati, richiama il massimo sviluppo dei diritti civili e politici, richiede un diritto internazionale forte, innova radicalmente il concetto e la pratica della sicurezza tra i popoli. Essa apre insomma una prospettiva di grandissimo rilievo: tuttavia difetta gravemente di azioni e strumenti politici adeguati. Per tutti questi motivi, essa appare come un ambito privilegiato di intervento per una forza politica transnazionale.

1.2. Facendo perno su alcune rilevanti questioni ambientali, il programma di iniziative per i paesi dell'ex blocco sovietico ha numerose implicazioni di grande interesse.

Esso si configura, innanzitutto, come un vero e proprio programma di sviluppo compatibile con l'ambiente, in quanto tende a creare le condizioni per il superamento della fallimentare situazione economica ereditata dai passati regimi. Aumento dell'efficienza energetica, sviluppo di una rete continentale di trasporto centrata sull'asse Danubio-Reno, creazione di un mercato telematico pan-europeo delle informazioni: gli obiettivi contenuti nel programma sono tra i requisiti essenziali di una realistica prospettiva di sviluppo economico.

In secondo luogo, esso tende a contenere i conflitti nazionali spingendo verso la creazione di istituzioni sovranazionali e fonda su basi corrette e lungimiranti il processo di integrazione e cooperazione tra l'Est e l'Ovest dell'Europa.

Infine, con le azioni in tema di diritto all'informazione e di trasparenza della pubblica amministrazione, sul modello dell'U.S. Freedom of Information Act, vuole contribuire allo sviluppo di una democrazia avanzata e di un rapporto aperto e non conflittuale tra istituzioni e cittadini.

Il programma è articolato in tre progetti di campagna.

2. CAMPAGNA PER L'EFFICIENZA ENERGETICA E LA CHIUSURA DELLE CENTRALI NUCLEARI PERICOLOSE

2.1. Dal punto di vista dell'energia - risorsa base dell'economia - i paesi dell'Est presentano, in termini addirittura clamorosi, due problemi gravissimi la cui mancata soluzione impedisce lo sviluppo economico e mantiene le popolazioni (ma anche la comunità internazionale) in una situazione inaccettabile di rischio.

Da una parte, una trentina almeno di centrali nucleari prive dei requisiti minimi di sicurezza, che andrebbero chiuse con urgenza per scongiurare la minaccia di nuove Chernobyl. Da tener presenti anche i rischi di attentati o bombardamenti a seguito di conflitti e guerre (ad esempio, la centrale nucleare di Krsko, in Slovenia).

Dall'altra parte, una situazione di stupefacente arretratezza nelle tecnologie e negli usi energetici, che rende prioritari interventi di promozione dell'efficienza energetica. Basti pensare che gli indicatori dell'intensità energetica (rapporto tra consumo di energia e prodotto interno lordo) nei paesi dell'Est sono più elevati della media CEE di un fattore che oscilla da 1,5 a più di 2. Senza interventi drastici, l'approvvigionamento energetico comporterà per questi paesi un esborso insostenibile di valuta pregiata che agirà da vero e proprio ostacolo allo sviluppo. Senza contare l'impatto distruttivo sull'ambiente e sulla salute dei cittadini.

2.2. In questo quadro, sono state progettate due iniziative da sviluppare contestualmente. Una tende a promuovere il varo di piani energetici nazionali che diano priorità al conseguimento di livelli soddisfacenti di efficienza energetica, e a indirizzare in tal senso i programmi internazionali di cooperazione finanziaria e tecnologica. Si utilizzeranno a tal fine gli strumenti agibili nei parlamenti nazionali interessati e nel Parlamento europeo, nonché forme di pressione nelle sedi internazionali rilevanti, quali la CEE e il G-7. Sono previste anche petizioni popolari, seminari e corsi di formazione con la partecipazione di enti scientifici e imprese.

Il secondo filone di iniziative ha come obiettivo la chiusura delle centrali nucleari maggiormente pericolose nell'ambito di programmi internazionali di cooperazione. La questione ha anche implicazioni in materia di trattati e istituzioni internazionali, di connessioni tra nucleare civile e militare (Euratom, Trattato di Non Proliferazione), di cooperazione tra Est e Ovest.

Lo strumento di azione preferenziale è il referendum popolare, in sinergia con gli strumenti disponibili d'intervento parlamentare.

Questa campagna interessa un target ampio: a parte i gruppi ambientalisti e il pubblico in generale, parlamentari, personale scientifico, amministratori pubblici, enti di ricerca, imprese.

3. CAMPAGNA PER L'ISTITUZIONE DELLA COMUNITA' EUROPEA DEI GRANDI FIUMI E DELLE IDROVIE

3.1. Obiettivo di questa campagna è l'istituzione di una Comunità europea dei grandi fiumi e delle idrovie, vale a dire di un'Autorità sovranazionale con poteri di gestione, dal punto di vista economico e ambientale, del gigantesco sistema idroviario incentrato sul Danubio. Si tratta di un obiettivo a priorità massima, che può agire da volano delle politiche di sviluppo economico, protezione ambientale e progresso civile e politico in tutta l'Europa centro-orientale.

Il Danubio è l'asse portante di un sistema idroviario che, già dal 1992, attraverso collegamenti con il Meno e il Reno, attraversa o tocca lungo le frontiere nove paesi: Olanda, Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Serbia, Bulgaria, Romania, Ucraina (con terminali Rotterdam-Mare del Nord e Foce del Danubio-Mar Nero). Questo asse navigabile riduce sensibilmente (di più di 2.500 Km) le rotte marittime oceaniche, da Rotterdam al Canale di Suez. Sono previsti completamenti a breve e medio termine, che coinvolgerebbero la Francia, l'Italia, la Slovenia, la Croazia; mentre, nel lungo termine, si ipotizza il collegamento con la grande idrovia russa che collega già il Mar Baltico con il Mare d'Azov-Mar Nero, attraversando tutta la Russia in direzione nord-sud.

Si tratta del progetto più impegnativo e importante che interessa i paesi dell'ex blocco sovietico. Infatti la creazione di un sistema unificato e integrato di trasporto dell'Europa centrale e orientale rivoluzionerebbe il commercio e l'economia di tutto il continente, fornendo ai paesi ex-comunisti importanti chances di sviluppo e di integrazione con i paesi occidentali.

3.2. Tuttavia, questa prospettiva non sarà perseguibile se non si sosterrà il disegno economico con istituzioni e strumenti di gestione sovranazionali; è facile anzi prevedere che il persistere delle rivalità tra gli Stati provocherà conflitti e crisi difficilmente governabili. Lo stesso problema si pone, a maggior ragione, per la protezione dell'ambiente.

Finora, nella costruzione di questo gigantesco sistema di trasporto, le questioni di impatto ambientale sono state trascurate o del tutto ignorate, sì da provocare danni irreversibili al sistema ambientale-paesistico; ancora maggiori i rischi che comporta lo sviluppo futuro dei traffici e delle attività produttive.

L'ambiente naturale su cui insiste buona parte del sistema idroviario è tra i più belli d'Europa, ricco di ecosistemi unici e di prestigiose testimonianze storiche di antiche urbanizzazioni. In mancanza di politiche e strumenti sovranazionali di tutela, l'incremento del trasporto fluviale causerà il progressivo inquinamento delle acque superficiali e di falda, lungo tutto il letto dei corsi d'acqua fino agli sbocchi in mare. A questo si aggiungerà l'inquinamento atmosferico che, per effetto delle piogge, filtra nei terreni, inquina le falde e rifluisce in parte nei fiumi. C'è infine la questione dei rifiuti solidi e liquidi, di origine industriale, agricola e urbana, che già oggi è molto preoccupante.

Questo complesso di problemi non può essere affrontato e risolto che attraverso la creazione di un'Autorità di gestione dotata di poteri sovranazionali. L'ultima riprova viene dalla controversia sorta tra Ungheria e Slovacchia a causa dei lavori di sbarramento del Danubio, al confine tra i due paesi, per la costruzione della centrale idroelettrica di Galcicovo (Slovacchia).

Occorre perciò cogliere l'occasione, che non si ripresenterà facilmente in Europa, per affermare in concreto i nuovi approcci cultural-politici solennemente sanzionati nella Conferenza di Rio de Janeiro, fondati sulla tutela dell'ambiente, sullo sviluppo ecologicamente sostenibile, sul rispetto delle diversità culturali e dei diritti civili delle popolazioni.

3.3. Attualmente è in vigore una Convenzione internazionale che regola la navigazione sul Danubio. Essa è stata firmata a Belgrado nell'agosto 1948 da Unione Sovietica, Bulgaria, Ungheria, Romania, Ucraina, Cecoslovacchia e Iugoslavia; le vicende degli ultimi anni l'hanno messa in crisi, ponendo all'ordine del giorno il problema del suo superamento. E' da notare che, da circa un secolo e mezzo, la navigazione sul Danubio è sottoposta a uno statuto internazionale e che ogni passaggio storico rilevante ha causato una rinegoziazione di esso: l'ultima, all'indomani della seconda guerra mondiale, ha avuto il suo dominus nell'ex Unione Sovietica.

[Dallo studio del prof Politi: »...L'"oggetto" della Convenzione di Belgrado è sostanzialmente limitato alla disciplina della navigazione sul Danubio e della esecuzione delle opere di ingegneria idraulica utili ad agevolare il traffico fluviale. In altri termini manca, all'interno del regime previsto dalla stessa Convenzione, un corpo di regole specificamente rivolto ad assicurare la tutela dell'ambiente danubiano attraverso strumenti di controllo (delle attività svolte sul fiume e sui territori degli stati rivieraschi) che sono invece tipici dello sviluppo successivo del diritto internazionale (mi riferisco soprattutto a meccanismi ben noti come quelli di informazione e consultazione tra Stati, di accesso del pubblico alle informazioni connesse alla tutela ambientale, di valutazione di impatto ambientale, di monitoraggio continuo dei livelli di inquinamento).

Di conseguenza anche le competenze della Commissione istituita ai sensi dell'art: 5 e delle Amministrazioni Speciali di cui agli articoli 20 e 21 sono ristrette al controllo della navigazione e delle attività a questa strettamente funzionali. Per cui è solo a titolo indiretto (e come risultato, ad esempio, di eventuali discipline o decisioni emanate in materia di opere di sbarramento o di ispezioni sanitarie ai battelli che percorrono il fiume) che la tutela ambientale può in definitiva rientrare tra gli effetti dell'azione svolta da tali organismi.

Ne risulta dunque, a mio avviso, una evidente inadeguatezza della normativa convenzionale prevista dalla Convenzione di Belgrado a rispondere alle esigenze di corretta ed equa utilizzazione economica e di adeguata protezione ambientale del sistema idroviario centrato nel Danubio. Specie alla luce della possibilità di ampliare tale sistema fino a collegarlo ad altri bacini come quelli del Meno e del Reno, occorrerebbe considerare quindi la possibilità di un radicale rinnovamento della legislazione internazionale in materia di utilizzazione e di tutela dello stesso e dei sistemi collegati. Tale obiettivo sembra meglio realizzabile attraverso un nuovo trattato internazionale (al quale aderiscano tutti i Paesi europei potenzialmente interessati) piuttosto che attraverso il meccanismo di un Protocollo addizionale alla convenzione esistente. Il ricorso a tale ultimo tipo di strumento potrebbe infatti sollevare problemi particolarmente delicati non solo in tema di ambito geografico di applicazione dello stesso (che

rischierebbe di essere circoscritto al bacino del Danubio, ma anche sotto il profilo della partecipazione degli Stati, che dovrebbe essere-almeno in linea di principio-limitata alle parti della Convenzione di Belgrado e ai relativi Stati "successori" ]

Quindi, obiettivo della nostra campagna è di perseguire l'istituzione di una Comunità europea dei grandi fiumi e delle idrovie. Il modello di riferimento è quello a suo tempo definito per la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, con l'obiettivo di farne, come avvenne già per la CECA, il volano per l'avvio di un processo di integrazione economica e politica dell'Europa orientale.

Verranno a tal fine elaborate proposte di legge e risoluzioni da presentare nei parlamenti nazionali e al Parlamento europeo e verrà predisposto un programma pluriennale di iniziative di supporto: petizioni popolari, meeting e manifestazioni internazionali, elaborazione e pubblicizzazione di studi e rapporti.

4. CAMPAGNA PER IL DIRITTO ALL'INFORMAZIONE

4.1. Il riconoscimento del diritto di accesso dei cittadini alle informazioni sull'ambiente, i consumatori e la pubblica amministrazione è il fondamento di una società di esseri liberi, uguali e solidali. Con il superamento del segreto amministrativo - l'antico segreto del principe, cioè il privilegio di occultarsi agli occhi dei sudditi - si opera uno "strappo" culturale e politico rispetto ai passati regimi e si pongono le basi per una democratizzazione effettiva degli apparati e della società. Solo così è possibile sperare in scelte collettive che, essendo informate, siano il più possibile razionali.

Per i paesi ex comunisti il riconoscimento di questo diritto avrebbe effetti di grande innovazione e sarebbe, insieme, una garanzia per il futuro. Esso, infatti, è un mezzo per migliorare i rapporti tra amministrazioni pubbliche e cittadini, rendendo trasparenti e controllabili le decisioni delle burocrazie. Nello stesso tempo, è un fattore di modernizzazione e di efficienza dell'amministrazione. Da non sottovalutare, infine, l'importanza del diritto all'informazione per lo sviluppo delle politiche ambientali e per l'intervento responsabile dei cittadini e dei movimenti nel controllo degli inquinamenti. Da questo punto di vista, la possibilità di accedere ai dati in possesso delle amministrazioni pubbliche faciliterebbe molto le nostre campagne sull'energia e il Danubio.

Il diritto all'informazione ha la sua consacrazione più piena negli Stati Uniti (Freedom of Information Act) ed è variamente riconosciuto negli altri paesi occidentali; la Comunità europea ha emanato una direttiva in materia. In Italia, una campagna è stata condotta negli anni scorsi dagli Amici della Terra, con risultati importanti: nel 1986 è stato riconosciuto pienamente per legge il diritto di accesso alle informazioni sull'ambiente e negli anni successivi sono state introdotte innovazioni di portata più generale nei procedimenti amministrativi e negli ordinamenti dei governi locali. L'esperienza di tutti i paesi dotati di legislazione in materia ha poi evidenziato la necessità di azioni efficaci per la costruzione di basi di dati adeguate, per la loro validazione e diffusione, con ricadute positive sugli apparati pubblici in generale e sugli stessi investimenti.

4.2. Due sono gli obiettivi principali della campagna:

a) presentazione di proposte di legge nei parlamenti nazionali per il riconoscimento del diritto di accesso alle informazioni detenute dalla pubblica amministrazione;

b) risoluzioni parlamentari, petizioni popolari, pressioni sulla CEE e sui governi nazionali, per la creazione di un mercato comune telematico pan-europeo delle informazioni sull'ambiente e i consumatori.

A supporto di queste attività, sono previste indagini campione, adeguatamente pubblicizzate, sulla disponibilità di informazioni sull'ambiente nei vari paesi interessati. Sono in programma, inoltre, attività di studio per l'esame delle legislazioni nazionali e l'elaborazione delle proposte di legge; e un seminario internazionale, con la partecipazione di parlamentari, enti scientifici, imprese e ONG, per l'individuazione di modalità concrete di promozione della rete telematica.

DROGA

SINTESI: Di tutte le campagne politiche del Partito radicale sulle grandi scelte delle nostre società, per l'affermazione del diritto dei cittadini e contro la concezione di uno Stato "etico" che si erga e difensore e protettore di una pretesa "morale" e di un preteso "bene comune", la più peculiare è forse quella contro l'attuale regime proibizionista delle droghe.

La nostra analisi è chiara: la droga "vietata" è in realtà, oggi, in vendita libera nelle nostre società; la "guerra alla droga", la politica proibizionista ha fallito il suo obiettivo, come già fallì il proibizionismo sull'alcool negli anni '20 e quello inglese sul gin nella prima metà del XIX secolo. Su questa politica hanno lucrato e lucrano cartelli criminali e mafie che sfruttano l'attività più lucrativa che vi sia oggi nel mondo.

Di fronte a questa situazione, il partito radicale oggi transnazionale può, e deve, fare della battaglia per la revisione dell'attuale regime una delle sue priorità immediate. Per far questo occorre attaccare gli strumenti giuridico-istituzionali che determinano la scelta proibizionista: la Convenzione di Vienna sugli stupefacenti del 1961 (modificata nel 1972), la Convenzione del 1971 sulle sostanze psicotrope, la Convenzione sul commercio delle droghe del 1988. Occorre promuovere una nuova, grande Conferenza ONU, che esaminile nuove politiche possibili. Due sono le ipotesi di lavoro, parallele, possibili. La prima è una campagna per "denunciare", ai sensi rispettivamente dell'art. 46 e dell'art.30, le Convenzioni attuali. La seconda è una proposta di emendamento alle Convenzioni che i governi potrebbero avanzare per aprire una procedura di revisione che porti ad un nuovo negoziato ONU. Le due strategie non sono alternative, ma complementari.

Occorrerà comunque prestare nel contempo la massima attenzione alle strategie di "riduzione del danno" che si fanno strada (si veda la Dichiarazione politica della Conferenza Straordinaria dei Ministri del Gruppo Pompidou in seno al Consiglio d'Europa, la Dichiarazione finale della Conferenza Ministeriale Pan-Europea sulla droga di Oslo), ecc.) e che vanno incoraggiate, tenendo presente anche, in questo quadro, i riflessi sulla lotta contro l'AIDS: la depenalizzazione dell'uso, o del commercio della cannabis e derivati, alla distribuzione controllata di sostanze di sostituzione (ma anche di droghe, secondo modelli già in atto), alla distribuzione di siringhe, ecc...

L'opportunità e la necessità di modificare i trattati sopra ricordati vengono messi in risalto anche dai risultati conseguiti attraverso il recente referendum svoltosi in Italia, che, abrogando le sanzioni penali relative all'uso degli stupefacenti ma comportando anche la eliminazione della qualifica di "illecito" attribuibile all'uso personale di droga, ha creato una sostanziale incompatibilità con le norme della Convenzione di Vienna.

Per conseguire la modifica della Convenzione del 1988 si potrà percorrere sia la via dell'emendamento che quella della denuncia. Per quanto riguarda le altre due convenzioni una azione di denuncia promossa da alcuni Stati, a seguito di una azione concertata a livello di vari Stati, potrebbe far crollare il sistema convenzionale attuale, a partire da una vigorosa richiesta di emendamenti in senso antiproibizionistico.

La politica antiproibizionista

Di tutte le campagne politiche del Partito Radicale sulle grandi scelte delle nostre società, per l'affermazione del diritto dei cittadini e contro la concezione di uno Stato "etico" che si erga a difensore e protettore di una pretesa "morale" generale, la più peculiare è forse quella contro l'attuale regime proibizionista delle droghe.

La nostra analisi, espressa per la prima volta in una mozione congressuale già nel 1972, è semplice: la droga vietata è in realtà, oggi, in vendita libera nei nostri paesi, nelle nostre società; la "guerra alla droga", la politica proibizionista imposta a livello internazionale da poco più di trent'anni ha completamente fallito il suo obiettivo, come già fallì il proibizionismo americano sull'alcool negli anni '2O o quello inglese sul gin nella prima metà del XIX secolo; i profitti enormi garantiti ai grandi cartelli criminali che detengono il monopolio del commercio delle droghe hanno fatto prosperare le mafie di vari paesi appaltando loro l'attività più lucrativa che vi sia oggi nel mondo. A fronte di questo, i costi sociali ed economici della politica proibizionista sono devastanti: le prigioni di tutto il mondo sono colme di persone incarcerate per uso o spaccio di droga o per crimini commessi per procurarsela senza che a questo corrisponda il minimo decremento del fenomeno. Allo stesso tempo, non si può

non constatare che, a fronte di questo straordinario e inutile arsenale repressivo, si muore per droga in numero infinitamente minore che per tabacco o alcol (nei soli Stati Uniti ad esempio per 4.5OO morti per droga all'anno vi sono 8O.OOO morti per alcol e ben 390.OOO morti per tabacco!, mentre non un solo decesso è attribuito dalle fonti federali al consumo dei derivati della cannabis).

Al fallimento delle politiche di repressione va aggiunto quello relativo alla dissuasione della produzione e del commercio clandestino internazionale. Sempre riferendo a fonti del Governo americano, è accertato che solo l'1% dell'intera produzione mondiale è sequestrato, mentre la produzione di droga cresce ogni anno, invece di ridursi.

Agli enormi benefici, ovviamente, corrisponde inoltre un potere sempre più grande per le organizzazioni criminali che prosperano in virtù del regime proibizionista oggi vigente: potere di corruzione ai massimi livelli, potere di infiltrazione, potere indiretto, infine, nel restringimento dei margini di libertà del cittadino.

La "guerra alla Droga" si risolve in realtà nella crescente insicurezza delle nostre città, nell'aumento esponenziale della popolazione carceraria, nell'aumento dei rischi di AIDS e di altre malattie gravi connesse con lo scambio di siringhe.

Di fronte a questa situazione il Partito Radicale può, e deve, fare della battaglia per la revisione totale dell'attuale regime proibizionista sulle droghe una delle sue priorità immediate: occorre da subito trasferire al dibattito politico quello che sinora resta confinato, con alcune significative eccezioni, al dialogo fra esperti, e comunque a confronti settoriali e mai sull'insieme dell'intero fenomeno droga.

Occorre, per far ciò, aver chiaro l'obiettivo di fondo che deve essere quello della legalizzazione di tutte le sostanze psicoattive, con una conseguente riduzione drastica del costo di tali sostanze, della regolamentazione della loro produzione e della loro vendita, della soppressione insomma di qualsiasi interesse economico ad un commercio clandestino delle droghe.

Per far questo occorre attaccare in primo luogo gli strumenti giuridico internazionali che di fatto determinano la scelta proibizionista: La Convenzione di Vienna sugli stupefacenti del 1961,modificata nel 1972 nonché la Convenzione sul commercio di droghe del 1988.

E' di questi due testi che occorre chiedere l'immediata revisione internazionale, promuovendo una campagna per una nuova grande Conferenza dell'ONU sul problema droga col compito di fare il punto sui risultati ottenuti sin qui e esaminare le nuove politiche possibili.

Vi sono a questo proposito due ipotesi di lavoro, parallele. La prima è semplicemente una campagna per "denunciare", ai sensi rispettivamente dell'art.46 e dell'art.3O, le Convenzioni attuali. Se i governi dei nostri paesi denunciassero le Convenzioni dovrebbe necessariamente aprirsi un nuovo negoziato internazionale. Giova ricordare infatti che la Convenzione del 1961 costituisce lo spartiacque fra una politica non repressiva sino ad allora perseguita dalla Comunità Internazionale e semplicemente regolamentata da una serie di Trattati, tutti abrogati appunto nel 1961, e l'attuale scelta proibizionista corroborata dalla Convenzione del 1988. Denunciarle, significherebbe in realtà denunciare il fallimento della politica attuale.

La seconda è una proposta di emendamento alle Convenzioni che parimenti i governi dei nostri paesi potrebbero proporre, in virtù delle Convenzioni stesse, per aprire una procedura di revisione che potrebbe portare anche in questo caso ad un nuovo negoziato in sede ONU.

Le due strategie sono complementari, tanto più che un emendamento alle Convenzioni non potrebbe che sovvertirne la filosofia e quindi qualificarsi in realtà come base di partenza per un nuovo testo internazionale sulla droga.

Una volta indicata la nostra scelta di fondo, credo dobbiamo anche guardare con attenzione alle varie opzioni di "riduzione del danno" che si fanno lentamente strada a che vanno senz'altro sostenute e incoraggiate. Penso alla depenalizzazione dell'uso, ovvero anche del commercio dei derivati della cannabis, alla distribuzione controllata non solo di sostanze di sostituzione ma delle droghe secondo l'esempio di alcune grandi città europee, alla distribuzione di siringhe, ecc..

Azione concertata per la modifica in senso anti-proibizionista dell'attuale sistema degli obblighi (derivanti dalle convenzioni internazionali) in materia di sostanze stupefacenti

1. Il sistema degli accordi internazionali

Nell'ambito delle Nazioni Unite è stato adottato un sistema internazionale di trattati che regolano la produzione e il commercio di droghe.

La Convenzione Unica sugli stupefacenti del 1961 ha consolidato accordi anteriori sugli stupefacenti e ha semplificato i meccanismi internazionali di controllo. Questa Convenzione elenca le sostanze che devono essere oggetto di controllo ed esige che gli Stati membri considerino reato le violazioni deliberate dalle disposizioni della Convenzione concernenti la coltura, la produzione, la fabbricazione, il commercio e la distribuzione degli stupefacenti (articolo 3). Il Protocollo del 1972 alla Convenzione Unica ha aggiornato le sue disposizioni ed ha insistito sulla necessità del trattamento e la riabilitazione dei tossicodipendenti.

La Convenzione del 1971 sulle sostanze psicotrope riguarda il problema dell'abuso delle sostanze non comprese nella Convenzione del 1961. Nel caso di allucinogeni come l'LSD, la Convenzione del 1971 stabilisce un sistema di controllo più severo di quello applicato agli stupefacenti.

La Convenzione del 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope adottata durante la Conferenza organizzata dalle Nazioni Unite alla fine del 1988 è entrata in vigore nel novembre 1990. Mentre gli strumenti internazionali precedenti si basavano sul controllo delle sostanze particolari, la Convenzione del 1988 riguarda soprattutto i guadagni e le tecniche del traffico di droga.

2. Le misure a carattere penale per detenzione e per uso personale di droghe

La Convenzione di Vienna del 1961 consente agli Stati di depenalizzare le sanzioni e di sostituirle con misure di rieducazione e trattamento per i casi più lievi riguardanti la detenzione e l'uso di droghe (articolo 3, par. 3; e articolo 36).

La Convenzione di Vienna del 1988 lascia alla scelta discrezionale delle parti contraenti la possibilità di prevedere per i casi di detenzione non autorizzata di sostanze stupefacenti, misure diverse dalla sanzione penale e di sottomettere le persone a misure di trattamento, di educazione, di cura, di riadattamento e di reintegrazione sociale (articolo 3, par. 4, lettera c).

Tuttavia l'art. 3, n. 2 della Convenzione di Vienna del 1988 (resa esecutiva con legge 5.11.1990, n. 158) afferma che "fatti salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico, ciascuna parte adotta le misure necessarie per attribuire la natura di reato (nel testo originale: "caractère d'infraction pénale"), conformemente alla propria legislazione interna, qualora l'atto sia stato commesso intenzionalmente, alla detenzione ed all'acquisto di stupefacenti e di sostanze psicotrope alla coltivazione di stupefacenti destinati al consumo personale".

3. Le misure alternative al carcere per i tossicodipendenti

Una volta irrogata una sanzione penale a coloro che siano ritenuti colpevoli di detenzione ed uso di sostanze stupefacenti, le Convenzioni internazionali suddette rendono possibili misure alternative

Già nel 1961 la Convenzione Unica sugli stupefacenti prevedeva che le Parti (gli Stati firmatari) prendessero in particolare considerazione le misure da adottare per far curare i tossicodipendenti e garantire il loro riadattamento.

Nel 1988, con la Convenzione contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope, si stabilisce che le Parti adottino appropriate misure per ridurre la domanda illecita di sostanze stupefacenti allo scopo di alleviare le sofferenze umane.

Nel 1990 le Nazioni Unite hanno adottato il Programma di Azione Globale adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 23 febbraio 1990, nel corso della 17· Sessione speciale, dedicata al problema della cooperazione internazionale contro la produzione, l'offerta e la domanda, il traffico e la distribuzione illecita di sostanze stupefacenti e psicotrope.

Tale Programma incoraggia l'O.M.S. a lavorare con i Governi in modo da facilitare l'accesso ai programmi di cura delle tossicodipendenze (punto 34), a sviluppare "politiche per la riduzione del rischio e del danno provocato dall'abuso di droga, con mezzi di prevenzione della trasmissione da parte dei tossicodipendenti del virus dell'immunodeficienza (HIV)" (par. 45).

Nella Dichiarazione Politica del Vertice Mondiale sulla Riduzione della Domanda di Sostanze stupefacenti, tenutosi a Londra nell'aprile 1990 compaiono degli elementi che indicano un'evoluzione a livello internazionale in tema di trattamento dei consumatori di droghe.

Il primo di questi elementi riguarda la "necessità di sviluppare opzioni globali (...omissis) che dovrebbero comprendere programmi per entrare in contatto con gruppi di tossicodipendenti, difficilmente raggiungibili" (cfr. par. 14).

Questo nuovo approccio viene completato nel paragrafo 15 della Dichiarazione Politica, con la affermazione che non essendo sempre possibile conseguire in tempi brevi il distacco dalla droga, "dobbiamo accettare anche degli obiettivi parziali per evitare di nuocere ulteriormente alla salute dei tossicodipendenti".

4 - La politica della "riduzione del danno"

Anche a livello degli impegni presi nell'ambito Europeo si sancisce la necessità di tenere costantemente presente l'urgenza di attivare programmi di riduzione del danno rivolti ai tossicodipendenti.

Nella Dichiarazione politica della Conferenza Straordinaria dei Ministri del Gruppo Pompidou in seno al Consiglio d'Europa (Londra 18-19 maggio 1989) si riconosce:

a) la massima priorità alle misure volte a far affluire un numero sempre maggiore di tossicodipendenti ai servizi socio-sanitari;

b) la necessità di introdurre "misure volte ad aiutare i tossicodipendenti a rischio che non sono immediatamente disposti (o non possono) astenersi dall'uso per via endovenosa di droghe e ciò per ridurre il rischio di acquisizione dell'infezione da HIV". I Ministri ritengono che tali misure, se opportunamente applicate, non siano in conflitto con l'obiettivo di una totale emancipazione dei tossicodipendenti dalla dipendenza.

Così anche la Dichiarazione Finale della Conferenza Ministeriale Pan-Europea sulla droga tenutasi a Oslo, sottolinea (punto XIX) che i programmi offerti dai Servizi per i tossicodipendenti possono comprendere un approccio mirante a "limitare gli effetti nocivi dell'abuso di droga".

Nell'ambito delle Comunità Europee le Risoluzioni del Consiglio e dei Ministri della Sanità del 16 maggio 1989 sulla prevenzione dell'AIDS tra i tossicodipendenti per via parenterale, nelle quali si riconosce la necessità di considerare nella formulazione delle strategie, "oltre l'obiettivo finale dell'abbandono del consumo di droga anche obiettivi intermedi quali la diminuzione della mortalità e del rischio di infezioni da HIV o altri virus, la diminuzione della emarginazione ecc., il cui raggiungimento dovrà considerarsi di fondamentale importanza".

A tal fine nel paragrafo sui "programmi di trattamento della dipendenza" si sottolinea la necessità di rivalutare le varie opzioni terapeutiche disponibili tenendo conto dell'apparizione e diffusione dell'HIV.

Al riguardo il documento sottolinea "l'opportunità di prendere in considerazione il varo o l'estensione di programmi come il trattamento personalizzato con farmaci sostitutivi che consentano il passaggio a modalità di assunzione che non comportino il rischio di contrarre infezioni".

Un altro paragrafo era dedicato alla messa a disposizione di materiale sicuro per le iniezioni (parag. C, punto III del testo concordato dai rappresentanti dei Ministri della Sanità delle C.E.) e prevedeva diverse opzioni articolate che vanno dalla libera vendita a programmi di scambio di aghi e siringhe.

Per quanto concerne la Risoluzione in tema AIDS del 3 dicembre 1990) gli Stati membri invitano: "a promuovere nei servizi per le tossicodipendenze e nelle comunità residenziali l'accesso agli interventi precoci e, quando appropriate, alle cure per i tossicodipendenti sieropositivi e per i soggetti con sintomi clinici di infezioni da HIV".

Sempre nell'ambito delle Comunità Europee vale la pena di ricordare il "Piano Europeo di lotta alla droga" del CELAD (Comitato di Lotta alla Droga) il Consiglio Europeo di Roma del 13-14 dicembre 1990, ribadisce la necessità di fissare nell'ambito dell'approccio con i tossicodipendenti, anche obiettivi intermedi rispetto all'obiettivo primario dell'abbandono della droga, tenendo conto soprattutto delle esigenze di ridurre, attraverso opportuni trattamenti, morbilità e mortalità connesse con l'uso parenterale di stupefacenti".

5. La depenalizzazione in Italia come risultato del Referendum del 18 aprile 1993

L'esperienza ed i risultati del referendum italiano su alcuni aspetti del sistema di sanzioni per l'uso di stupefacenti rappresenta un'acquisizione recente della tendenza a modificare il sistema repressivo originato dalla Convenzione del 1988.

A seguito del referendum popolare promosso dal Pr, tenutosi di recente in Italia, sono state abrogate le sanzioni penali relative all'uso di sostanze stupefacenti. Restano sottoposti solo a sanzioni amministrative l'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope nel caso di rifiuto a svolgere o di interruzione dei programmi terapeutici e socio-riabilitativi.

La Corte Costituzionale italiana nel valutare l'ammissibilità del quesito referendario aveva escluso qualsiasi contrasto con la Convenzione di New York del 1961 e con la Convenzione di Vienna del 1988.

Invece il risultato del referendum italiano ha comportato la eliminazione della qualifica stessa di "illecito" attribuibile all'uso personale di droga. Sembrerebbe pertanto che la nuova norma con la quale viene data attuazione ai risultati del referendum (DPR 5 giugno 1993, n. 171, Gazzetta Ufficiale n. 130 del 5 giugno 1993) crei una sostanziale incompatibilità tra le norme della Convenzione di Vienna e la situazione dell'ordinamento italiano che ai sensi dell'obbligo pacta sunt servanda deve "aderire" all'impegno internazionale, a pena di responsabilità internazionale dello Stato italiano.

Così anche la Convenzione di Vienna del 1971 (resa esecutiva con legge 25.6.1981, n. 385) all'art. 22 non appare conforme ai risultati del referendum che ha imposto che l'uso personale non può più essere considerato "infrazione punibile", tantomeno con "pena detentiva o altra pena di privazione della libertà".

6. La procedura di denuncia ed emendamento degli accordi internazionali

Opportuna appare pertanto la necessità di attivarsi per la modifica dei suddetti trattati secondo le procedure previste allo scopo da ciascun sistema convenzionale.

La Convenzione del 1988 prevede sia la possibilità di emendamento che di denuncia. Tenuto conto della lunghezza del processo volto ad emendare le norme, si potrebbe iniziare con la richiesta di una denuncia dell'intera Convenzione (art. 30) che prenderebbe effetto ad un anno dalla data di ricezione al Segretario Generale.

Per quanto riguarda le altre due convenzioni un numero qualificato di denunce comporterebbe la decadenza delle convenzioni nella loro interezza e nei confronti di tutte le parti contraenti (art. 46 della Convenzione del 1971). Pertanto un'azione di denuncia da parte di alcuni Stati potrebbe far crollare il sistema attuale convenzionale a seguito di un'azione concertata a livello di vari Stati che comporti una modifica del sistema di lotta alla droga in senso anti-proibizionistico.

Secondo le procedure di emendamento delle Convenzioni del 1961 e 1971, ogni parte può proporre un emendamento alla Convenzione. Il Consiglio Economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) - che é l'organo di gestione delle convenzioni - può direttamente ritenere utile la convocazione di una Conferenza di revisione o chiedere preventivamente se le parti accettano un emendamento presentato da uno Stato. In base alle considerazioni negative di uno Stato, il Consiglio può decidere di convocare una Conferenza di revisione. Solo se nessuna obiezione verrà avanzata da alcuno Stato, l'emendamento entrerà in vigore per tutti gli Stati entro 18 mesi dalla sua circolazione. Si tratta evidentemente di un'ipotesi assai circostanziata e che può riguardare solo emendamenti di carattere minore.

La Convenzione del 1988 riproduce la stessa tecnica di emendamento, ma rende in qualche maniera il testo originario "intangibile", poiché gli eventuali emendamenti saranno inclusi in un Protocollo ad hoc che obbligherà solo gli Stati che manifestino il proprio consenso esplicito al riguardo.

Come appare evidente, la procedura di emendamento alle Convenzioni è sottoposta al "filtro" della maggioranza degli Stati-membri dell'ECOSOC. Inoltre, nel caso della Convenzione del 1988, un emendamento può avere effetto nei confronti di tutti gli Stati membri, solo se adottato da una Conferenza di revisione.

La denuncia delle Convenzioni da parte di un certo numero di Stati può rendere dunque più "vulnerabile" il sistema repressivo ivi previsto.

AIDS

SINTESI: La risposta globale alla pandemia dell'AIDS è tuttora inadeguata e poco realistica. Vi è grande controversia sugli interventi e sulla strategia di prevenzione da seguire. Occorre dunque, anzitutto, agire sulla riduzione del danno.

1) difesa dei sieropositivi e con AIDS conclamato, per la difesa dei loro diritti umani e il rifiuto di ogni forma di discriminazione; azione sugli Stati per una sempre migliore informazione e una efficace politica di prevenzione e di controllo e vigilanza sulle misure adottate e le loro conseguenze;

2) favorire l'accesso dei malati ai farmaci, promuovere la distribuzione dei preservativi; favorire l'informazione nelle scuole e sui media; assicurare riserve adeguate di sangue pulito negli ospedali; attuare programmi di scambio di siringhe per i tossicodipendenti; garantire il diritto alla salute e all'informazione in zone come l'Africa e l'Asia; migliorare lo status delle donne e il loro diritto al sesso più sicuro; ridurre lo squilibrio negli investimenti per scoraggiare le emigrazioni di massa.

Obiettivi istituzionali da conseguire:

1) Attuazione e rispetto della Convenzione sui Diritti dell'Infanzia e della Convenzione sull'Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei confronti delle Donne (ONU);

2) Emendamento alla Convenzione delle N.U. contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope (1988).

Una strategia pragmatica

La prima cosa che colpisce quando si parla di AIDS è il tasso di crescita del fenomeno. Più di 13 milioni di persone sono state infettate nel mondo dall'inizio dell'epidemia. Il numero più alto di infezioni rimane l'Africa sub-sahariana con più di otto milioni ma l'aumento maggiore è avvenuto lo scorso anno in America Latina e nel Sud-Est asiatico con 1 milione e mezzo di casi ciascuno. Globalmente circa tre quarti delle infezioni è avvenuta per via sessuale e la trasmissione tra eterosessuali è in crescita. In Europa lo scambio di siringhe infette è responsabile per un terzo dei casi, 50% in più che a metà degli anni 80. La trasmissione madre-figlio stà anche crescendo: circa 1 milione di bambini finora.

Alcuni casi più scottanti: in Thailandia, nei primi del 1990 vi erano 50.000 sieropositivi, mentre alla fine del 1992 sono arrivati a 450.000, quasi dieci volte tanto (l'assunzione di droga per via endovenosa si sta spargendo in Asia e questo fa proliferare la trasmissione tra eterosessuali non tossicodipendenti); solo in Zimbabwe vi sono 600.000 persone infettate; ad Abidjan, in Costa d'Avorio, tra il 10 e il 12% della popolazione adulta è colpita; nell'Europa Orientale la crisi economica, gli improvvisi cambiamenti politici e sociali, gli spostamenti di intere popolazioni, hanno reso molto difficile attuare serie politiche sanitarie e di prevenzione provocando una impennata nelle statistiche.(Dati OMS).

La risposta globale alla pandemia dell'AIDS è tuttora inadeguata e poco realistica, e occuparsi in modo pragmatico del fenomeno, in un periodo in cui istituzioni e media hanno chiaramente diminuito la loro attenzione, può apparire un atteggiamento contro corrente. Considerata questa generale negligenza e irrazionalità, non è sorprendente che vi sia controversia sugli interventi e sulla strategia di prevenzione da effettuare. Si è quindi resa necessaria e urgente l'applicazione di precauzioni e di comportamenti universali nei confronti dell'infezione, anzitutto agendo sulla riduzione del rischio: una siringa pulita in cambio di una sporca, metadone in luogo di eroina da strada, sesso sicuro e non astinenza.

L'AZIONE

- intervenire a difesa delle persone sieropositive e con l'AIDS conclamato: i loro diritti umani devono essere rispettati e nessuna discriminazione deve essere tollerata (i meccanismi di classificazione e di segregazione, come pure tutte le misure coattive, sono immotivati mentre bisogna purtroppo notare che azioni discriminanti avvengono correntemente in alcuni paesi occidentali sul posto di lavoro, nei confronti della popolazione straniera, dei detenuti nei penitenziari). Se da un canto gli ammalati di AIDS e i sieropositivi hanno diritto alla non discriminazione, dall'altro gli Stati hanno il dovere d'informare adeguatamente sulla situazione epidemiologica come pure di mettere a punto un'efficace politica di prevenzione: gli organi statali e sovrannazionali devono costantemente vigilare sulle conseguenze a breve e a lungo termine provocate dalle misure attuate.

- consentire ai malati, ovunque siano, l'accesso ai farmaci attualmente in vigore e a prezzi abbordabili.

- promuovere e distribuire preservativi alle popolazioni (in assenza di mezzi preventivi perfettamente efficaci il preservativo rimane il "mezzo meno pericoloso possibile").

- favorire l'informazione e l'educazione nelle scuole e sui media (in quanto non esistono più solo le categorie a rischio facilmente stigmatizzabili come omosessuali, prostitute, ecc).

- assicurare riserve sicure di sangue pulito negli ospedali.

- attuare programmi di scambio di siringhe per i tossicodipendenti consumatori per via endovenosa.

- garantire il diritto alla salute e il diritto all'informazione (se altrove c'è spazio per un dibattito sul tipo d'intervento da adottare, in Africa e Asia il dibattito è totalmente assente).

- migliorare lo status delle donne. In molte parti del mondo le donne non sono in condizioni di proteggersi dall'infezione in virtù di un mero atto di volontà, non potendo controllare o negoziare un sesso sicuro, ivi incluso l'uso del preservativo.

- ridurre il disequilibrio negli investimenti che finiscono per incoraggiare l'emigrazione di massa e fare tesoro dell'esperienza occidentale assicurandoci che i paesi che attualmente attraversano aggiustamenti strutturali mantengano alta la guardia.

In breve, bisogna cessare di fare ciò che non funziona. Bisogna affrontare la realtà della riduzione del rischio. Bisogna evitare che anche l'AIDS diventi come il cancro, ossia accettata come tragica fatalità, solo perché chi poteva ha perso interesse e chi non poteva non ha avuto scelta.

I COSTI

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato al recente Congresso di Berlino la cifra di circa 2.5 miliardi di dollari l'anno per provocare una inversione di tendenza alla pandemia. Questa spesa (equivalente ad una lattina di coca cola per persona nel mondo) deve essere considerata alla stregua di un investimento i cui ritorni possono essere enormi. In termini puramente finanziari, prevenire l'AIDS significa evitare spese immense: non solo i costi diretti della sanità ma i costi indiretti ben più ingenti, specialmente il reddito non prodotto a causa di morte e di malattia. L'OMS stima che investire 2.5 miliardi di dollari l'anno significherebbe risparmiare circa 90 miliardi in costi diretti ed indiretti entro il 2000.

GLI OBIETTIVI ISTITUZIONALI

Nonostante la natura globale della pandemia, allo stato attuale non esiste giurisprudenza internazionale in merito all'AIDS e questo è emblematico della disomogeneità con cui è stata condotta finora la lotta nei suoi confronti. L'assenza di un quadro di riferimento giuridico e di qualche organismo internazionale dotato di poteri sia dal punto di vista sanitario che sociale, non agevola l'identificazione di un obiettivo istituzionale ma, affrontando l'argomento in modo pragmatico, alcune strade possono essere perseguite:

- attuazione e rispetto della Convenzione sui Diritti dell'Infanzia e della Convenzione sull'Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei confronti delle Donne (ONU).

- emendamento alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope (1988), teso ad introdurre il legame con l'AIDS e il concetto di riduzione del danno sanitario e sociale.

- campagna per conferire all'OMS un mandato speciale, le cui raccomandazioni in tema di AIDS siano rigidamente vincolanti per i Paesi membri.

LINGUA INTERNAZIONALE

SINTESI: Il diritto alla lingua deve essere considerato ormai un "diritto fondamentale, esplicito e autonomo, principale, requisito preliminare per l'esercizio degli altri diritti fondamentali". Tale diritto deve partire dal riconoscimento del principio della dignità e della eguaglianza di tutte le lingue. Oggi, storicamente, non tutte le lingue godono invece di pari dignità ed eguaglianza: alcune lingue sono più importanti delle altre, alcune lingue sono dominanti ed altre sono dominate, alcune hanno carattere internazionale ed altre invece solo locale, ecc.

Gli Stati legiferano, a volte in modo encomiabile, a volte invece in modo criticabile, per ciò che riguarda la salvaguardia di quei principi. Noi dobbiamo rivendicare e promuovere il riconoscimento e la consacrazione giuridica del diritto alla lingua come diritto individuale e collettivo, andando oltre al pur apprezzabile e valido art. 27 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (1976).

Mentre dunque va sviluppata la difesa e la promozione della ricchezza linguistica nel mondo, è però necessaria l'individuazione di una lingua "internazionale" che, ad evitare una dominanza sulle altre, non sia una lingua "storica" ma, per così dire, si presenti "super partes", "neutra".

Una lingua di questo tipo già esiste, ed è l'esperanto.

Il partito radicale ha costituito in Italia un Intergruppo parlamentare sulla lingua e la riforma della politica linguistica. In ambito CEE è stata attivata una Task Force con l'obiettivo di presentare lo studio sull'esperanto deciso dalla Commissione il 26 novembre 1992. Vi sono anche iniziative in ambito UNESCO. Si propone la costituzione di "integruppi federalisti sulla lingua e per la riforma della politica linguistica" nei vari parlamenti e la presentazione di mozioni d'indirizzo.

Il diritto alla lingua

Vogliamo affermare politicamente il diritto alla lingua, che dev'essere considerato »diritto fondamentale esplicito e autonomo, principale, requisito preliminare per l'esercizio degli altri diritti fondamentali .

Il diritto alla lingua si basa su due principi fondamentali, interdipendenti fra di loro: il principio della dignità ed il principio dell'uguaglianza di tutte le lingue.

Purtroppo, per delle ragioni storiche più o meno chiare, non tutte le lingue sono uguali fra di loro. Ci sono delle lingue importanti, delle lingue dominanti e delle lingue dominate, delle lingue più o meno internazionali e delle lingue più o meno locali.

Quando uno Stato legifera in materia linguistica, esso non fa che pianificare legalmente l'uso e l'utilizzazione di una o di parecchie lingue, proteggendo o promuovendo più particolarmente una o alcune lingue più delle altre, nel tentativo di ristabilire un equilibrio culturalmente più equo fra le varie lingue che sono presenti sul suo territorio politico. E lo fa creando dei nuovi diritti e dei nuovi doveri, di natura linguistica. Se lo Stato legifera effettivamente in tale direzione, riconoscendo e consacrando più specificamente il diritto alla lingua, e i suoi due principi fondamentali, esso è senz'altro encomiabile. Se però lo fa per proteggere e promuovere in maniera discriminatoria o gerarchica una o alcune lingue, o, come accade talvolta, addirittura la lingua della maggioranza, esso è tutt'altro che encomiabile.

Pertanto, sono sempre più evidenti la necessità, l'urgenza di riconoscere e consacrare giuridicamente il diritto alla lingua. Questo è un diritto individuale e collettivo, che non dev'essere più considerato diritto fondamentale implicito - derivante, tra l'altro, dal diritto fondamentale esplicito che è la libertà d'espressione - ma come diritto fondamentale esplicito e autonomo, principale, requisito preliminare per l'esercizio degli altri diritti fondamentali.

L'art. 27 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, del 1976, che riconosce e consacra in un certo modo il diritto alla lingua, costituisce un'ottima iniziativa. Ma bisogna andare più lontano.

In realtà, riconoscere e consacrare il diritto alla lingua vuol dire riconoscere e consacrare la »Torre di Babele , che è manifestazione eccezionale delle differenze e dei particolarismi culturali, individuali e collettivi. Il fatto che ci siano migliaia di lingue nazionali e locali crea inevitabilmente il bisogno di una o di alcune lingue internazionali. Ieri, il greco, il latino, il francese, oggi l'inglese, domani, forse, il giapponese o il portoghese - lingue »internazionali - sono delle lingue nazionali o locali che s'impongono in maniera politicamente egemonica sulle altre lingue. E' normale che una lingua nazionale o locale, che è la manifestazione di una cultura particolare, assuma il ruolo di lingua internazionale? Quali saranno le conseguenze sulle altre lingue e culture nazionali e locali? Quali saranno le conseguenze sulla stessa lingua e sulla stessa cultura diventate internazionali?

Per evitare le conseguenze, che sono spesso negative, non solo nel campo linguistico, in quanto qualsiasi manifestazione di egemonia è senz'altro pericolosa, una soluzione esiste, e si chiama esperanto.

L'esperanto, lingua in un certo senso artificiale, è naturalmente una lingua internazionale, e quindi non interferisce con le altre lingue che sono naturalmente non internazionali e artificialmente internazionali. Da questo punto di vista è una lingua »neutra .

Se si crede veramente al diritto alla lingua in quanto diritto fondamentale per eccellenza, se si crede ai suoi due principi, alla dignità ed all'uguaglianza di tutte le lingue, ci sembra venuto il momento di incoraggiare la diffusione dell'esperanto come lingua internazionale, senza però interferire oltre misura sulla diversa vitalità delle differenti lingue nazionali e locali. Infatti, il modo migliore, e più intelligente, di lottare contro una nuova calamità che si preannuncia feroce, »la guerra delle lingue , è appunto di riconoscere e di consacrare effettivamente il diritto alla lingua e l'importanza di una lingua internazionale neutra.

In Italia l'attività di alcuni deputati radicali ha portato alla Costituzione dell'Intergruppo Federalista sulla lingua e per la riforma della politica linguistica e recentemente il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito una Commissione Ministeriale sulla Lingua Internazionale quale strumento di Orientamento linguistico e di Comunicazione Trasnazionale

In ambito Cee la Task Force della Commissione delle Comunità Europee è stata attivata dal Presidente della Commissione Cultura del parlamento Europeo, on Antonio La Pergola, affinché in tempi brevi presenti lo studio sull'esperanto deciso dalla Commissione il 26 novembre 1992.

In ambito Onu giova ricordare che l'Unesco si è già pronunciata con due risoluzioni (1954- e 1985) a favore dell'esperanto, risoluzioni ad oggi disattese pressoché da tutti gli stati membri dell'Organizzazione.

Iniziative possibili:

a) Costituzione di "Intergruppi Federalisti sulla Lingua e per la riforma della politica linguistica" nei vari parlamenti

Mozioni o altro strumento di indirizzo nei diversi parlamenti affinché i rispettivi governi o Ministeri dell'Istruzione

a) diano piena esecuzione alle risoluzioni dell'UNESCO

b) istituiscano - in analogia con quella italiana - una Commissione di studio sulle qualità glottodidattiche e di comunicazione della Lingua Internazionale.

Contemporaneamente, in collaborazione con gruppi esperantisti, si possono organizzare iniziative militanti in contemporanea in diverse capitali per richiamare l'attenzione su queste due risoluzioni, in occasione ad esempio della data di emanazione dell'ultima di queste due : 8 novembre 1993

Studio di fattibilità per il lancio di un appello-manifesto "per la democrazia linguistica in Europa e nel mondo" di parlamentari e uomini di governo, Premi Nobel, personalità del mondo della cultura e dell'arte rivolto ai presidenti delle principali istituzioni internazionali: Consiglio dei Ministri, Commissione delle Comunità Europee, Parlamento Europeo, Consiglio d'Europa , CSCE...

Le scelte

Come si diceva all'inizio, sulla base di questo "panorama" di iniziative possibile è necessario operare delle scelte. E' il compito più difficile e probabilmente più controverso.

Ma su questa capacità si giocherà la credibilità del partito, la sua riconoscibilità come organizzazione che diversamente dalle tante e benemerite ONGI ha come sua ragione sociale non solo l'agitazione dei problemi e la definizione teorica delle soluzioni ma il raggiungimento di obiettivi precisi, la creazione di nuovo diritto positivo attraverso l'adozione di "leggi" internazionali che siano sempre più vincolanti per tutti, attraverso la riforma democratica delle istituzioni nazionali, attraverso campagne politiche, parlamentari, nonviolente.

Quale strumento per queste battaglie

Ma per far tutto ciò il primo problema è quello di dotarci di uno strumento politico - il Partito radicale - adeguato ed attrezzato per questo compito. La nostra priorità resta quella della costruzione di un partito con una composizione "geografica" non squilibrata come l'attuale che vede una sostanziale assenza, a parte l'Italia, di iscritti dei paesi altamente industrializzati. E' infatti illusorio pensare di poter incidere sui problemi della politica internazionale senza avere la capacità di creare nuclei, seppur minimi, di forte pressione all'interno dei paesi che tanto peso hanno sulle scelte mondiali.

E' necessario quindi aggiungere un altro criterio per la definizione delle iniziative su cui impegnare il Pr: la possibilità di svilupparle anche nei paesi più industrializzati.

Un'altra esigenza che balza immediatamente agli occhi analizzando le proposte d'iniziativa qui delineate è quella relativa al collegamento operativo ed informativo fra i parlamentari iscritti al Pr, i membri del Consiglio Generale e i militanti più attivi.

Tutte le proposte prevedono infatti campagne articolate nei diversi paesi e parlamenti con la necessità di una reciproca e costante informazione sui risultati ottenuti e sulle successive scadenze ed obiettivi. Poiché non è evidentemente possibile prevedere molte riunioni dei due organi principali del partito (ogni riunione costa $ 400.000), è assolutamente urgente mettere in piedi una rete di comunicazione agile ma efficiente che consenta questo scambio d'informazioni in tempi accettabili. Diversamente tutto il lavoro che abbiamo impostato in questi giorni verrebbe vanificato.

Tre sono gli strumenti di comunicazione d'informazione che abbiamo identificato e che potranno essere meglio analizzati nel corso dei nostri lavori: una agenzia quindicinale o settimanale rivolta ai deputati iscritti al Pr, ai quadri militanti e agli altri deputati interessati alle nostre iniziative; il sistema telematico "Agorà" e naturalmente il giornale "il partito nuovo".

Questo significa che ciascuno deve fare ogni sforzo possibile per attrezzarsi, anche tecnicamente, per divenire "nodo" di questa rete che, anche se è basata su tecnologie abbastanza sofisticate, può essere utilizzata con un impegno molto modesto di risorse.

 
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