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Archivio Partito radicale
Bonino Emma, Dupuis Olivier, Dell'Alba Gianfranco - 7 aprile 1995
RELAZIONE CONGRESSUALE
di Emma Bonino

37· Congresso del Partito radicale

Roma, 7/9 aprile 1995

Relazione Congressuale

(14 gennaio 1995)

I parte

- Introduzione

- Le battaglie

- Il Partito nel mondo

- Appendici

- Note

II parte

Riforma del Trattato di Maastricht, nuovo assetto europeo:

quali sfide per il Partito radicale

estensori: Olivier Dupuis, Gianfranco Dell'Alba

III PARTE

SOMMARIO: La relazione di Emma Bonino al 37^ Congresso del Partito radicale è divisa in tre parti, precedute da una breve introduzione storica che tratteggia le vicende del partito a partire dal Congresso di Budapest (aprile 1989).

Parte prima (la più ampia) : "A. Le battaglie, gli obiettivi della Mozione di Sofia" e "B. Il Partito nel mondo".

A. LE BATTAGLIE, GLI OBIETTIVI DELLA MOZIONE DI SOFIA.

1- Tribunale internazionale sui crimini di guerra commessi nella ex Jugoslavia; 2- Corte penale internazionale permanente; 3- Campagna per la revisione delle Convenzioni ONU sulle droghe; 4- Campagna per l'abolizione della pena di morte; 5- Campagna per la lingua internazionale; 6- Campagna contro le pandemie e l'AIDS; 7- Campagna per l'alta autorità del Danubio (per ciascuno dei temi viene fornita una cronaca dettagliata delle iniziative assunte dal partito, si fa il punto della situazione e si indicano le possibili prospettive).

B. IL PARTITO NEL MONDO. LA SITUAZIONE DEL PARTITO NEI VARI PAESI. Quadro complessivo della diffusione del Partito transnazionale, rapporti con i mass-media locali e flusso degli iscritti nei due anni considerati; segue una analisi dettagliata della situazione Paese per Paese: Centro Europa (Albania, Austria, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Rep. Ceca, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovenia, Slovacchia, Turchia, Ungheria, Vojvodina); Europa Orientale (Bielorussia, Moldavia); Russia; Ucraina; Paesi Baltici (Estonia, Lettonia, Lituania); Paesi Caucasici (Armenia, Azerbaigian, Georgia); Paesi Euroasiatici (Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan); Paesi dell'UE, New York, l'ONU, gli Stati Uniti. Si danno anche informazioni sullo stato di alcune campagne (Save Tibet, ecc.).

Completano questa prima parte 3 Appendici e Note.

Parte seconda: "Riforma del Trattato di Maastricht, Nuovo assetto europeo: quali sfide per il Partito radicale". (Estensori Olivier Dupuis e Gianfranco Dell'Alba).

Si divide in paragrafi: Allargamento dell'Unione e adesione immediata della Bosnia; Corte Costituzionale europea; Unicità delle procedure decisionali e delle istituzioni; Un presidente per l'Europa; Uniformizzazione del sistema di elezione del PE; Democrazia linguistica; Come arrivare al 1996?

Parte terza. E' la parte effettivamente letta all'inizio del Congresso da Luca Frassineti, coordinatore del partito dal 15 gennaio. Fornisce le prime indicazioni politiche sui possibili risultati congressuali, anticipando e raccomandando la soluzione di "commissariamento" straordinario, giustificata dalle difficoltà economiche e gestionali. Sollecita il coinvolgimento di nuove energie, sopratutto di parlamentari non italiani, così da avviare la formazione di una nuova, più ampia, classe dirigente del partito. Offre poi al Congresso alcune indicazioni sulla problematica europea, ammonendo sulla sua importanza, sia per il partito che in linea generale. Infine dedica uno spazio di attenzione alle prospettive di sviluppo del partito negli Stati Uniti.

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I^ parte

Introduzione

Il Partito radicale transnazionale e transpartito si è formato e sviluppato per tentativi e sperimentazioni, che hanno riguardato il disegno e le forme organizzative - compreso lo statuto - come anche i contenuti e i tempi della sua iniziativa politica. Ogni passo è stato difficile, in assenza di precedenti (se si toglie l'esperienza, troppo lontana nel tempo e troppo diversa, della I^ Internazionale, o quelle delle Organizzazioni Internazionali Nongovernative, imparagonabili anche quando egregiamente funzionanti nel loro specifico ambito).

Voleva, questo Partito radicale, costituirsi come la prima internazionale "ad iscrizione diretta, aperta a tutti i cittadini del mondo". Voleva essere, insomma, un soggetto politico di concezione assolutamente nuova, inedita ai nostri tempi. Si trattava, e ancora è in gran parte, di un'indicazione progettuale, quindi realizzabile solo in quanto tradotta in programmi e obiettivi, in metodi e strumenti di lavoro, oltreché, ovviamente, in iniziativa politica.

Il Congresso di Budapest, dell'aprile 1989, indicò come specifici interlocutori del costituendo partito "le classi dirigenti e i loro esponenti più liberi e responsabili". All'indicazione si affiancò una proposta di metodo: far sì che "allo stesso giorno, alla stessa ora, nella stessa forma e con gli stessi contenuti, analoghi testi legislativi siano presentati nel maggior numero di Parlamenti"; con metodo nutrito se necessario, e ovunque possibile, di iniziative nonviolente gandhiane, singole e di massa. A partire dal '90-'91, vennero anche messi a punto alcuni strumenti operativi (una comunicazione scritta destinata innanzitutto ai parlamentari e alle classi dirigenti, e il tentativo di insediare in alcuni paesi, soprattutto del Centro e dell'Est europeo, nuclei embrionali del partito).

Non era semplice - è bene ricordarlo - trasformare un partito che aveva avuto certo, fin dalla prima rifondazione e ricostituzione del 1964, "anche" una vocazione transnazionale e transpartitica, in un partito esclusivamente volto a dare concretezza politica a questa proclamata nuova dimensione; un partito tra l'altro - e non fu il nodo più semplice da sciogliere, rispetto a dubbi e resistenze manifestatesi anche al suo interno - che si dichiarava non più concorrente coi partiti nazionali sul loro terreno, anche elettorale.

Tra difficoltà e incertezze, moltiplicate dalla assoluta inadeguatezza di mezzi e risorse rispetto al disegno, si giunse, al 35· Congresso di Budapest (1989), a sospendere lo statuto e gli organi ordinari, e ad affidare la gestione e l'assetto del partito ad un "quadrumvirato" composto dai quattro massimi organi statutari (presidente del Consiglio federale, presidente del partito, segretario e tesoriere); una gestione contrassegnata anche dall'interrompersi, per la prima volta nella storia del partito, della convocazione annuale del Congresso. Tale situazione di eccezionalità (commisurata anche su una ipotesi alternativa, di vera e propria, definitiva, chiusura, vista come possibile sbocco necessitato dalla situazione economica e finanziaria) si protrasse per quasi quattro anni, fino alla seconda sessione del 36· Congresso, tenutasi a Roma nel febbraio 1993.

Due anni (aprile 1989- maggio 1991) occorsero perché il partito rivedesse gli assetti strutturali e organizzativi, tamponasse almeno in parte e momentaneamente il deficit e si assicurasse un minimo di risorse, umane oltreché economico-finanziarie.

A metà del 1991 usciva il primo numero de "Il Partito Nuovo", giornale "transnazionale" in quindici lingue, inviato alle classi dirigenti e ai parlamentari di oltre cento paesi e ad una rete di militanti operante nelle sedi aperte in città del Centro e dell'Est Europa. A primavera del 1992, venne convocato - a tre anni dal precedente - il 36· Congresso, in una situazione che vedeva gli iscritti non italiani superare i 7.500, mentre oltre 200 erano gli iscritti parlamentari e di governo, provenienti da 40 paesi. Gli iscritti italiani erano solo 2.500, sebbene l'Italia dovesse essere considerata, per ovvie ragioni, il solo "serbatoio" dal quale potessero venire risorse finanziarie e (almeno in quel momento) militanti. Fin dalle prime battute del Congresso (Roma, 30 aprile/3 maggio '92) ci si rese conto che, proprio in ragione dell'esiguità del numero degli iscritti italiani, la situazione economico/finanziaria restava precaria e comunque inadeguata. Si aggiunse la consapevolezza della necessità di pensare a nu

ove regole statutarie e di eleggere organi dirigenti che rispecchiassero il carattere "transnazionale". Il Congresso venne aggiornato ad una seconda Sessione, che si tenne, ancora a Roma, nel febbraio 1993. I nove mesi furono impiegati per l'elaborazione del nuovo Statuto, avvalendosi anche dei contributi provenienti dai dibattiti svoltisi in assemblee tenutesi in paesi del Centro e dell'Est europeo (in particolare, a Mosca e a Kiev), dall'altro per individuare quella che venne chiamata la "condizione tecnica" minima e indispensabile per fare vivere il partito. Il Congresso individuo', tale condizione, assolutamente strordinaria e da molti considerata impossibile, in almeno 30000 iscritti a quota italiana. Era la "condizione tecnica" necessaria, anche se non di per sé sufficiente, a consentire l'avvio, la ripresa dell'attività "politica" del partito. La seconda sessione del Congresso diede avvio al lancio della grande campagna iscrizioni. Il dibattito confermò anche l'esattezza e l'attualità delle analisi, r

ispetto alle crisi che investivano da tempo tutte le regioni del mondo, e fece ancor più risaltare l'importanza e l'urgenza di dar vita a un soggetto politico capace, perché transnazionale e transpartitico, di produrre iniziative e di influire, con l'arma della nonviolenza gandhiana, su aspetti importanti di quelle crisi (che erano crisi del diritto e dei diritti), investendovi le proprie risorse, umane e finanziarie, senza residui.

In due settimane, anche grazie a fortuite coincidenze di aspettative dell'opinione pubblica nei confronti delle iniziative di Marco Pannella in Italia, si materializzò quello che venne detto il "miracolo italiano": 38.000 cittadini versarono la loro quota d'iscrizione, per un importo pari a 13 miliardi e 800 milioni di lire (pari a $ 9.200.000). Si ripianava il deficit di bilancio col quale si era aperto il Congresso (circa 5 miliardi), e potevano essere apprestate condizioni per il rilancio dell'iniziativa politica.

Nel luglio 1993, al Consiglio Generale convocato a Sofia, fu così possibile insediare e far ratificare i nuovi organi, eletti dal Congresso ma "sospesi" e subordinati alla realizzazione della "condizione tecnica". Il Consiglio Generale (cui seguiva la prima Assemblea dei Parlamentari iscritti) apportava però un certo riaggiustamento degli obiettivi. La mozione conclusiva individuava ora nelle Nazioni Unite l'interlocutore privilegiato per il Partito Radicale che si costituiva: "Perché il messaggio del Segretario generale dell'Onu, le dichiarazioni del Consiglio di Sicurezza, l'Agenda 21 e tutti gli altri documenti di indirizzo deliberati a livello sovranazionale divengano obiettivi politici da perseguire e realizzare occorre subito, con determinazione, dar vita ad iniziative capaci di coinvolgere e mobilitare persone e popoli". Come motore di tali iniziative, è necessario "un soggetto, una forza politica che operi senza esitazioni ed incertezze sul piano transnazionale".

Vennero scelte alcune campagne, ritenute prioritarie della nuova fase, in quanto avrebbero potuto raccogliere "vaste ed importanti adesioni a livello anche popolare e fare avviare forti iniziative e lotte politiche nonviolente gandhiane". Tutte avevano come interlocutore, ripetiamo, le Nazioni Unite: e in realtà, al di là degli obiettivi specifici (Tribunale, moratoria, revisione delle Convenzioni sulle droghe,ecc.) già si intravvedeva l'obiettivo più grande e ambizioso: l'avvio della riforma del sistema delle Nazioni Unite, la creazione di un nuovo diritto sovra- e trans-nazionale, in grado di regolamentare e guidare i rapporti tra persone e popoli.

Sugli obiettivi "intermedi" fissati a Sofia - fossero dunque sperimentazioni o, se si vuole, "simulazioni" - il partito, grazie anche all'apporto fornito in special modo da un soggetto politico nazionale operante in Italia - la "Lista Pannella-Riformatori" - conseguiva alcuni successi che posso ben dire eccezionali: la Risoluzione con la quale l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha posto le basi per la creazione della Corte Penale Internazionale per i crimini contro l'umanità (che segue e rafforza il successo precedente conseguito con la creazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del Tribunale ad hoc sui crimini commessi sulla ex Jugoslavia) e l'aspro scontro apertosi per la prima volta in ambito Nazioni Unite sull'abolizione della pena di morte nel mondo sono i maggiori e più visibili, appartenendo ormai non più solo a noi ma a tutti coloro che vorranno farli propri, sostenerli, farli crescere.

Rispetto agli altri obiettivi indicati nella mozione di Sofia il Partito è riuscito a porre comunque importanti basi di elaborazione e di approfondimento (in particolare sull'iniziativa antiproibizionista in materia di droga) suscettibili, a condizione di reperire le risorse umane e finanziarie consone, di ulteriori significativi progressi a livello parlamentare, di Istituzioni europee e internazionali, di opinione pubblica.

E dunque vediamo, in dettaglio, campagna dopo campagna.Le battaglie

A. Gli obiettivi della Mozione di Sofia

1. TRIBUNALE INTERNAZIONALE SUI CRIMINI DI GUERRA E CONTRO L'UMANITA' COMMESSI NEL TERRITORIO DELLA EX JUGOSLAVIA A PARTIRE DAL PRIMO GENNAIO 1991

Le risoluzioni n. 808 del 22 febbraio 1993 e n. 827 del 25 maggio 1993 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite davano l'avvio formale al progetto di istituire un Tribunale "ad hoc" per i crimini commessi nel territorio dell'ex Jugoslavia. La sua realizzazione si arenò però ben presto tra incertezze, contrasti e tentativi di diversione se non di affossamento. Nel maggio del 1993 consegnammo a Ibrahima Fall, Segretario Generale della Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani in svolgimento a Vienna, oltre 50.000 firme raccolte in circa 40 paesi su un appello per l'immediata costituzione, non più solo formale, del Tribunale (le nostre prime prese di posizione perché le Nazioni Unite istituissero quello che definivamo "il primo segmento di giurisdizione internazionale" risalgono peraltro al 1992).

In molti Parlamenti, in particolare in Croazia, Macedonia, Bulgaria, Romania e Italia, al Parlamento europeo vennero presentati, grazie alla nostra presenza, documenti di sollecitazione in tal senso.

La mozione approvata a Sofia dal Consiglio Generale, nel luglio del 1993, invitava al punto uno il Partito radicale a ottenere "il rispetto degli impegni e delle scadenze per la costituzione, con le modalità e nelle forme stabilite dalle Nazioni Unite, del Tribunale Internazionale per i crimini commessi nell'ex Jugoslavia, con particolare attenzione ai crimini connessi alla 'pulizia etnica' ed al genocidio in atto". A tale data, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite non aveva ancora provveduto alla nomina degli undici giudici e dello stesso Procuratore Generale, il titolare dell'accusa. Promuovemmo iniziative in ogni sede, e in molti Parlamenti, perché il Segretario Generale e l'Assemblea Generale assicurassero questi adempimenti e il nuovo organo giurisdizionale fosse messo nelle condizioni di operare.

Nel settembre, finalmente, gli undici giudici vennero eletti dall'Assemblea Generale, mentre il pubblico ministero, il venezuelano Ramon Escovar Salom, fu nominato dal Consiglio di Sicurezza alla fine di ottobre.

Nel novembre del 1993, a New York, guidando una delegazione composta, tra gli altri, da parlamentari croati, bosniaci e montenegrini, dal presidente di Parliamentarians for Global Action Mona Makram Ebeid, dal presidente dell'Open Society Fund Arieh Neier, dall'ex presidente di Amnesty International per gli USA Vincent Mc Gee, incontravo il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, e gli consegnavo le 25.000 firme raccolte in tutto il mondo su un secondo appello per la costituzione del Tribunale. Il Segretario Generale ci comunicò la sua decisione di insediare ufficialmente il Tribunale il 17 novembre all'Aja. Un altro passo avanti era stato compiuto.

Alla vigilia di quella data organizzammo conferenze stampa in 13 paesi (Albania, Burkina Faso, Croazia, Francia, Gran Bretagna, Italia, Romania, Russia, Spagna, Turchia, Ucraina, Ungheria, Vojvodina) e presso il Parlamento europeo, con i promotori e i firmatari degli appelli. Sapevamo che molti erano ancora i problemi aperti, e che di questi ci si sarebbe fatto un alibi per contrastare fino all'ultimo l'entrata in funzione del Tribunale. Uno, e di difficilissima soluzione, era quello finanziario: per lo staff del Procuratore Generale (373 persone), per gli undici giudici, per la sede, per la protezione dei testimoni, per la ricerca di prove, per le indagini, per le spese relative alla detenzione degli imputati prima, durante e dopo il processo - insomma per garantire il funzionamento dell'organismo - occorreva prevedere un budget di 35 milioni di dollari: per coprirlo in maniera stabile e continua occorreva che fosse inserito nel bilancio ordinario delle Nazioni Unite, cosa su cui molti Paesi non erano affat

to d'accordo.

Ci muovemmo in parecchie direzioni: e così nel febbraio 1994 la Camera dei Deputati italiana approvò un emendamento, presentato da me e da altri deputati, al decreto-legge con le disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale: l'emendamento stabiliva che lo Stato italiano dovesse contribuire con 3 miliardi di lire al funzionamento del Tribunale per il 1994. Sempre in febbraio, promossi un appello, "Non c'è pace senza giustizia", per una campagna internazionale nonviolenta di sollecitazione sulle Nazioni Unite: mi rivolgevo "a tutte le coscienze libere perché - nel rispetto di ciascuna convinzione, religione, impegno civile e politico - con la loro adesione premessero per ottenere l'operatività del Tribunale ad hoc." L'appello chiedeva che la Va Commissione dell'Assemblea Generale dell'ONU approvasse il bilancio preventivo del Tribunale ad hoc inserendolo come parte integrante del bilancio ordinario delle Nazioni Unite; e che il Consiglio di Sicurezza nominasse immediatamente il nuovo

Pubblico Ministero, dopo le dimissioni del venezuelano Escovar Salom.

Ai primi di marzo il Presidente del Consiglio Generale del Partito radicale iniziava un'azione nonviolenta di digiuno, che sarebbe durata oltre un mese, rivolta ad ottenere dalla Va Commissione dell'Assemblea delle Nazioni Unite una decisione sulla questione del finanziamento. Circa trecento cittadini di 21 paesi, tra i quali 20 parlamentari, si unirono all'iniziativa di Olivier Dupuis. Ci fu mobilitazione, arrivarono adesioni, migliaia di fax e telegrammi vennero spediti a New York. Il presidente della Va Commissione, l'ambasciatore Hadid, ebbe poi modo di rivolgere un caldo ringraziamento al partito per il sostegno dato al Tribunale e alle NU.

Il 6 aprile, la Commissione approvava il bilancio contenente norme che avrebbero consentito di avviare una piena attività del Tribunale. Rimaneva aperta la questione della nomina del Procuratore Generale. Il 7 giugno 1994 l'allora Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, e il leader del "Club Pannella-Riformatori", Marco Pannella, stringevano un accordo politico, e tra i punti dell'intesa vi era esplicito riferimento a questo tema: il Governo italiano si impegnava ad operare "con ogni energia", nelle opportune sedi politico-diplomatiche, per stimolare la nomina. Cogliemmo l'occasione dell'incontro del G7 a Napoli, ai primi di luglio, per sollecitare un accordo, cosicché Boutros-Ghali potesse sottoporre una buona candidatura al Consiglio di Sicurezza, per la ratifica. L'11 luglio, il Consiglio di Sicurezza nominava Richard J. Goldstone, un giudice della Corte Suprema che aveva condotto indagini sulle violenze e le violazioni dei diritti umani in Sud Africa. Antonio Cassese, presidente del Tribuna

le ad hoc, volle in tale occasione ringraziare me e il Partito radicale "per il generoso sostegno e per le tempestive iniziative".

I PROBLEMI APERTI

Il Tribunale ad hoc sulla ex Jugoslavia costituisce il primo segmento di una nuova, e fino a ieri impensabile, giurisdizione internazionale. Su questo organo si sono dette troppe cose sbagliate: in particolare, e al solo scopo di denigrarne il lavoro, lo si è voluto paragonare ai Tribunali di Norimberga e di Tokio, istituiti con atto unilaterale delle potenze vincitrici per punire gli sconfitti della guerra. Il paragone è improprio e fuorviante. Il Tribunale ad hoc per l'ex Jugoslavia è la prima Corte penale genuinamente internazionale della storia contemporanea, creata per decisione di un organo dotato di poteri sovranazionali come è il Consiglio di Sicurezza delle NU, dotata di vera forza coercitiva rispetto alle proprie delibere.

L'aver contribuito alla sua creazione e all'avvio dei suoi lavori non ci mette in pace la coscienza. C'è, fortissimo, il rischio che il nuovo organo giurisdizionale venga fatto, più o meno intenzionalmente, arenare nelle secche dell'impotenza o nell'ordinarietà senza rischi. Dunque, il Partito radicale dovrà impegnarsi come prima, se non più, per vigilare e sostenere questo istituto in ogni modo possibile.

Un necessario obiettivo potrebbe essere una grande campagna di finanziamento. Bisognerà investire l'opinione pubblica internazionale perché il Tribunale - al quale, non dimentichiamolo, saranno demandate anche le competenze perché agisca anche come Tribunale sui crimini commessi in Ruanda secondo il recente voto del Consiglio di Sicurezza - abbia risorse finanziarie adeguate per programmare e svolgere la sua attività nel modo più efficace possibile.

Una seconda iniziativa dovrebbe essere intesa a sviluppare una possibilità che è consentita proprio dallo Statuto del Tribunale: vale a dire attivare la capacità di rappresentanza e di verifica legale delle prove per soggetti terzi. Si potrebbe promuovere, ad es., una campagna di raccolta delle prove nei confronti dei responsabili politici dei genocidi, dei crimini contro l'umanità e delle violazioni dei diritti umani commesse nell'ex Jugoslavia: nei confronti di quegli esponenti di governo o di partito, per dirla chiaramente, che mentre hanno fatto del territorio dell'ex Jugoslavia, da oltre 4 anni, il teatro di efferati crimini, appaiono alla ribalta come protagonisti delle cosiddette "trattative di pace".

Infine, sarebbe assai opportuno rendere visibile agli occhi dell'opinione pubblica internazionale, magari in concomitanza con i primi processi, quel che il Tribunale fa nell'interesse della pace e della giustizia. Una via che ci pare utile sarebbe quella di organizzare, proprio all'Aja, una Conferenza internazionale sull'attività di tale organismo.

2. CORTE PENALE INTERNAZIONALE PERMANENTE SUI CRIMINI CONTRO L'UMANITA'

Ricevuta dal Governo italiano la delega a rappresentarlo presso le NU sulla questione dell'istituzione della Corte Penale Internazionale permanente sui crimini contro l'umanità, intervenni il 23 ottobre scorso nella VIa Commissione dell'Assemblea Generale. Concludevo il mio intervento invitando l'Assemblea a "...decidere in questa sessione - quando ci si appresta alla celebrazione del 50^ anniversario della fondazione dell'ONU - la convocazione per il 1995 della Conferenza istitutiva della Corte, affidando dopo anni e decenni di studi giuridici la soluzione dei problemi rimasti ancora aperti ai Comitati preparatori della Conferenza stessa, ci pare la risposta doverosa e adeguata a tutti coloro, Stati o cittadini, che nel mondo pongono il diritto e la legge a fondamento della convivenza internazionale".

Sull'obiettivo della convocazione della Conferenza avevamo condotto una campagna dal 1993, coinvolgendo parlamentari e cittadini di decine di paesi. Tra maggio e giugno 1994, e poi a partire dal mese di settembre, abbiamo diffuso in molti Parlamenti, soprattutto del Centro e dell'Est europei, oltre che al Parlamento europeo dove i deputati radicali hanno promosso l'adozione di non meno di cinque delibere sull'argomento, due mozioni - sottoscritte da centinaia di sindaci europei, da personalità internazionali e parlamentari di 30 paesi - che chiedevano ai Governi di assumere iniziative istituzionali e diplomatiche perché la 49a Sessione dell'Assemblea Generale "risolvesse le questioni politiche eventualmente ancora aperte al fine di istituire la Corte Penale Internazionale".

Tra le iniziative specifiche, vi fu la Marcia di Pasqua dell'aprile '94, promossa dal Partito radicale e da "Nessuno Tocchi Caino". Suoi obiettivi: moratoria universale delle esecuzioni capitali, creazione immediata della Corte Penale Internazionale. Sindaci europei, decine e decine di parlamentari, migliaia di cittadini, sfidando un vero e proprio nubifragio che si abbattè quel giorno su Roma, parteciparono alla marcia, aperta dall'allora Sindaco di Sarajevo, Muhamed Kresevljakovic, iscritto al Partito.

Nelle settimane successive seguimmo attentamente i lavori dell'International Law Commission che, riunita a Ginevra, doveva redigere la bozza di statuto della Corte. Volevamo assicurarci che fosse chiaramente espressa l'esclusione assoluta della pena di morte e che la bozza fosse trasmessa entro la fine di luglio alla VIa Commissione delle Nazioni Unite: per accertarci dello stato di avanzamento del progetto, incontrammo due volte i membri di questo importante organo, che ha il compito di elaborare i testi in materia di sviluppo e di codificazione del diritto internazionale da sottoporre all'Assemblea.

Abbiamo già ricordato l'accordo stretto in Italia tra l'allora presidente del Consiglio Berlusconi e i Riformatori di Marco Pannella. Nel documento il Governo italiano si impegnava ad operare perché lo Statuto della Corte venisse approvato nel corso dell'imminente 49a Sessione dell'Assemblea Generale e la Conferenza istitutiva venisse subito convocata; si impegnava anche a delegarmi l'incarico di esprimere dinanzi all'Assemblea ONU l'indirizzo del governo italiano sulla questione. Mi fu così possibile, alla fine del settembre scorso, seguire per due mesi i lavori della VIa Commissione (quella giuridica) che appunto a luglio aveva ricevuto dall'International Law Commission la bozza di statuto. Mentre, a New York, potevo farmi forte anche della mobilitazione che eravamo riusciti a creare in numerosi Parlamenti soprattutto del Centro e dell'Est europei, in Italia veniva avviata l'operazione di autofinanziamento "New York New York", che avrebbe consentito tra l'altro la pubblicazione di due pagine sul New York T

imes, a novembre e a dicembre (dopo le due apparse nel settembre). Pagine che puntavano soprattutto a fornire alle 184 missioni presso le Nazioni Unite, oltreché all'opinione pubblica americana, elementi di riflessione sui temi della sospensione delle esecuzioni capitali e della Corte Penale Internazionale, delicati e controversi ma anche scarsamente seguiti e sui quali l'opinione pubblica viene informata male e in modo parziale e distorto.

L'inizio del dibattito in sede di Assemblea Generale - in particolare grazie agli interventi dell'Italia, naturalmente, e dei rappresentanti di Irlanda, Francia, Belgio, Croazia, Olanda e Germania, che parlò anche a nome dell'Unione europea, a seguito in particolare all'adozione, da parte del PE, di un ennesimo documento promosso dal gruppo dell'Alleanza Radicale europea - fu assai positivo. Poi venne, gelida, la presa di posizione del governo americano, che definiva "prematura" l'istituzione della Corte Penale e proponeva il rinvio di un anno per la decisione. Posizioni analoghe assumevano altri Paesi, tra gli altri la Gran Bretagna e il Giappone. Ci confrontavamo, in uno scontro duro e non facilmente mediabile date le questioni di principio oltreché politici e di opportunità in gioco, con una opposizione del livello più alto. Più volte tememmo che la battaglia fosse perduta, e definitivamente. Non c'è dubbio che la risoluzione 49/53 del 9 dicembre 1994, con la quale si avvia il processo di convocazione del

la Conferenza diplomatica per l'approvazione dello Statuto di una Corte criminale internazionale permanente, riflette un arduo compromesso politico tra i fautori della convocazione a breve scadenza (oltre all'Italia, il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, la Federazione Russa, i Paesi nordici ecc.) e i sostenitori (in primo luogo Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone) di un rinvio della convocazione (subordinata anche ad un ulteriore approfondimento del testo redatto dall'International Law Commission) che suonava come un tentativo, neppure troppo nascosto, di definitivo affossamento.

Per noi, per quanto ci riguarda, e avendo presenti le condizioni di partenza, le difficoltà obbiettive del progetto, la terribile opposizione incontrata, l'altezza del dibattito svoltosi - per la prima volta! - in sede di Assemblea Generale, il risultato strappato con l'adozione del documento (avvenuta per "consensus", e cioè con una sottigliezza procedurale che ha consentito di evitare una votazione da cui apparissero chiare, dinanzi all'opinione pubblica, le diverse, e per alcuni, anche imbarazzanti, posizioni) deve invece essere considerato non solo soddisfacente ma estremamente positivo: esso costituisce un punto di partenza tanto insperato quanto ora irrinunciabile, per noi e non solo per noi, di ogni altra iniziativa o campagna a livello mondiale. Perché? Perché per la prima volta forse si è mostrato quanto sia importante e risolutivo uno scontro che avvenga a livello istituzionale e non si limiti, come troppo spesso avviene nelle campagne periodicamente promosse, anche negli USA, alla difesa di questo

o quel caso giudicato drammatico e umanamente efferato, ma senza una visione d'insieme, una progettualità di ampio respiro, sollevata fin sul piano dei princìpi, del diritto alla vita e della vita del diritto.

A poche ore dalla conclusione di questa grande campagna, il 23 novembre, a Roma, nel corso di una cerimonia ufficiale, avevo consegnato a Boutros-Ghali le migliaia di firme raccolte in tutto il mondo per sollecitare l'istituzione della Corte: "E' un fatto rivoluzionario - disse il Segretario Generale, nel ringraziare i promotori dell'iniziativa - il costituirsi di un rapporto diretto tra opinione pubblica internazionale e organizzazione delle Nazioni Unite". Consideriamo questo riconoscimento come uno dei risultati più significativi acquisiti dalla nostra battaglia. Sempre in merito a questo tema, voglio anche segnalare, per i risvolti che essa potrà ancora avere, la risoluzione sulla istituzione della Corte presentata dagli eletti della "Lista Pannella" ed altri partiti e approvata a novembre dal Parlamento europeo.

La mozione approvata dall'Assemblea delle Nazioni Unite è interessante e suscettibile di sviluppi positivi: a) "accoglie con favore" il rapporto della International Law Commission e le sue raccomandazioni (fra le quali la convocazione della Conferenza diplomatica); b) l'esame delle questioni sostanziali ed amministrative sollevate dal progetto di Statuto viene affidato, senza altre dilazioni, al previsto Comitato ad hoc, che dovrà anche fissare le "modalità" di convocazione della Conferenza; c) lo stesso Comitato terrà se necessario, dopo la prima sessione prevista dal 3 al 13 aprile (facendo seguito al deposito del parere sulla bozza di Statuto da parte degli Stati, previsto entro il 15 marzo), un'altra sessione in agosto; d) il paragrafo 6 della Risoluzione prevede l'inclusione, nell'agenda provvisoria della 50a sessione dell'Assemblea Generale, del tema dell'"establishment of an International Criminal Court" e dice che l'Assemblea Generale dovrà prendere una decisione sulla data e sulla durata della Confe

renza diplomatica: sembra esservi insomma, già adesso, spazio per un'ulteriore sessione durante l'Assemblea Generale di autunno 1995, cosa che potrebbe consentire un progresso decisivo verso la convocazione della Conferenza.

E ricordiamo qui, tra l'altro, che la risoluzione contiene un preciso riferimento all'offerta del Governo italiano di ospitare la Conferenza in Italia. Scelta che ci permetterà di meglio seguirne i lavori.

Esistono, insomma, tutti i presupposti perché l'iniziativa faccia quest'anno importanti passi avanti. Molto dipenderà dal lavoro svolto nel Comitato ad hoc: lavoro che si preannuncia particolarmente difficile, e sul quale dovremo vigilare. Per dirvi di quale complessità si presenti il compito ricordo solo - ed è cosa niente affatto marginale - lo scarso entusiasmo mostrato da vari paesi africani ed asiatici per l'istituzione della Corte. Dovremo farci forza del voto positivo espresso da un congruo numero di Governi, ma soprattutto del sostegno crescente dato dall'opinione pubblica mondiale all'idea della creazione di una giurisdizione criminale internazionale permanente.

Alcuni Stati hanno formulato dubbi e riserve sulla "fattibilità" del Tribunale. Hanno invocato la sovranità degli Stati, messo l'accento sulla delicatezza del rapporto tra diritto internazionale e diritto nazionale e sulla esistenza di quel principio "giudicare o estradare" che consente di giudicare il presunto colpevole là dove si trova o è stato catturato o nel Paese dove è più giusto che venga giudicato per il nesso tra il crimine commesso e quell'ordinamento giuridico.

Sulle numerose questioni legate alla creazione del Tribunale sarà importante allargare il consenso al fine di superare obiezioni e difficoltà tecnico-giuridiche: chi sia legittimato ad adire il Tribunale, a quali Stati spetti l'assenso perché il Tribunale abbia competenza su di un crimine ed il suo presunto autore, quale debba essere la legge applicabile, che relazione esisterà tra il Tribunale e il Consiglio di Sicurezza, come converrà definire le procedure relative ad eventuali risarcimenti, ecc. Questi debbono restare problemi da risolvere, non alibi per paralizzare tutto.

Ricordo, per finire, che su iniziativa dei deputati radicali al PE, nel bilancio dell'Ue per il 1995 è stata inserita una voce specifica per il finanziamento, fino ad oltre 5OO milioni di lire, delle organizzazioni non governative che "operano per l'instaurazione di una giustizia penale internazionale" e che "segnatamente intendono contribuire ad organizzare, nel 1995, conferenze internazionali in merito".

LE INIZIATIVE POSSIBILI

La risoluzione del 9 dicembre disegna un percorso che va seguito con estrema attenzione.

La prima data da tenere in considerazione è il 15 marzo prossimo. Entro questa data gli Stati sono tenuti a depositare i loro pareri (Vedi Appendici). Verificheremo a quel momento e potremo diffondere a tutti i livelli le diverse posizioni relativamente alla volontà di istituire la Corte, cosicché quelle eventualmente negative siano sottoposte al vaglio dell'opinione pubblica del paese interessato e di quella internazionale. Sarà importante, a tal fine, l'iniziativa che i parlamentari iscritti al Partito radicale sapranno sviluppare nei rispettivi Parlamenti e nel confronto coi loro Governi.

La seconda scadenza riguarda la prima riunione del Comitato ad hoc, dal 3 al 13 aprile. Potremo chiedere di essere ammessi a questi lavori come osservatori (ci potrà soccorrere lo status di Organizzazione Non Governativa membro dell'ECOSOC, che speriamo ci venga riconosciuto). Sarà molto importante che ai lavori del Comitato partecipi il maggior numero di Paesi e dunque occorrerà mobilitarci fin d'ora per far sì che questo accada: una via efficace potrà essere la raccolta di firme su un appello rivolto ai cittadini e ai parlamentari dei Paesi democratici perché si pronuncino per il rapido esame da parte del Comitato ad hoc dei problemi ancora aperti; le firme potrebbero essere consegnate al Presidente del Comitato e al Segretario Generale delle Nazioni Unite ai primi di aprile.

E non dimentico certo che il partito ha indetto ancora la Marcia di Pasqua, anche quest'anno mirata sull'istituzione della Corte Penale e sulla richiesta di abolizione della pena di morte. Se non vi riuscirà il partito, l'iniziativa dovrà essere comunque raccomandata a quanti fossero in grado di realizzarla.

In tutte queste occasioni mi auguro possa di nuovo rendersi visibile l'esistenza di una Comunità internazionale che, incapace come è spesso di agire unitariamente nelle crisi internazionali, dimostri di avere almeno una considerazione ed una coscienza unitaria della dignità umana, senza connivenze e complicità con gli autori dei più gravi crimini commessi contro di essa, in qualsiasi parte del mondo vengano perpetrati.

Siamo consapevoli, però, che la battaglia per la creazione della Corte Penale Internazionale si vince soprattutto negli Stati Uniti, che ancora hanno un peso determinante sulle decisioni delle Nazioni Unite. Perciò va apprezzato e incrementato al massimo il lavoro appena avviato da "Non c'è pace senza giustizia", il comitato di parlamentari e cittadini, per una stretta presa di contatto e di collaborazione con altre organizzazioni internazionali quali la "World Federalist Association", il "Lawyers Committee for Human Rights", il "Centre for the Independence of Judges and Lawyers", l'"International League for Human Rights", l'International Human Rights Group", la "Fédération Internationale des Droits de l'Homme", l'"International Bar Association Committee for Human Rights and a Just Role of Law", l'"Human Rights Watch", l'"American Bar Association's Task Force on the Proposed Protocols of Evidence and Procedure for Future War Crimes Tribunals" e "Amnesty International".

Avere la forza, finanziaria e umana - ed anche la capacità - di mettere in piedi negli Stati Uniti, strettamente collaborando con tali organizzazioni, un grande convegno sulla riforma del sistema delle Nazioni Unite e su una nuova giurisdizione internazionale vorrebbe dire fornire all'Assemblea Generale del cinquantenario l'opportunità politica di deliberare conformemente alle indicazioni contenute nell'Agenda provvisoria 1995, già ricordata. Mi sento di dire che sarebbe un grande obiettivo far svolgere questo evento subito prima o in coincidenza con l'apertura della 50a Sessione dell'Assemblea Generale. Ma per organizzarlo in modo adeguato occorrono centinaia di migliaia di dollari, che dovranno provenire in gran parte, non c'è dubbio, dal concorso di "altri" e in particolare dall'"area" americana.

Siamo ben coscienti che sono ancora aperti problemi tecnico-giuridici, ma siamo soprattutto coscienti che l'opinione pubblica, se informata, non accetterebbe ulteriori rinvii, e che è maturo il momento in cui la Comunità internazionale, pur nel rispetto di ogni procedura e dei più ampi tempi di riflessione, dia il segnale di voler procedere rapidamente, e con regole certe, sul cammino di una pace che non sia disgiunta dal diritto e dalla giustizia.

3. CAMPAGNA PER LA REVISIONE DELLE CONVENZIONI ONU SULLE DROGHE

Nella seconda metà degli anni ottanta nasceva quello che viene definito il "movimento per la riduzione del danno". Forti delle esperienze alternative fatte in alcune città europee (Amburgo, Zurigo, Francoforte e Amsterdam) i promotori decisero di coordinarsi per scambiare le loro acquisizioni, rafforzarle e magari anche estenderle ad altre città, non più esclusivamente europee. Come Partito radicale e come Co.R.A., in coordinamento con la L.I.A., possiamo dire di aver fornito un contributo determinante a questa crescita, invitando e organizzando a Bologna, il 10 ottobre 1992 la 3a Conferenza delle città firmatarie del Manifesto di Francoforte e poi, collaborando con la Drug Policy Foundation, allo svolgimento della conferenza di questa organizzazione tenutasi a Washington il 12-14 novembre 1993. Partendo da una dimensione di esperienze locali, la politica per la riduzione del danno sta così diventando politica ufficiale di sempre più numerosi paesi europei. Questo non può non portarci ad approfondire la rifl

essione sul carattere riformatore della strategia della riduzione del danno e sulla sua capacità di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della campagna per la legalizzazione di tutte le droghe.

Non possiamo che rallegrarci del fatto che obiettivi per i quali abbiamo lottato con energia per tanti anni si stiano realizzando. Ma allo stesso tempo dobbiamo rimanere molto lucidi e tenere in mente che il nostro traguardo finale è e rimane la legalizzazione di tutte le droghe, a livello mondiale. La riduzione del danno non è un fine in sé, bensì un mezzo verso l'obiettivo della legalizzazione. E tenendo anche presente il rischio che la sua generalizzazione possa assumere un ruolo di paraurti del proibizionismo, una sorta di controriforma.

Esauritosi il parossismo della cosiddetta "guerra alla droga" degli anni ottanta, assistiamo oggi ad un "ammorbidimento" del proibizionismo, come ultimo tentativo per prolungare questa politica, dimostratasi sempre più caduca e inefficace. Dobbiamo renderci conto dell'insidia, e metterci in condizione di agire con precisione verso il nostro obiettivo, che significa superamento del sistema proibizionista a favore di una politica fondata sulla legalità e la conformità tra scienza e politica.

Questa è la ragione per la quale il partito, in collaborazione con il Co.R.A. e la Lega Internazionale Antiproibizionista, ha promosso la campagna per il superamento delle Convenzioni delle Nazioni Unite in materia di droga (Convenzione Unica del 1961 e Convenzione di Vienna del 1988). Sono state studiate le diverse possibilità tecniche di arrivare a tale superamento. In particolare grazie al Convegno internazionale promosso congiuntamente dal partito, dalla LIA e dal Co.R.A nel maggio 1994 a Roma, abbiamo potuto verificare che, con la presentazione da uno o più Paesi di un certo numero di emendamenti alla Convenzione del 1961, è possibile arrivare alla convocazione di una Conferenza delle Nazioni Unite avente all'O.d.G. la sua modifica in senso antiproibizionista. Per quanto riguarda la convenzione del 1988, invece, il suo contenuto è talmente "esagerato" che risulta inemendabile: si può e si deve solo cercare di rigettarla, o di farla rigettare, in blocco.

Comunque, la campagna antiproibizionista è arrivata ad un punto chiave. Si può affermare che tutto è stato detto. L'antiproibizionismo affonda le sue radici e i suoi valori in un humus ricchissimo di conoscenze e di consapevolezza. Il carattere per lo meno inadeguato e deleterio del proibizionismo in ognuna delle sue forme - da quella più pesante, la 'war on drugs' a quella più morbida - e in ognuno dei suoi aspetti, sanitari, economici, giuridici, relativi alla sicurezza , ecc., è stato ampiamente dimostrato. Fino a poco fa si poteva ancora dire che una ricerca internazionale statistica sui risultati e l'efficacia delle diverse politiche attuate a livello mondiale non era stata attuata, e che quindi non si poteva misurare il loro impatto sull'andamento del fenomeno. Dopo aver chiesto senza successo in tutte le sedi internazionali di lotta alla droga, cui tale compito spetterebbe, che una tale ricerca venisse fatta, il Partito radicale, insieme al Co.R.A. e alla LIA, si è rassegnato a far da sé. E con il pri

mo rapporto internazionale sui risultati delle politiche messe in atto a livello mondiale, pubblicato nel giugno 1994, siamo riusciti, con mezzi infinitamente inferiori a quelli a disposizione delle Agenzie internazionali a ciò preposte, a colmare la carenza d'informazione e a dimostrare in forma rigorosamente scientifica il fallimento dell'approccio proibizionistico e la superiorità delle politiche basate su una visione tollerante e pragmatica.

La conoscenza che abbiamo delle strade alternative al proibizionismo è anch'essa più che sufficiente. Dunque la battaglia antiproibizionista, se non vuole restare semplice testimonianza retorica, non ha altra scelta se non di passare alla tappa successiva, la denuncia delle Convenzioni delle Nazioni Unite.

4. CAMPAGNA PER L'ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE. LA MORATORIA ALL'ONU E LE PROSPETTIVE

La nostra campagna per l'abolizione della pena di morte coinvolge e mobilita insieme parlamentari e cittadini. Questa caratteristica la distingue da altre, condotte da associazioni pur meritorie. Forti della lunga esperienza sui problemi dei diritti civili ed umani, noi siamo convinti che la battaglia per mettere al bando l'assassinio di Stato possa raggiungere i suoi obiettivi solo se saprà avanzare su due fronti: le aule parlamentari, dove si fanno le leggi, e le piazze e le strade, dove i cittadini rendono visibile la loro partecipazione, civile e nonviolenta. Il Partito radicale e l'associazione "Nessuno tocchi Caino", in un anno di attività, alcuni esempi della validità del metodo li hanno offerti. L'impegno organizzato a fare affermare il principio dell'indisponibilità per gli Stati alla vita dei loro cittadini venne definitivamente assunto da parlamentari, giuristi, semplici cittadini nel dicembre 1993, con il congresso di fondazione di "Nessuno tocchi Caino", tenutosi a Bruxelles, al Parlamento europ

eo. Era un impegno ambizioso, a 360 gradi, che guardava non a un solo paese ma al più vasto ambito internazionale puntando intanto a ottenere una moratoria delle esecuzioni capitali.

Ad aprile dell'anno scorso, parlamentari e cittadini, con alla loro testa i sindaci di Roma e di Sarajevo, con la Caritas, rivolgevano al Papa, in occasione della Marcia di Pasqua, un appello accorato perché sostenesse la Corte Penale permanente e la richiesta di moratoria.

Quando poi il Presidente americano Clinton venne a Roma, in giugno, gli consegnammo cento mozioni di consigli comunali, provinciali e regionali, tutte con la richiesta di sospensione delle esecuzioni.

Ma la nostra battaglia abolizionista, parlamentare e mondiale non poteva non avere come sede e interlocutore necessario e privilegiato le Nazioni Unite.

Dovevamo inventarci, dunque, una strategia che ci consentisse di arrivare al Palazzo di Vetro, già in occasione della Sessione dell'Assemblea Generale, in settembre. In giugno, in Italia, abbiamo presentato, al Senato e alla Camera, una mozione che impegnasse il governo a portare e a sostenere in quella sede ONU la richiesta di moratoria. Iniziative analoghe venivano condotte in Belgio, Spagna, Romania e Ungheria. Ma in Italia sapevamo di avere già in partenza il sostegno di parlamentari appartenenti a tutti i gruppi politici. Così, la mozione venne approvata il 5 agosto - all'unanimità - tanto alla Camera quanto al Senato. Occorreva adesso fare in modo che il Governo italiano avanzasse entro il 20 agosto la necessaria richiesta di inserimento all'ordine del giorno dell'Assemblea. Per far rispettare questo impegno parlamentare abbiamo mobilitato i cittadini, con una raccolta di firme rivolte all'allora Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi. Il 15 agosto, giorno festivo - in Italia - quant'altri mai

, abbiamo raccolto le firme di più di cinquecento cittadini di Roma e di turisti e quella stessa sera un fax lungo 20 metri con le firme raccolte veniva inviato al presidente del Consiglio. Tre giorni dopo, abbiamo organizzato, insieme a rappresentanti delle comunità africane a Roma, un "walkaround" davanti a Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio, per sollecitare il governo ad una tempestiva presentazione della richiesta. Ce l'abbiamo fatta, e il Ministro degli Esteri italiano dichiarò di accogliere il voto parlamentare, con la promessa di presentare la risoluzione non appena l'Italia fosse divenuta membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, un obiettivo cui il Ministro e il Governo tenevano prioritariamente e che non volevano mettere a rischio. La macchina della nostra strategia, comunque, si era mossa. Così, alla fine di settembre, lanciammo la campagna di finanziamento - "New York-New York" - finalizzata alla pubblicazione di una pagina sul New York Times contenente materiale info

rmativo sulle due questioni su cui eravamo impegnati - l'istituzione del Tribunale Internazionale e la moratoria delle esecuzioni capitali. La pagina doveva uscire nel momento in cui le due proposte sarebbero arrivate alla discussione.

E ancora una volta ce l'abbiamo fatta: 857 parlamentari, 210 sindaci e 93 consiglieri comunali, 64 deputati regionali e 62 consiglieri provinciali, non solo italiani, hanno aderito, e l'operazione ha raccolto oltre 280 milioni. E ancora: l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa approvava, il 4 ottobre, una Risoluzione - di cui fu relatore il deputato svedese Hans Franck, socio di "Nessuno tocchi Caino" - che chiedeva ai 32 Stati membri di "cancellare completamente la pena di morte dai propri codici penali e militari". In Italia, il 5 ottobre, il Parlamento cancellava la pena di morte dai codici penali militari e il 23 novembre ratificava il Secondo Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, un trattato abolizionista sulla pena di morte.

La vicenda relativa alla risoluzione sulla moratoria intanto procedeva alle Nazioni Unite. Con un voto che la spaccava in due, l'Assemblea approvava l'iscrizione all'ordine del giorno della questione pena di morte. A sostegno della battaglia assembleare, che già si preannunciava rovente, una delegazione di parlamentari, sindaci e personalità della cultura, il 23 novembre, a Roma, nella sede delle Nazioni Unite, consegnava a Boutros Ghali - ma già l'ho detto sopra - le migliaia di adesioni raccolte in tutto il mondo. Un fax lungo 14 metri coi nomi delle personalità e degli eletti di tutto il mondo che avevano sostenuto la campagna venne inviato al Palazzo di Vetro alle delegazioni dei Paesi indecisi mentre, da molti Paesi, parlamentari e personalità inviavano altri fax alle rispettive missioni all'ONU. Messaggi venivano inviati anche alla Casa Bianca attraverso Agorà Telematica e la rete internazionale Internet.

Il 28 novembre la risoluzione italiana, firmata da 43 paesi, veniva depositata e il I· dicembre usciva la pagina sul "New York Times".

Il 7 dicembre scorso, con 36 voti a favore, 44 contrari, 74 astensioni, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite respingeva la risoluzione. Lo scontro è stato ancora una volta duro, di altissimo livello. Mai in una Commissione dell'Assemblea ONU si era vista la presenza di tanti delegati e si erano avuti tanti interventi. Molti delegati, prima di votare, hanno chiesto ai propri governi ulteriori istruzioni su come comportarsi, su cosa fare. Paesi che pure hanno abolito dai loro ordinamenti interni la pena capitale si sono schierati sul fronte opposto, risultando persino decisivi, per considerazioni estranee al tema e riguardanti problemi diversi, l'equilibrio delle forze, ecc.

La votazione più importante non è stata quella finale, ma quella che si è svolta su un emendamento presentato da Singapore, che ribadiva l'inviolabilità e la "sovranità" assoluta dello Stato nazionale, sfera inviolabile e opaca all'interno della quale tutto è permesso e dove nemmeno le grandi norme di principio della Comunità internazionale possono interferire. Un precedente pericoloso, un regresso inaccettabile: travolta dal riaffiorare di antichi, malsopiti rigurgiti isolazionisti, la nostra risoluzione non è stata votata dai suoi stessi presentatori e sostenitori, dopo che era passato l'emendamento Singapore, che la snaturava.

Singapore si è prestato ad essere il portavoce di ben più forti presenze e pressioni isolazioniste. Perché, a ben vedere, in questa occasione più che gli abolizionisti della pena di morte sono tati sconfitti gli internazionalisti e le stesse Nazioni Unite, e in definitiva i difensori del principio che la legittimità degli Stati risiede sul rispetto al loro interno di alcuni fondamentali diritti della persona, derivanti da un consenso universale, transnazionale, costruito su decenni di dialogo e di confronto ai più vari livelli della Comunità internazionale, delle stesse Nazioni Unite.

E tuttavia, anche nella sconfitta numerica, è stato un grande successo aver portato l'ONU a discutere, per la prima volta, di moratoria delle esecuzioni, del grande principio che nemmeno lo Stato può disporre della vita di una persona, di un suo cittadino, fosse questi colpevole come il Caino dello slogan abolizionista, e dell'anno 2000 come data possibile entro la quale realizzare l'abbandono della forca, della ghigliottina, della sedia elettrica di Stato. Da tutto il mondo, parlamentari, personalità e semplici cittadini hanno fatto energicamente sentire la propria voce dentro le pareti, di vetro ma non per questo meno invalicabili, delle Nazioni Unite. Approvando mozioni in pubbliche e ufficiali sedi, sottoscrivendo appelli, comperando pagine su prestigiosi giornali, registrando messaggi e inviando fax, manifestando nelle piazze, digiunando, comunicando tra loro in una quotidiana gara, in un confronto incessante nutrito di volontariato e di dedizione, di nonviolenza e di rigore, essi hanno aperto e spalanc

ato le porte del Palazzo di Vetro. Sì, davvero un "fatto rivoluzionario per l'Onu", come ha detto il Segretario generale Boutros Ghali.

La moratoria delle esecuzioni capitali rimane l'obiettivo politico e giuridico interlocutorio della strategia abolizionista; per avvicinarci ad esso, dovremo superare nel 1995 due difficili prove: l'Assemblea Generale del settembre-dicembre 1995 e il Consiglio di Sicurezza, che potrà deliberare su una moratoria delle esecuzioni limitata ai soli casi di colpi di Stato, di guerre civili o situazioni emergenziali analoghe, la cui "eccezionalità" non le rende meno pericolose e degne di essere combattute.

Sarebbe necessario ripartire da basi più solide di quella costituita da un solo parlamento e di un solo governo che si facciano promotori di specifica iniziativa (come è successo questa volta) e più ampie di quella consentita dall'appoggio dei cittadini di pochi paesi. Bisognerebbe mettersi in grado di far circolare nel maggior numero di Parlamenti di paesi abolizionisti un documento - risoluzione, mozione, ecc. - possibilmente identico nella sostanza se non nella forma e nelle procedure, che impegni i governi a presentare all'ONU una proposta unitaria di moratoria. La richiesta della messa all'O.d.G. dovrà giungere a New York entro il 20 di agosto perché essa venga discussa nella Sessione di quest'anno.

L'anno scorso abbiamo messo a collaudo un metodo e fatto esperienza. L'analisi dei comportamenti e del voto dei vari Stati ci consente ora riflessioni e capacità di proposta più adeguate, flessibili, intelligenti. Gli Stati Uniti, che hanno votato a favore dell'inserimento all'O.d.G. e contro le insidiose mozioni "no action" tese a bloccare la discussione (mostrando insomma un volto aperto e liberale in tema di procedure) hanno, nella votazione finale, espresso un netto "no" sulla sostanza della moratoria. Ma è stato significativo che i loro delegati non abbiano mai preso la parola durante l'intero dibattito. Non hanno ottenuto apertamente all'Onu la legittimazione piena di quella pratica giudiziaria che 36 Stati della federazione americana applicano sistematicamente al loro interno. E hanno affidato ai paesi islamici il compito di far blocco a favore del mantenimento delle esecuzioni capitali. Così, Algeria e Egitto hanno preso la testa del fronte contrario alla sospensione, votando tenacemente contro la st

essa messa all'O.d.G. della questione e tentando, con le mozioni "no action", di bloccare la discussione. E' significativo e amaro che due dei pochi paesi laici del mondo arabo siano stati, all'ONU, accaniti sostenitori e portabandiera della tesi che considera il Corano anche legge penale e, al proprio interno, pratichino massicciamente la pena di morte contro gli integralisti.

Gli Stati della ex Unione Sovietica hanno tenuto un comportamento abbastanza omogeneo. Con il loro voto di procedura hanno consentito che la moratoria venisse messa all'ordine del giorno, con la loro astensione nella votazione finale hanno probabilmente voluto rappresentare anche lo stato del dibattito nel proprio paese. Tutti gli Stati dell'ex URSS hanno infatti ridotto drasticamente i reati per i quali è prevista la pena di morte; in Russia, grazie all'operato di una Commissione presidenziale per la grazia che è presieduta dallo scrittore Anatolj Pritavkin, membro del Consiglio direttivo di "Nessuno tocchi Caino", è in vigore di fatto una moratoria. In tutti quei paesi continua la discussione sulle nuove Costituzioni e i nuovi codici penali.

La Chiesa Cattolica svolge da sempre un ruolo che va al di là dei confini nazionali; durante tutto il suo pontificato, il messaggio di Giovanni Paolo II ha superato i confini del cattolicesimo. A volte il ruolo transnazionale del Vaticano ed il messaggio universale del Papa - ad esempio, contro i signori della guerra in ex Jugoslavia - hanno supplito all'assenza, all'inadeguatezza, all'impotenza stessa delle Nazioni Unite. Ma nel firmare, l'anno scorso, il decreto che ripristina nel suo Paese la pena capitale e nell'esprimere all'ONU, due mesi fa, il voto contrario sulla moratoria, il Presidente delle cattolicissime Filippine ci ha fatto ricordare che neanche il Nuovo catechismo della Chiesa cattolica esclude in linea di principio il ricorso alla pena di morte.

Riorientare in maniera univoca e inequivoca la lettura di quel testo può determinare un nuovo ascolto, creare nuova possibilità di formare coscienze e stabilire regole comuni su soglie sempre nuove di inviolabilità dell'essere umano. Milioni e milioni di persone riconoscono nella Croce un simbolo di pace, amore, fratellanza; pochi rammentano come essa sia stata atroce strumento di supplizio capitale. Mentre la Chiesa cattolica si prepara a celebrare il grande Giubileo per l'anno 2000 - è lo stesso termine che noi ci siamo dati per abolire la pena di morte nel mondo! - attendiamo fiduciosi che operi perché il diritto che l'uomo si è attribuito, di uccidere "legalmente" un altro uomo, divenga un ricordo del millennio che si avvia alla fine.

La Marcia di Pasqua che abbiamo organizzato anche quest'anno a Roma - in coincidenza con l'ultimo giorno del Congresso - dal Campidoglio a Piazza San Pietro, con i sindaci, i parlamentari e i cittadini abolizionisti, ci auguriamo possa cogliere dalle parole del Papa un segno che faccia sperare in un impegno diretto della Chiesa cattolica nella causa abolizionista.

LE INIZIATIVE POSSIBILI

Sempre nel 1995, sarebbe estremamente importante organizzare grandi conferenze mondiali nei tre luoghi che possiamo considerare - anche da quello che è successo all'Onu - decisivi per la campagna abolizionista:

Una a New York, con gli abolizionisti americani, le Nazioni Unite e i politici americani disposti a discutere, intanto, di una moratoria delle esecuzioni; noi siamo convinti che gli Stati Uniti costituiscano un banco di prova decisivo. Nel momento in cui la delibera del Congresso dell'anno scorso, di limitare la vendita delle armi, ha accennato per la prima volta a un modo di affrontare l'emergenza criminale diverso da quello che ha bisogno della violenza istituzionale, una domanda di moratoria potrebbe incontrare un forte ascolto.

Una seconda a Mosca, con quei giuristi e parlamentari che stanno elaborando le nuove Costituzioni. L'esito positivo della loro opera di costituenti e di legislatori potrebbe far pendere il piatto della bilancia dalla parte degli Stati abolizionisti.

Una, infine, difficile quanto clamorosa, a Tunisi, con giuristi islamici, gli intellettuali vittime del fanatismo religioso, eletti nei parlamenti, militanti dei diritti umani, e con il Presidente Ben Alì che sappiamo essere un abolizionista convinto. Molti Stati, nel mondo arabo, "giustiziano" i propri cittadini. Alcuni, retti da regimi confessionali, si richiamano a tradizioni millenarie e a radicate convinzioni religiose. Altri, a fondamento laico, avanzano le ragioni di una grave emergenza terroristica che mina le basi della loro sicurezza. Noi non pensiamo di bollare i primi come "incivili"; né però possiamo "giustificare" i secondi. Per gli uni e per gli altri valgano le parole dello scrittore egiziano Naguib Mahfuz, accoltellato dagli integralisti. Fautore del dialogo e della tolleranza, Mahfuz ha detto che chi semina la violenza non solo distrugge la sua vita ma infanga l'Islam, che è tolleranza e non fanatismo criminale. Mahfuz si è detto convinto che per arginare l'integralismo non basti la rep

ressione. Ha ragione: occorre infatti la persuasione. E noi dobbiamo andare avanti in quella direzione, ritrovandoci su quell'"irriducibile umano" che - come ha detto Boutros Ghali - "fa di tutti noi un'unica comunità".

5. CAMPAGNA PER LA LINGUA INTERNAZIONALE

"Agire... nei parlamenti e nelle organizzazioni internazionali a sostegno della diffusione e per la progressiva adozione - anche formale - della Lingua Internazionale quale concreto strumento di garanzia del diritto alla lingua, di salvaguardia dell'ecosistema linguistico-culturale planetario, di crescita - al di là delle nazionalità - di una identità comune mondiale in appartenenza all'unica famiglia umana". Così deliberava il Consiglio Generale del Partito radicale, Sofia 15-18 luglio 1993. Il progetto per il diritto alla lingua internazionale doveva però essere drasticamente ridimensionato, vista la gravità della situazione economica del partito a fine 1993. Rispetto ai circa 750 milioni originari, si dovette ridurre l'ipotesi di investimento di ben 15 volte. E tuttavia si è cercato di tener presenti e di "investire" con la presenza nostra e dell'Associazione Radicale "Esperanto", seppur in modo ridotto, tutti i contesti: il Parlamento Europeo, le organizzazioni internazionali (UNESCO in testa), il parlam

ento e il governo italiano.

Nel 1954 e poi nel 1985, l'UNESCO aveva approvato due Risoluzioni a favore dell'esperanto. Bisognava accelerare il cammino partendo di qui. Nel novembre 1993, il partito organizzava a Parigi una manifestazione durante la 26a Conferenza Generale dell'organizzazione. La manifestazione, e un incontro con una delegazione dell'UNESCO, portò al pieno accoglimento, da parte del Direttore Generale, della Risoluzione sull'esperanto presentata dal Governo italiano da noi sollecitato.

In virtù di quell'impegno e delle direttive emanate dal Direttore Generale in calce alla risoluzione, la "Esperanto Radikala Asocio" presentò un progetto per la sperimentazione della Lingua Internazionale nel mondo. Il progetto venne approvato dalla Commissione Nazionale per l'UNESCO e dall'UNESCO di Parigi, oltre che finanziato da questo. Oggi quel progetto coordina oltre un centinaio di scuole di circa 20 Paesi di 4 continenti.

In Europa abbiamo perseguito l'obiettivo di emendare in senso esperantista i nuovi programmi comunitari sulla istruzione e la formazione, rispettivamente il Programma Socrate e il Programma Leonardo, ma l'assenza di un parlamentare europeo che, come membro della Commissione Cultura, facesse seria e costante opera di informazione e convincimento, è stata decisiva per la sconfitta. La bella manifestazione da noi organizzata in occasione delle votazioni sul programma Leonardo, alla quale partecipavano esperantisti di 16 Paesi europei e di 2 extraeuropei (Tanzania e Cina) riusciva solo nell'intento di convincere la relatrice, on. Von Alemann, a non raccomandare all'Assemblea il voto negativo su quegli emendamenti.

Abbiamo positivamente avviato un rapporto con alcuni economisti italiani e stranieri, tra i quali il Prof. Berti, il Prof. Ridolfi, il Prof. Maerten e il neo premio Nobel per l'economia, Prof. Selten, perché venissero calcolati i costi della "non-comunicazione" tra i cittadini europei e dimostrata, cifre alla mano, la necessità di una "lingua federale" europea. Gli economisti ci hanno già fornito dei piccoli saggi di carattere generale; si tratta ora di costituire in seno alle Istituzioni europee un vero e proprio Gruppo di lavoro, magari guidato proprio dal Prof. Selten, il quale elabori, con a disposizione le necessarie strutture di studio, un Rapporto da sottoporre alle Istituzioni dell'Unione e dei Paesi membri, e ai cittadini europei.

C'è grande bisogno di una specifica campagna esperantista europea. In un organismo politico dove si parlano undici lingue diverse, una lingua federale che possa essere appresa durante la scuola dell'obbligo non solo è diritto ed anche garanzia di "pari opportunità" per ciascun eurocittadino, ma è vera e propria necessità strutturale ed economica delle istituzioni, condizione dello sviluppo transnazionale delle piccole e medie imprese di ciascun Paese comunitario, strumento essenziale di una completa mobilità lavorativa. E' dunque un diritto dei consumatori e degli utenti europei sapere quanto esce dalle loro tasche e quanto non gli entra per l'assenza di "comunicazione certa" a livello transnazionale. Sarà un mio personale impegno, quale loro Commissaria, far compiere un tale studio; un vero e proprio Rapporto (com'è nelle tradizioni comunitarie) che, insieme ai costi della "non comunicazione linguistica", avanzi proposte operative. Esse rafforzeranno il cammino federalista. Basti ricordare il costo, in tema

di diritto, imputabile alla ricerca di una equivalenza giuridica dei testi legislativi comunitari nelle diverse lingue. Costo che fa aumentare iperbolicamente il contenzioso. Battersi perché l'esperanto divenga lingua di riferimento giuridico europeo è una vera e propria necessità.

L'articolo 27 del Patto del 1976 relativo ai diritti civili e politici, e la recente Dichiarazione sui diritti - tra gli altri -degli appartenenti a minoranze linguistiche, Dichiarazione approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 21 febbraio 1992, sanciscono il diritto per queste persone di utilizzare la propria lingua. L'esperanto non è una lingua competitiva nei confronti delle altre, come lo furono il latino e il francese, oggi lo è l'inglese e domani chissà quale altra. L'esperanto è una lingua ausiliaria, la cui promozione e diffusione favorirebbe il diritto alla lingua quale diritto fondamentale della persona. Potremmo adoperarci perché il Comitato dei diritti umani chieda, e successivamente controlli, l'utilizzazione della Lingua Internazionale negli ordinamenti nazionali in occasione della verifica dei Rapporti nazionali presentati dagli Stati aderenti al Patto.

Bisognerebbe anche ottenere che l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura elabori una Convenzione per la diffusione e la progressiva adozione come lingua internazionale ausiliaria dell'esperanto.

Infine. Un evento va qui segnalato con particolare emozione, perché va al di là, ben al di là della cronaca delle iniziative e dei successi (o delle sconfitte) conseguiti. Corrispondendo ai voti e alla richiesta rivoltagli dal Partito radicale, il Papa ha voluto porgere i tradizionali auguri pasquali "urbi et orbi" del 1994 anche nella Lingua Internazionale. Per gli esperantisti questa è stata una grande notizia. E, visto che Sua Santità ha voluto far uso dell'esperanto anche a Natale, appare ancor più verosimile la speranza da noi nutrita che egli voglia ulteriormente incoraggiare la causa esperantista. Dobbiamo saper cogliere questa prospettiva, sapercene fare un punto di riferimento costante e prezioso. Ne ringraziamo Giovanni Paolo II, ancora una volta, da questa sede congressuale.

PROSPETTIVE E INIZIATIVE POSSIBILI

Anche in questo settore, bisogna camminare su due strade parallele; va sviluppata l'informazione e la sensibilizzazione dell'opinione pubblica internazionale (anche a questo è servita la presentazione della questione esperantista sulle pagine del New York Times del 28 settembre scorso), mentre dall'altra occorre promuovere Convenzioni internazionali per l'uso dell'esperanto nei contesti inter- e transfrontalieri, all'UNESCO, all'ONU. E all'UNESCO, considerando le precedenti favorevoli attenzioni, chiederemo subito che il Segretariato Generale metta allo studio una prima Convenzione internazionale.

6. CAMPAGNA CONTRO LE PANDEMIE

(AIDS E VIRUS EMERGENTI)

A conclusione del primo decennio di esperienza bisogna prendere atto che la lotta nei confronti dell'Aids è stata condotta in maniera inadeguata e poco realistica, affidandosi in sostanza all'ipotesi di un miracolo scientifico, la scoperta del vaccino o dell'antidoto. Ma non è stato facile individuare - come pur abbiamo cercato di fare a partire dalla scarna indicazione della mozione di Sofia del luglio 1993, che ci impegnava a potenziare "in ogni sede possibile... la lotta contro la diffusione dell'AIDS, con particolare riguardo al continente africano" - la strada da battere per far compiere un salto di qualità all'impegno internazionale.

E tuttavia, nel dicembre 1993, a Marrakech, nell'ambito dell'Ottava Conferenza Mondiale sull'AIDS in Africa, il Partito radicale ha diffuso un progetto di campagna internazionale, sull'AIDS ma anche sulle pandemie in genere, che si poneva come obiettivo quello di colmare un vuoto nel quadro giuridico-istituzionale internazionale e di individuare uno strumento per reagire globalmente ed in maniera concertata alle pandemie in quanto tali, fosse il caso dell'epidemia da HIV o da altri virus emergenti (Ebola, Marburg, Junin...).

A nostro avviso ciò che si rende necessario è la istituzione di un organo sovranazionale, dotato di poteri vincolanti per garantire l'applicazione di misure che siano state accettate globalmente.

Una Convenzione ONU può rappresentare una ragionevole base di partenza, che tenga conto dei seguenti punti:

(I) difesa dei diritti umani e civili delle persone sieropositive e con AIDS conclamato;

(II) accesso dei pazienti, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, ai farmaci;

(III) promozione dell'uso e distribuzione del preservativo presso le popolazioni;

(IV) certezza di riserve di sangue pulito negli ospedali;

(V) programmi di scambio di siringhe (nuova contro usata) per i tossicodipendenti per via endovenosa; una politica antiproibizionista sulle droghe;

(VI) modificazione strutturale delle Agenzie ONU, ottimizzando gli sforzi attraverso una gerarchia diretta di responsabilità, con il coinvolgimento in prima persona del Segretario Generale e la nomina, a Direttore del Programma, di una personalità d'indiscusso prestigio internazionale;

(VII) rilancio della specializzazione in virologia ed epidemiologia; organizzazione di un sistema nazionale ed internazionale di sorveglianza; incentivazione delle attività di ricerca, sia di base che applicata, sui PVS;

(VIII) promozione e tutela del diritto all'informazione e di quello alla salute;

(IX) miglioramento dello status sociale delle donne;

(X) rafforzamento della cooperazione finanziaria e politica Nord-Sud.

Recepite alcune osservazioni e commenti della comunità scientifica internazionale, il progetto è stato reso pubblico a febbraio 1994, nel corso di due eventi ufficiali, a Genova e a Sofia.

Malgrado importanti scadenze nel corso dell'anno (Conferenza Mondiale di Yokohama in agosto e Vertice di Parigi a dicembre) che avrebbero offerto un valido terreno di crescita dell'iniziativa, il partito ha dovuto sospendere la campagna, ancora una volta a causa della mancanza di fondi. Comunque, all'inizio del 1995, in concorso con la Regione Piemonte, si terrà a Torino una conferenza internazionale, per riprenderla e rilanciarla ad un livello adeguato.

7. CAMPAGNA PER L'ISTITUZIONE DI UN'ALTA AUTORITA' DEL DANUBIO

Negli ultimi mesi si è sviluppato nel partito un dibattito che, a partire dagli elementi offerti dalla relazione e dalle conclusioni di Sofia, ha cercato di individuare delle ipotesi di iniziativa politica sul tema "Danubio". Nella relazione e nel documento di Sofia l'accento era posto sul progetto, tra istituzionale ed ecologico, di una Autorità sovranazionale per la gestione del bacino del fiume. Ma ben presto, in quel dibattito, "Danubio" è divenuto - diciamo - la metafora con la quale, cogliendo l'emblematico scorrere di questo grande fiume attraverso tanti paesi e città come Vienna, Bratislava, Budapest, Belgrado, e il suo collegarsi, grazie al canale di Costanza, da una parte al Reno e dall'altra al Mar del Nord, si è tentato di individuare più ampie problematiche, connesse all'emergere delle nuove democrazie dei paesi dell'area - appunto - danubiano-balcanica, messo in forse dalla lacerazione dei vecchi tessuti istituzionali come dalle differenze linguistiche o etniche, e invece favorito dalla richies

ta da parte di alcuni di essi di entrare a far parte dell' Unione europea.

Partendo dalle questioni istituzionali ed ecologiche del fiume, il tema "Danubio" è divenuto un contenitore della grande scommessa cui l'Europa va incontro nei prossimi anni e cui è necessario dare una risposta immediata e chiara. Il dibattito non è arrivato ad una conclusione, ad una linea di iniziativa, o a una proposta politica, anzi si trova nel pieno della sua riflessione ed analisi.

La firma della Convenzione per la Cooperazione, siglata da numerosi paesi rivieraschi o meno a Sofia (giugno '94) e l'avvio del processo, ancora non conclusosi, della ratifica da parte dei parlamenti nazionali, ha in certo modo reso meno importante l'approdo del dibattito sulla parte più specificatamente legata ai problemi, differenti e complessi, della gestione del fiume.

Ma esso ha fatto affacciare tendenze e problemi, cui è importante accennare ed anzi sottolineare. Si sono contrapposte in particolare due tesi che non credo siano però antagoniste tra di loro. Una delineava l'ipotesi, o la necessità, di avanzare, o comunque fare avanzare dall'interno del partito, un progetto di "confederazione balcanico-danubiana" come motore politico, culturale, economico di un modello di sviluppo dell'intera regione fondato sui principi di un federalismo moderno, atto a sconfiggere gli antagonismi nazionalistici come gli egoismi delle povertà e a dare respiro e dimensione sovranazionale alle giovani democrazie balcaniche sottraendole al richiamo di tradizioni fratricide e ai rischi di conflitti altrimenti inevitabili data la complessità della composizione etnica, religiosa, culturale della vasta regione, così come accade, nella stessa Europa, in punti di analoghe caratteristiche. La proposta "confederazione danubiana" darebbe un quadro istituzionale alla autorealizzazione della regione, an

che nel caso di ingresso dei suoi paesi nell'Unione Europea; sarebbe anzi indispensabile, sia per disinnescare previamente i contenziosi frontalieri e culturali sia per far sì che questi paesi non si presentino separati, ed anzi egoisticamente divisi, al confronto con i partner europei.

Una seconda tendenza ha piuttosto privilegiato l'indicazione dell'immediato coinvolgimento dei Paesi dell'area nel sistema politico europeo (Unione europea): un processo già in corso, del resto, per alcuni dei paesi del Centro Europa, ma soggetto ancora alle volontà delle cancellerie e delle stesse alte autorità dei paesi membri, nonché alla volontà dell'Unione presa nel suo complesso: tutte divise e miopi, sempre più, nell'individuare le vere scommesse da fare per dare forma alla soggettività politica del continente. All'interno dell'Unione, purtroppo, si discute sulla presunta necessità di "equilibri mediterranei" da rispettare, di divisioni per aree di interesse, di occupazione economica, senza tener conto che oggi l'Europa, l'Unione europea da costruire, si deve confrontare con i problemi dell'intero continente, intesi globalmente.

Resta comunque sempre valida, nello sfondo, la proposta di creazione di una Alta Autorità e di una Comunità europea dei fiumi e delle grandi idrovie: due indicazioni dirette a inserire, per la forza stessa delle cose, una breccia istituzionale che penetri nel cuore dell'Unione, per sottolinearne le attuali incapacità e divisioni.

La metafora "Danubio", col suo richiamo ai secolari tentativi di sviluppo istituzionale, regionalista o federalista, imperialista, comunista, ma sopratutto - in prospettiva - democratico, ha messo in evidenza le enormi potenzialità del Partito radicale come vettore politico di una riflessione e di una iniziativa che sappia superare le interne contraddizioni delle diplomazie occidentali; quelle, purtroppo, di cui si è avuta dimostrazione anche nel vertice europeo di Essen e nella riunione della OSCE (ex-CSCE) di dicembre 1994, a Budapest. Con largo anticipo, attraverso il tentativo di convocare il congresso del partito a Zagabria nell'ottobre del 1988, avevamo predetto i tragici avvenimenti della exJugolavia. Vi ricordate? Le nostre parole d'ordine erano "Jugoslavia nella CEE, subito" e poi "Ungheria nella CEE, subito" ... Allora!

Siamo ancora pienamente convinti, come già avevamo previsto organizzando politicamente il Congresso di Budapest nel 1989, che la realtà danubiana continuerà a bussare e a presentare a lungo le sue richieste per soddisfare il suo "bisogno" d'Europa: bisogno economico e politico, fatto di aiuto economico, di mobilità del lavoro, di ricostruzione ambientale, di scambio di informazioni, di un diverso modello di produzione industriale da porre al posto della pianificazione socialista. I tentativi di risanamento del tessuto istituzionale attraverso esperimenti federalisti, interregionali, sono sempre stati sconfitti perché hanno trovato di fronte a loro la barriera degli antagonismi, gli egoismi nazionalistici, le divisioni etniche. In questo spazio di storia vissuta ed anche attraverso la semplice nostra presenza in numerose capitali del centro Europa abbiamo la nitida coscienza, la razionale sensazione che gran parte delle nostre vittorie o sconfitte si misurerà sulla crescita o la sconfitta di quelle democrazie

, e la loro partecipazione ed integrazione, o meno, ai processi decisionali dell'intera Europa.

Perché, attenzione! Se i paesi danubiani hanno bisogno d'Europa, è anche l'Europa ricca della Ue che ha bisogno di aprirsi ai paesi meno sviluppati dell'Est. Ne ha bisogno perché il processo di integrazione cessi di essere gestito, e ritardato, dalle cancellerie o da volontà politiche centrifughe, e perché la Ue acquisti la forza di superare gli ostacoli che la vogliono entità non politica ed esclusivamente intergovernativa mentre l'Europa dei cittadini continui a rimanere una chimera o, peggio, una mera, vuota enunciazione: meno che un auspicio.

"Danubio" è tutto ciò, è una proposta politica da definire, da limare, ma non una utopia, che preferiamo lasciare ai ricordi e ai sogni, quelli sì', veri, di Lajos Kossuth, di Aurel Popovici, di Miklos Wesselenyi o a quelli, premonitori delle tragedie in atto, del maresciallo Tito.

Il Partito nel mondo

B. LA SITUAZIONE DEL PARTITO NEI VARI PAESI

1. IL CENTRO-EUROPA

(Albania, Austria, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Rep. Ceca, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovenia, Slovacchia, Turchia, Ungheria, Vojvodina)

Un quadro complessivo

L'iniziativa del partito nei paesi del Centro-est europeo, sempre a partire dal Consiglio Generale di Sofia, ha dovuto far fronte, per un verso, alle difficoltà del passaggio delle economie e delle politiche di paesi ex-comunisti a standard democratici europei, per l'altro ai riflessi locali della guerra che si combatte nell'exJugoslavia dal luglio 1991, con ovvie ricadute negative sull'intera area.

E tuttavia da quest'area sono giunte significative adesioni alle campagne promosse dal partito su obiettivi mirati alla richiesta di giustizia quale unica base concepibile per una pace possibile: la campagna per il Tribunale ad hoc e quella per la creazione della Corte Internazionale Permanente. Ambedue sono state sentite qui come attuali e rispondenti a necessità reali.

Con le firme sugli appelli, ma anche con digiuni ed iniziative militanti, hanno dato la loro adesione parlamentari, cittadini, intellettuali, di tutti i paesi considerati. Un dato per tutti: sulle 708 firme di parlamentari di tutto il mondo per il Tribunale internazionale, 204 sono provenienti da questi Paesi, senza contare i membri di governo, le centinaia di sindaci e personalità di diverso livello.

In tutti i Paesi considerati, la mobilitazione ha portato, per la prima volta sistematicamente, alla convocazione di incontri ai massimi livelli istituzionali e governativi. Sono stati presi contatti diretti col ministro degli esteri ungherese Kovacs e col presidente croato Tudjman, col presidente del parlamento albanese Abnori o con il co-presidente bosniaco Pejanovic. Il Partito radicale ne ha acquistato in visibilità e in credibilità.

Quando pure non sono stati conseguiti i risultati sperati, abbiamo comunque evidenziato politicamente la debolezza e la ricattabilità di questi paesi sulla scena internazionale. E' questa loro drammatica condizione che spiega in sede di Nazioni Unite i repentini cambiamenti di posizione ed i voltafaccia, inevitabili in assenza di un solido radicamento nel contesto politico ed economico europeo e comunitario. Non tutto questo accade per responsabilità di quei paesi, dei loro governi. L'esigenza di partecipazione all'Unione Europea che si leva dalla loro stragrande maggioranza rimane a tutt'oggi inascoltata o comunque diluita nel mare d'ignavia dell'eurocratismo. L'inesistente risposta europea alla guerra, alla pulizia etnica, al dramma esplosivo di tre milioni e mezzo di profughi, ha finito anzi con l'alimentare tendenze centrifughe e aggregazioni in pericolosi blocchi di interessi contrapposti.

Diventa assolutamente vitale, per questi paesi e per la stessa sopravvivenza della Unione europea - e della pace - proporre e moltiplicare l'iniziativa per l'effettiva operatività del Tribunale ad hoc, oggi praticamente inoperoso a causa degli inadeguati finanziamenti, come per la costituzione della Corte Penale; ma anche per l'adesione, prima di tutto politica, dei paesi dell'area ad una Unione europea federale e democratica. Il partito può, in questa direzione, fare molto.

Particolarmente in Croazia, Ungheria e Bulgaria, attraverso assemblee e interventi sui mass-media, si è avviato un dibattito sull'antiproibizionismo che, oltre a produrre un riflesso a volte di critica a volte di sostegno nei mezzi di informazione, ha dato anche il via ad una ricerca sulle Convenzioni internazionali in materia di droga e sulle applicazioni legislative locali. In paesi dove consumo di droghe e criminalità connessa stanno crescendo esponenzialmente, l'antiproibizionismo può essere importante strumento di sviluppo del partito. Resta però la difficoltà di trovare e far partecipare alle nostre campagne rappresentanti politici locali, per un argomento di così forte impatto nell'opinone pubblica e dunque toccato con esitazione da quanti ricoprano un ruolo pubblico.

Contatti sono stati presi con organizzazioni ecologiste e partiti politici per possibili iniziative in merito ai problemi, non solo ambientalisti, che riguardano il Danubio.

Rimandando all'ampia cronologia altrove predisposta, va segnalata l'adesione e la partecipazione di parlamentari e personalità iscritte al partito a incontri internazionali e convegni organizzati dal partito a New York, Bruxelles, Roma, nonché l'ottimo successo delle decine di assemblee tenutesi da Istambul a Sarajevo, da Tirana a Sofia a Bucarest, ecc.

La tenuta ed il rafforzamento delle nuove democrazie, la fine dei conflitti regionali ed una pace giusta, la rinascita delle economie disastrate, sono temi sui quali sarà chiamata a dare una risposta la Comunità Europea nei prossimi mesi, ma sono anche quelli su cui il partito, sviluppando una rete di contatti politico-istituzionali e con la peculiarità delle sue iniziative, prefigura risposte possibili e valide.

Mass-media

Il riscontro delle iniziative del partito nei mass-media è alquanto differenziato: si va da situazioni di palese censura, come in Romania, a situazioni di attenzione sia televisiva, come in Croazia, che di stampa o radiofonica, come in Bulgaria o in Albania. Mediamente, è ancora una presenza insufficiente, dovuta anche alle nostre inadeguatezze finanziarie: per un passaggio più continuo e intenso sui mass-media sarebbero necessari traduttori e addetti stampa, come attualmente il partito non è in grado di garantire. Si tenga presente, inoltre, che il 1994 è stato l'anno in cui sono state stampate e diffuse in questi paesi meno pubblicazioni radicali. Alla carenza si è tentato di ovviare utilizzando la comunicazione telematica Agorà, strumento agile ed efficace dell'attività transnazionale, anche grazie al bollettino "Transnational". I limiti di budget ne hanno consentito una diffusione limitata, finalizzata soprattutto all'informazione (anche saltuaria) dei parlamentari e di testate giornalistiche. La produzi

one nelle sedi locali, con relativo abbassamento dei costi, ne ha comunque garantito l'uscita ed una certa funzionalità sia per mantenere i vari contatti che per le raccolte di firme.

Iscritti

Gli iscritti '94 sono stati complessivamente, nell'area, 522, dei quali, dato l'orientamento prevalentemente qualitativo delle campagne di iscrizioni condotte negli ultimi tre anni, 136 sono parlamentari. Si aggiungano personalità della cultura, della politica, del giornalismo, e anche un piccolo numero di cittadini che mantengono verso il partito, spesso da alcuni anni, con l'iscrizione e talvolta con la militanza, un rapporto consolidato di fiducia.

Un breve, particolare sguardo alla situazione nella Repubblica Ceca. Non continuativa, anche se interessante, la presenza radicale in questo Paese. Nel giugno scorso, il deputato ODS (partito di maggioranza relativa del premier Vaclav Klaus) Andrej Gjuric ha presentato al parlamento la nostra mozione sul Tribunale ad hoc per l'ex Jugoslavia. La proposta di messa all'o.d.g. venne però bocciata a maggioranza.

In agosto viene presentata alla stampa la versione in lingua ceca del libro di Al Gore "Earth in the Balance", da noi sponsorizzata. La cerimonia si tiene presso l'Ambasciata Usa a Praga, co-sponsor del libro. Sempre in agosto, i radicali reagivano ad una presa di posizione del membro della commissione governativa antidroga, Tomas Has, il quale sosteneva la necessità di introdurre nell'ordinamento giuridico della Repubblica Ceca la punibilità per il mero uso di sostanze stupefacenti, attualmente non penalizzato. La replica ottenne un notevole spazio sulla stampa, e riaprì un ampio dibattito a partire dalle tesi per la legalizzazione, che occupò pagine intere di vari quotidiani nazionali.

In settembre, Carla Rossi ottiene, a Praga, due interviste in grossa evidenza su due dei principali quotidiani cechi. In ottobre quattro parlamentari firmano l'appello per la ICC. Con loro, tra gli altri, l'ex ministro cecoslovacco per l'ambiente Josef Vavrousek, e il Segretario generale della International Romani Union, Emil Scuka.

Il tavolo per la raccolta di firme posto l'8 dicembre al centro di Praga dai militanti radicali per raccogliere adesioni sull'appello "Sarajevo città aperta" ottiene spazio sui notiziari radio e su quelli della TV pubblica.

2. L'EUROPA ORIENTALE

(Bielorussia, Moldavia)

Nel giugno 1993, una delegazione radicale condotta da Andrea Tamburi incontrò a Chisinau il Presidente della repubblica moldava, Mircea Snegur. Nello stesso periodo, veniva promossa una campagna transnazionale perché nel progetto di nuova Costituzione di quella Repubblica venisse esclusa la pena di morte. Al parlamento moldavo veniva indirizzato anche un appello antiproibizionista sul quale furono raccolte, durante l'anno scorso, circa 3000 firme di parlamentari, personalità, sindaci e cittadini, non solo dell'ex Unione sovietica ma anche di altri paesi europei. L'iniziativa venne anche fortemente sostenuta da un buon numero di parlamentari moldavi.

Comunque, questa legislatura non è mai arrivata a discutere la nuova Costituzione; dopo le elezioni politiche di febbraio 1994 la situazione nel parlamento è molto cambiata, la maggioranza assoluta - comprendente gli ex-comunisti dei partiti socialista e democratico agrario - votò in ottobre per mantenere nella nuova Costituzione la pena di morte, malgrado le proteste di intellettuali moldavi e la campagna e gli appelli del Partito radicale e di "Nessuno Tocchi Caino". Era difficile raggiungere un diverso risultato in un Paese dove non abbiamo né punti di contatto stabili né una sede e dove le attività sono state fin'ora coordinate dalla sede di Kiev.

Altra importante iniziativa fin dai primi giorni della nostra presenza nell'estate 1992, fu la campagna per il diritto e contro la violazione dei diritti umani in Transnitria, la regione sempre occupata dall'esercito russo, dove il governo fantoccio pro-comunista dell'autoproclamata "Repubblica moldava di Transnistria" è stato creato e vive all'ombra delle baionette russe. L'aver preso una posizione concreta a favore dei diritti umani e del diritto internazionale ha favorito il successo radicale nella Moldavia. Nell'ambito di questa campagna, durante l'inverno 1993-1994 fu sviluppata una iniziativa in difesa di Ilie Ilascu, professore all'università di Tiraspol e presidente del Gruppo Helsinki moldavo, arrestato dai separatisti transnitriani a Tiraspol (capitale della autoproclamata Repubblica) e condannato a morte in quanto "terrorista" e "spia". L'iniziativa venne lanciata il 10 dicembre 1993 dalla tribuna del Congresso di fondazione di "Nessuno Tocchi Caino", a Bruxelles.

Una pubblica assemblea del partito venne indetta a Chisinau, il 24 febbraio. Nessun rappresentante del partito si è recato in tale città dopo quella data, per la solita scarsità di mezzi. Nell'ambito della campagna per l'abolizione della pena di morte, una delegazione moldava ha comunque partecipato alla Marcia di Pasqua 1994 e interventi importanti di Petru Munteanu e Alecu Renita furono pubblicati nei mass media moldavi, che hanno sempre assicurato un'ottima copertura delle nostre attività.

Quasi tutti tra il centinaio di membri o simpatizzanti moldavi sono parlamentari o giornalisti di prima linea (tra loro, Alexandru Dorogan, direttore di radio Moldova, e Zola Golban, capo-redattoredel giornale "Nezavisimaja Moldova"). Malgrado ciò, solo 34 persone in Moldavia hanno raggiunto il partito nel 1994 invece delle 91 del 1993 e delle 100 del 1992. Molte, le ragioni del calo: la mancanza di fondi per recarsi sul posto e per organizzare una iniziativa politica, l'impossibilità di trasferire soldi per posta dalla Moldavia dopo l'introduzione della nuova unità monetaria, ecc.

I tentativi, giunti a buon punto, per ottenere una stanza nella sede del parlamento moldavo nell'ambito del progetto di Agenzia Transnazionale 1993 si sono bloccati dopo le elezioni di febbraio 1994, sia a causa della situazione parlamentare completamente nuova che per la nostra crisi finanziaria.

3. LA RUSSIA

Il Partito radicale si è trovato a lavorare in Russia, durante l'ultimo anno e mezzo (dal Consiglio Generale di Sofia nel luglio 1993), in una situazione non semplice, sia in termini politici che di organizzazione.

La crisi politica del settembre 1993 fra il presidente Yeltsin e il Soviet Supremo, la rivolta e la successiva presa della Casa Bianca il 3 e 4 ottobre, le elezioni politiche del 12 dicembre e la formazione del nuovo Parlamento - Duma e Consiglio della Federazione - hanno determinato in Russia una situazione completamente nuova e portato alla ribalta politica nuove figure, con le quali abbiamo dovuto avviare nuovi contatti, partendo anche da zero, o quasi.

D'altro canto è giusto avvertire che tali cambiamenti politici hanno offerto l'opportunità di edificare una presenza radicale su un terreno pressoché vergine, persino affrancato da fraintendimenti, errori e abusi del passato.

Ma un avvenimento dolorosissimo, inaccettabile, ha soprattutto sconvolto il nostro lavoro in Russia e su tutto il territorio dell'ex URSS: l'assassinio di Andrea Tamburi, coordinatore dell'attività del Partito radicale nei paesi della CSI, avvenuto a Mosca, nel febbraio 1994. E' difficile valutare quanto, oltre all'amico, al militante generoso, abbiamo perso con la scomparsa di Tamburi. Forse le stesse modalità del brutale omicidio - che faremo in modo vengano finalmente accertate anche sul piano giudiziario - ci possono far intravedere quanto fosse prezioso, serio e profondo il lavoro politico di Andrea a Mosca e in tutto il Paese: forse egli cominciava ad essere sentito come un elemento scomodo, inaccettabile, pericoloso da un Paese ancora diffidente e lontano dagli ideali e dalla pratica della tolleranza, del liberalismo, del pluralismo democratico. Colgo qui l'occasione, ancora una volta, per un ricordo dolente e affettuoso, intorno al quale tutti ancora una volta ci uniamo, del compagno ed amico Andrea

Tamburi.

Per giudicare l'attività del partito in Russia è necessario porre attenzione alla campagna per la Corte Penale Internazionale, durante la quale il partito ha saputo ottenere, per la prima volta nella storia della sua esistenza in Unione Sovietica e in Russia, una grande ed importante risposta da parte di parlamentari, sindaci, governanti e personalità: più di 300 firme all'appello alle Nazioni Unite, fra cui quelle di 57 membri della Duma di tutti i gruppi e schieramenti, 1 senatore, 17 sindaci, 4 governatori, due ministri.

Abbiamo ricevuto risposte positive, richieste di maggiori informazioni sulle nostre attività, inviti a visitare le loro città da parte delle amministrazioni di poco meno di una ventina di città, dal confine estone all'oceano Pacifico, dal Circolo Polare al Caucaso. Solamente la mancanza di mezzi finanziari ci ha impedito di sviluppare questo risultato, visitando tali città ed organizzando incontri con sindaci e assemblee pubbliche.

Tra le personalità che hanno dato risposta positiva alle nostre iniziative menzioniamo Garry Kasparov, campione mondiale di scacchi, Rolan Bykov, produttore cinematografico, Aleksandr Jakovlev, presidente della compagnia televisiva Ostankino, Adolf Shaevich, Rabbino capo della Russia, gli accademici Stanislav Shatalin, Igor Bestuzhev-Lada, Jurij Afanasjev, lo scrittore Lev Timofeev. Tra le principali ragioni del successo va annoverata una notevole attività " tecnica" - ma non sappiamo davvero se questa diminutiva qualifica sia giusta! - svolta nel quadro della campagna sulla Corte Penale dalla sede di Mosca, dal quale sono stati spedite più di 3000 lettere e fax, accompagnati da centinaia di telefonate, con l'accurata inserzione di ciascuna risposta nei database dei computer.

In Russia, il partito non si è limitato a promuovere le principali campagne, quelle indicate dal Congresso e dal Consiglio Generale; esso è intervenuto e ha dato risposte pronte e adeguate a numerose fra le sfide politiche in atto nel paese. Valga quanto è accaduto in occasione del provvedimento sull'AIDS adottato nell'autunno 1994 dalla Duma. Sancendo l'obbligo del test Hiv per ogni straniero che varcasse le frontiere, il provvedimento veniva denunciato come una aperta violazione dei diritti umani sia da parte dei mass-media russi che, generalmente, nel mondo. Il partito dava il via a tempestive iniziative: l'appello ai militanti ma anche ai lettori del giornale Izvestija perché spedissero telegrammi al Consiglio della Federazione e l'organizzazione di una manifestazione di fronte alla Camera Alta del Parlamento Russo il giorno del dibattito sul provvedimento. La manifestazione veniva sconvocata all'ultimo momento perché il Consiglio Federale decideva di non discutere il provvedimento e di sottometterlo di

rettamente al Presidente, il quale in seguito ha fatto ricorso al suo potere di veto.

Un'altra campagna, ripresa nel 1994 dopo le lotte del 1991, è stata quella per il diritto al rifiuto del servizio militare. Tutt'ora in Russia tale diritto, benché sancito dalla Costituzione del dicembre 1993, non ha una vera incarnazione giuridica. Nel luglio 1994 i radicali di Russia, in contatto col Comitato delle Madri dei Soldati, hanno elaborato un Memorandum di critiche al progetto di legge sull'obiezione di coscienza avanzato dalla Duma. Gli emendamenti proposti dal Partito radicale e dal Comitato delle Madri dei Soldati prevedono che il servizio civile alternativo non sia più lungo del servizio militare; che nessun esame possa essere istruito per accertamenti sui credenti; che venga concessa, quando desiderata, la possibilità di espletare il servizio civile alternativo volontario fuori del territorio della Federazione Russa. Il disegno di legge è stato approvato dalla Duma nel dicembre 1994 (e questo noi lo consideriamo un fatto comunque positivo) ma esso non fornisce risposta ai tre quesiti. Per es

sere definitivamente adottato come legge deve tuttavia superare almeno altre due letture, il che ci consentirà ulteriori iniziative.

In senso lato, possiamo annotare il 1994 e l'inizio del 1995 come un periodo durante il quale in Russia, dentro un contesto politico e organizzativo totalmente nuovo, il partito ha rinnovato la sua presenza antimilitarista - con l'iniziativa per il progetto di legge sull'obiezione di coscienza, la reazione allo scoppio della guerra in Cecenia - nella prospettiva della massiccia campagna (inclusa la iniziativa contro la coscrizione) che sarà possibile lanciare nel 1995 se solo il partito troverà la possibilità di proseguire le sue attività.

Nel corso dell'ultimo anno e mezzo il partito ha organizzato con successo numerose manifestazioni di strada in Russia, soprattutto a Mosca (vedi elenco in nota). Quasi tutte ottenevano un buon seguito sulla stampa e sulla TV russe, innanzitutto grazie ad un ben organizzato lavoro sull'informazione. I comunicati stampa sono stati automaticamente faxati a più di 200 organi d'informazione russi e stranieri (ultimamente per l'invio dei comunicati stampa i militanti in Russia hanno iniziato a servirsi di tecnologie più avanzate - Internet e-mail e servizio Sprint fax). Ottime relazioni sono state stabilite con le agenzie di notizie Interfax, Express-Khronika, Radio Liberty, Tele Russia, Tele 2x2, Open Radio.

La scarsità o, meglio, l'assenza di investimenti, eccettuate somme minime, in particolare dopo il giugno 1994, ci ha inoltre costretti a rinunciare a molte iniziative. Tutte le attività in Russia erano coordinate dall'ufficio di Mosca, dove - dopo la riorganizzazione del dicembre 1993 - lavoravano solo 3 persone, che solo nel maggio successivo sono diventate 4. Per capire come i nostri compagni lavorano, segnalo che alla sede di Mosca ci sono in tutto 3 computers, una fotocopiatrice e un fax.

Per tutto l'anno e mezzo, il partito non ha condotto una forte campagna di iscrizioni in Russia. Purtroppo, a causa della mancanza di denaro, solo tre Assemblee pubbliche hanno potuto essere indette in città russe (vedi nota).

E tuttavia, pur senza una forte campagna, quasi 250 persone erano iscritte al partito in Russia alla fine del 1994. Per i numeri, siamo assai distanti dai 972 nel 1993 o dai 2859 del 1992, ma la "qualità" della nostra presenza in Russia è stata nel 1994 assai più rilevante. Il sensibile aumento della quota minima di iscrizione ha dato alle entrate un valore un po' più che simbolico, anche se il divario tra i costi dell'iniziativa politica e le quote rende ancora impossibile l'autofinanziamento. Un cambiamento di prospettiva potrebbe venire dalla crescita del fronte antimilitarista, potenzialmente, nelle attuali circostanze, di "massa".

Un evento importante è stata la pubblicazione sul giornale Izvestija, il 2 dicembre 1994, della pagina informativa. Era il primo passaggio del partito su un giornale russo, dopo la Komsomolskaja Pravda nel 1991 e 1992. Ma, contrariamente alle precedenti, quest'ultima è stata una buona opportunità per presentare all'opinione pubblica russa (compresi i decision makers, la principale categoria di lettori della Izvestija) non soltanto il profilo generale del Partito radicale ma anche una informazione circa alcuni risultati concreti raggiunti in Russia (principalmente all'interno della campagna per il Tribunale Internazionale). Più di 150 risposte sono state raccolte a seguito di quella pubblicazione.

Nel dicembre 1993 abbiamo potuto portare una importante delegazione russa, comprendente anche Anatolij Pristavkin, presidente della Commissione sull'Amnistia presso il Presidente Russo ed uno dei maggiori oppositori della pena di morte, alla Conferenza di fondazione di "Nessuno tocchi Caino" a Bruxelles. Ad aprile di quest'anno una larga delegazione russa ha partecipato a Roma alla marcia di Pasqua e all'incontro del Consiglio Esecutivo di "Nessuno Tocchi Caino". A maggio, due membri della Duma - Irina Khakamada e Vladimir Lepekhin - hanno partecipato alla conferenza di Roma per la denuncia delle Convenzioni ONU in materia di droga.

Oltre ad organizzare le campagne politiche e le varie iniziative, la sede di Mosca svolge anche un considerevole lavoro "day by day". Nel 1994, 9 numeri di Transnational sono stati tradotti, stampati e spediti in Russia, Bielorussia e Centro-Asia, per un totale di più di 40000 copie. L'importanza di tale strumento di informazione per l'organizzazione e la mobilitazione è stata enorme, specialmente nelle condizioni dell'ex Unione Sovietica dove - mancando una Radio Radicale e essendo ancora assai limitata la presenza di computers e modem ad uso privato - costituisce il solo legame tra il partito e i suoi iscritti o simpatizzanti.

Registrare le iscrizioni, spedire le tessere o altre comunicazioni agli iscritti, rispondere alle lettere che giungono ogni giorno fanno la quotidianità della sede. Purtroppo, sempre a causa degli stessi problemi finanziari (che impediscono innanzi tutto le traduzioni) è stato impossibile fornire ad Agorà una maggiore informazione sulla vita politica ed una efficace rassegna stampa dei mass-media russi. Questo lavoro è però molto importante e dovrebbe essere ripreso (per esempio, sulla base delle agenzie Interfax del servizio di rassegna stampa di Russika) appena ci sarà consentito.

Oltre alla sede di Mosca, il partito ne ha una più piccola a San Pietroburgo, con solamente una persona part-time ed una rete di circa 10/15 attivisti costanti, disponibilità di fax e computer (senza modem). Possiamo fare conto anche su una rete di circa 50 punti di riferimento in diverse città - per prime a Voronhez, Tula, Orehovo-Zuevo, Novgorod, Lesosibirsk (regione del Krasnojarsk), con i quali la sede di Mosca rimane più o meno in costante contatto telefonico o postale; ma in definitiva la nostra presenza in Russia è concentrata a Mosca e - un po' meno - a San Pietroburgo.

4. UCRAINA

La sede radicale di Kiev esiste da marzo 1992. E' la seconda, dopo quella di Mosca, stabilita nell'ex-Unione sovietica, e deve occuparsi anche di altri paesi. In questo senso, la sede di Kiev assume un ruolo più o meno similare a quello delle sedi di Sofia, Zagabria, Budapest e Bruxelles. Nella sua sfera di "competenza" entrano l'Ucraina, la Moldavia e una parte degli stati baltici. In un senso tecnico, Kiev è anche la sede principale sul territorio dell'ex-Unione sovietica: per esempio, la registrazione su computer dei dati relativi agli iscritti e la loro trasmissione via Agorà al Tesseramento sono compiuti da qui. Numerose spedizioni partono da Kiev verso i Paesi non soltanto di sua competenza ma anche verso Russia, Transcaucasia, Asia centrale - prima di tutto perché le spese postali sono meno elevate. La relativamente buona comunicazione telematica tra Mosca e Kiev rende possibile la distribuzione del lavoro tra i due centri. Le strutture tecniche comprendono due computers ed un fax. Dopo il ritorno di

Nikolaj Khramov da Kiev a Mosca in marzo 1994, collaborano in permanenza e a tempo pieno tre persone mentre un'altra si occupa della gestione dei dati su computer e delle traduzioni .

La sede di Kiev è rilevante non solo perché è necessario avere un recapito in un paese grande come l'Ucraina, che conta centinaia di iscritti attivi, o perché è "ufficio postale poco costoso". La situazione politica nell'ex Unione sovietica rende inopportuno organizzare e condurre attività politiche, anche quelle radicali, in altri paesi della CSI (per non parlare degli Stati baltici) partendo da Mosca. Kiev é una località idonea, "neutra", dalla quale si possono contattare quasi senza problemi anche Tallinn e Riga, Paesi nei quali per un deputato ricevere una corrispondenza in russo, con indirizzo di Mosca per il ritorno postale, potrebbe perfino comportare difficoltà per la sua carriera politica.

Sfortunatamente, le condizioni in cui versa l'Ucraina nell'ultimo anno e mezzo non hanno aiutato a sviluppare le nostre iniziative politiche. La catastrofica situazione economica, l'impoverimento della popolazione dovuto all'assenza di riforme, il rude inverno 1993-94 senza rifornimenti di gas russo, la "guerra fredda" con la Russia provocata dalle richieste russe sulla Crimea e il disaccordo sulla spartizione della flotta del Mar Nero, la conflittualità tra il presidente ed il parlamento che ha paralizzato il parlamento ucraino dall'estate 1993 fino alle ultime elezioni del marzo 1994, le elezioni presidenziali in giugno-luglio 1994 sono state circostanze, a volte drammatiche, che hanno impedito agli ucraini di interessarsi a problemi "distanti" come possono essere considerati - da chi le vive e le subisce - il conflitto jugoslavo, la campagna per la Corte criminale internazionale, la moratoria delle esecuzioni capitali.

Malgrado questo, il partito in Ucraina è stato attivo e successi sono stati raggiunti nelle campagne politiche "generali". Da giugno 1993 fino all'ultima estate si è sviluppata, in Moldavia, una iniziativa contro la pena di morte nel contesto dell'elaborazione della nuova Costituzione, che era coordinata da Kiev. Una delegazione ucraina partecipò alla marcia di Pasqua a Roma. Valerij Ivasjuk, presidente del Comitato nazionale anti-Aids dell'Ucraina e membro del partito, ha preso parte attiva alla Conferenza sulle convenzioni droghe delle Nazioni Unite di Roma, nel maggio scorso.

In Ucraina, come in Russia, l'obiettivo principale della nostra iniziativa politica nel 1994 è stata la campagna per l'istituzione della Corte Penale internazionale, nel corso della quale abbiamo avuto risultati senza precedenti. L'appello alle Nazioni Unite è stato firmato da 23 parlamentari di quasi tutti gruppi, dai sindaci di Kiev e Kharkov, da numerosi Vip, tra i quali Boris Paton, presidente dell'Accademia nazionale delle scienze, da Bogdan Benjuk, attore, da Jurij Hudjakov, vice presidente dell'Unione degli architetti ucraini. La campagna ha contribuito a presentare l'immagine del partito ai nuovi eletti del Consiglio Supremo e a stabilire ottimi legami con loro - per esempio con Sergej Golovatyj, membro della Commissione Affari Esteri del Consiglio supremo e Presidente della Commissione Diritto, che si é iscritto al Partito per il 1995, e con il vice ammiraglio Boris Kozhin, già comandante della marina militare ucraina e attualmente parlamentare.

Parecchie azioni e manifestazioni positive - sempre ben coperte dalla stampa - sono state organizzate in Ucraina in questo periodo. Ne leggerete in nota l'elenco.

Tutte, anche qui, hanno avuto una buona eco nella stampa. In generale, i rapporti del partito con i mass media (prima di tutto con l'agenzia stampa UNIAR e la TV UNIAR, l'agenzia stampa UNIAN, ed il giornale "Vseukrainskie Vedomosti") possono essere definiti come molto buoni. La ragione - a parte la distribuzione regolare di comunicati stampa - risiede anche negli ottimi rapporti personali tra radicali di Kiev e giornalisti di prima linea, tra i quali molti sono anche iscritti.

Cinque assemblee pubbliche radicali - più che in tutti gli altri CSI e stati baltici insieme - sono state organizzate in Ucraina nel 1994. A gennaio, se ne sono tenute tre: l'8 a Kiev, con la partecipazione di Bogdan Lisovich, vicedirettore dell'ufficio ONU a Kiev, il 15 a Dnepropetrovsk, il 22 a Kharkov, ognuna con partecipanti da 50 a 100. Un'altra assemblea venne tenuta a Kiev l'11 maggio, forte di quasi 100 partecipanti. Un piccolo incontro é stato organizzato il 10 settembre a Feodosia, in Crimea. Solo per l'assenza di fondi non é stato possibile continuare ad organizzare riunioni nelle città ucraine. Queste assemblee hanno rappresentato quasi l'unico modo per raccogliere iscrizioni nel 1994: da 5 a 15 ciascuna. E' una delle ragioni della diminuzione degli iscritti nelle regioni ex-sovietiche: 144 nel 1994 invece dei 644 nel 1993 e dei 1113 nel 1992. Non è stato possibile promuovere pubblicità sui giornali, a parte quella che apparve sul "Kievskie Vedomosti" a metà dicembre 1994, nell'ambito dell'operaz

ione "New York, New York".

La sede di Kiev è l'unica in Ucraina. E' frequentata da circa 15 militanti attivi che partecipano più o meno regolarmente alle attività. C'è un'utile rete di militanti e di "punti di riferimento" - più di 60 - attraverso il paese, sparsi in ciascuna delle sue 26 regioni, in quasi tutte le grandi città: Kharkov, Odessa, Lvov, Dnepropetrovsk, Donetsk, Zaporozhje, Zhitomir, Sumy, Ivano-Frankovsk, etc... Questa rete può essere considerata come una delle migliori dei paesi dell'ex-Unione sovietica: si tratta di amici, di iscritti, di militanti capaci (come a Dnepropetrovsk) di promuovere proprie iniziative, in collaborazione con Kiev. La ragione principale di questa positiva situazione sta nel lavoro considerevole compiuto dal 1992 e 1993 fuori dalla capitale, con decine di assemblee in varie città.

Per concludere. I risultati politici raggiunti in Ucraina nel 1994 non sono meno importanti e significativi di quelli conseguiti in Russia, e solo la drammatica carenza di fondi non consente anche qui al partito di arrivare ad altri risultati. Per esempio, è stato impossibile organizzare una qualunque attività dopo giugno 1994, e in particolare di promuovere iniziative contro la pena di morte nel contesto dell'elaborazione del nuovo Codice Penale ucraino.

5. PAESI BALTICI

(Estonia, Lettonia, Lituania)

In un contesto che ha visto la richiesta da parte degli Stati baltici di aderire alla NATO, l'intensificarsi delle loro relazioni con gli Stati nordici e l'ingresso di Finlandia e Svezia nell'Unione Europea, prende sempre più corpo e visibilità un'area geo-politica baltico-scandinava inserita nelle istituzioni occidentali, in cui l'Estonia, la Lettonia e la Lituania svolgono parzialmente ancora - per motivi storici, economici e sociali - un ruolo di ponte con la CSI ed in particolare con la Russia. I problemi non esauriti della transizione dall'economia sovietica a quella di mercato, la grave situazione ambientale, l'eredità di infrastrutture e normative inadeguate e la presenza di forti minoranze slave rendono i Paesi baltici area di delicato equilibrio e di sfida per una rapida, fortemente voluta e necessaria integrazione europea.

E' soprattutto il tema della tutela dei diritti delle minoranze che ha visto impegnato negli ultimi anni il partito. Se la Lituania dopo la restaurazione dell'indipendenza stabiliva il riconoscimento della cittadinanza per i residenti non autoctoni, analogo diritto non è stato garantito se non per un ristretto numero di persone in Estonia e in Lettonia; con la conseguenza di tensioni fra le componenti della popolazione e talvolta di attriti con la Federazione Russa. Il completamento del ritiro delle truppe russe ha contribuito a depotenziare la crisi, che tuttavia non è ancora risolta.

Per favorire il dialogo fra le parti e sostenere i diritti della persona e delle minoranze sanciti dalle Convenzioni internazionali, il partito aveva organizzato con successo nel 1993, dopo diverse riunioni preparatorie, una Conferenza internazionale a Tallinn. La successiva crisi finanziaria del partito ha portato a rimandare la Conferenza di aggiornamento e di sviluppo di quel lavoro, prevista a Riga per l'autunno del 1994 e la cui attualità resta pienamente confermata. I conflitti interetnici in corso nell'Europa post-comunista, le esplosioni di violenza ai confini della Russia, le questioni irrisolte sullo status della Carelia o del territorio di Kaliningrad-Koenigsberg, sono di avvertimento a dedicare il massimo dell'attenzione e dell'impegno a livello internazionale per la soluzione pacifica delle controversie; e nell'area baltica il Partito radicale ha maturato l'esperienza e le relazioni necessarie a poter svolgere un ruolo in questo senso.

Complessivamente in Estonia, in Lettonia ed in Lituania si sono iscritte al Partito radicale un centinaio di persone, con un calo - analogo a quello avutosi in altri Paesi - nel corso del 1994. Maggiori difficoltà, proprio per la nostra attenzione ai problemi delle minoranze, si sono avute nello stabilire rapporti - pure faticosamente acquisiti - con i nuovi parlamentari in Estonia ed in Lettonia, mentre in Lituania un nucleo di iscritti che comprende sette deputati, fra cui il ministro della Difesa Linas Linkevicius ed altre personalità, ha consentito di mantenere una presenza attiva e di diffondere con successo le nostre iniziative transnazionali anche nell'anno della riduzione delle spese, con il solo costo di un modesto ufficio di riferimento a Vilnius e di poche riunioni fra gli iscritti nelle tre capitali.

Un particolare ringraziamento rivolgo al filosofo Iokubas Minkevicius, membro dell'Accademia delle Scienze della Lituania, iscritto dal 1992, il cui impegno di divulgazione dei temi, delle proposte e dei metodi del partito si è manifestato anche quest'anno con la pubblicazione di ampi articoli sulla stampa lituana.

6. PAESI CAUCASICI

(Armenia, Azerbagian, Georgia)

Il lavoro svolto nelle repubbliche caucasiche ha dato risultati non negativi, forse anche soddisfacenti se consideriamo che abbiamo utilizzato ed utilizziamo tuttora pochissime risorse umane e finanziarie, che le sedi non sono dotate di computer e modem, che non spendiamo praticamente nulla per iniziative politiche, avendo una disponibilità mensile di 50 dollari a Baku, 25 ad Erevan e Tbilisi, sufficienti appena per le attività di mero carattere tecnico.

Tutte le campagne avviate in questi tre paesi (inserzioni sui giornali, interviste televisive e radiofoniche, ecc.) sono state rese possibili grazie all'attività dei militanti. Non vi è però dubbio che si è manifestato interesse tra i politici e che, anche con investimenti tanto ridotti, l'anno scorso abbiamo comunque ottenuto buoni risultati con la campagna per la Corte Penale Permanente, raccogliendo firme di parlamentari e di personalità sugli appelli. Così come possiamo considerare successi importanti che si sia iscritto al partito Arif Ragim-Zade, vice-presidente del Parlamento azero e ascoltato consigliere del Presidente della Repubblica Heydar Aliev, e che il presidente georgiano Eduard Shevardnadze abbia inviato una lettera all'"International Law Committee" a sostegno dell'iniziativa italiana all'Assemblea Generale delle NU.

Le iscrizioni, invece, sono state quest'anno molto inferiori agli anni precedenti, sia in Armenia che in Georgia, mentre l'Azerbaigian confermava i propri dati. Anche se, sicuramente, non costituisce l'unica spiegazione, dobbiamo segnalare il rapporto assai alto tra la quota di iscrizione (3 dollari) e il reddito mensile di questi paesi, disceso in Georgia a soli 40 cent. mentre in Armenia è stato di poco superiore. In quest'ultimo paese abbiamo anche incontrato problemi di comunicazione, dovuti alla quasi totale mancanza di elettricità che ha reso quasi impossibili i collegamenti telefonici e paralizzato ogni lavoro di coordinamento.

I tre paesi sono, nella loro diversità, tutti caratterizzati da gravi crisi politiche. Per capirne i possibili sviluppi sono necessari una attenzione costante, un lungo e difficile lavoro di contatti e di aggiustamento di giudizi. Quest'area è, in ogni caso, geopoliticamente importante perché dai processi di ristabilimento della pace in corso (in Abkhazia, in Nagorno-Karaback) e dalla soluzione positiva o negativa dei conflitti, in primo luogo quello in Cecenia, dipenderanno il futuro della intera regione, e anche quello della Russia. Anche qui, bisogna renderci conto che nessuno può pensare di dirigere il lavoro politico in queste repubbliche da Mosca o da Kiev; una presenza in loco, se ne avessimo la forza, certo consentirebbe notevoli risparmi. Bisognerebbe essere in grado di creare in queste repubbliche almeno dei punti di riferimento. Siamo ben lontani da tale possibilità.

Per quanto riguarda la parte della mozione del Consiglio Generale di Sofia che suggeriva l'apertura di "centri di coordinamento parlamentare radicale" potremmo e dovremmo andare oltre la fase di esplorazione realizzata quest'anno, e passare alla fase operativa (istallazione di computer, modem ed Agorà) cominciando dal parlamento azero, che ci ha già messo una stanza a disposizione.

Iniziative, progetti possibili

Il lavoro sulla Corte penale internazionale è qui di particolare importanza, e riscuote un forte interesse tra i politici caucasici, specialmente in Azerbagian e Georgia. La decisione dell'OCSE (ex CSCE) di inviare forze internazionali nel Nagorno è di gran significato, anche perché è la prima volta che una forza internazionale sarà presente sul territorio dell'ex Unione Sovietica. Occorrerebbero iniziative per dare un seguito alla deliberazione. Per la campagna sulla abolizione della pena di morte, è essenziale promuovere un confronto pubblico soprattutto in Georgia dove, nel quadro del dibattito sulla nuova Costituzione, il tema sarà comunque all'ordine del giorno.

Infine, anche perché riguarda tutte le popolazioni della regione caucasica, dovremmo impegnarci sulla questione della pericolosissima centrale nucleare che le autorità armene, in mancanza di altre possibilità di produrre energia, stanno per riaprire. Bisognerebbe coinvolgere, oltre ad Armenia, Azerbagian e Georgia, politici ed esperti di Russia, Ucraina ed Europa occidentale.

7. I PAESI EURO-ASIATICI

(Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan)

In quest'area il Partito radicale non ha mai avuto un alto numero di iscritti. Dal 1992 ad oggi le iscrizioni restano costanti. Per la prima volta l'anno scorso, però, sulla campagna per la Corte Penale internazionale si è avuto un forte impegno sia da parte di un nutrito numero di parlamentari del Kazakhistan sia anche della stessa signora Otunbaeva, ministro degli esteri del Kirgizistan.

La regione è lacerata dalla guerra civile in Tadgikistan e per la presenza nel Nord-Kazakhistan di movimenti separatisti russi, i quali chiedono che questa parte del paese sia distaccata e riunita alla Russia. Questi movimenti hanno avuto l'adesione dello scrittore Alexander Soljenitsin.

Se la nostra situazione economica-finanziaria dovesse ristabilirsi, l'investimento di energie e risorse in questa zona sembra opportuno. Il coordinamento da Mosca non consentirebbe, lo abbiamo imparato anche qui, di incidere su realtà così lontane e diverse.

8. I PAESI DELL'UE

La situazione del partito in questi paesi è davvero contraddittoria. Dal 1979, anno delle prime elezioni europee che hanno visto l'elezione di tre deputati radicali, l'attività "non italiana" del partito ha avuto l'Europa occidentale, ed in particolare il Belgio, la Francia e la Spagna, come suo riferimento principale. Dal concepimento della trasformazione del PR in partito transnazionale - 1985 - per i primi tre o quattro anni è da Bruxelles che sono partite campagne di mobilitazione e iscrizione che hanno raggiunto risultati importanti in quei paesi e in Portogallo in particolare. Purtuttavia, nonostante in alcuni paesi, come la Spagna, si siano avuti momenti di interesse molto forte da parte della stampa, nonostante l'insediamento di compagni e militanti in parecchie città importanti, il partito non è mai decollato come sarebbe stato sperabile e necessario, sia per motivi politici che finanziari. La sordità delle classi dirigenti e politiche dell'Europa occidentale, sordità che verifichiamo continuamente

ai livelli istituzionali, determina disattenzione verso le politiche transnazionali e del diritto, e produce devastanti effetti di chiusura, politica ma anche culturale.

Così, con il Congresso di Budapest, decidevamo di privilegiare il fronte dell'Est, mantenendo presso la sede del PE a Bruxelles un centro di Coordinamento, peraltro in condizioni rese difficili dalla dispersione dei deputati radicali della legislatura 1989-1994, la prima in cui il P.R. non si presentava in quanto tale alle elezioni - in due gruppi politici distinti. Il Centro ha potuto tuttavia fornire un valido supporto tecnico-operativo nella fase della gestione "quadrumvirale" del Partito. Tale situazione si è poi sensibilmente modificata con il ritorno alla piena operatività del Partito, con la decisione, presa a Sofia, di "aprire" il fronte occidentale, e con l'insediamento del presidente del Consiglio generale del P.R. a Bruxelles, che determinava un rafforzamento, seppur limitato, del partito grazie all'utilizzazione delle risorse tecniche a disposizione degli eurodeputati radicali.

E'stata così potenziata la struttura di reperimento e gestione degli indirizzari relativi ad alcuni paesi dell'Unione europea (Benelux, Francia, Germania, Portogallo) e tale migliorata disponibilità ha consentito di curare direttamente da Bruxelles realizzazione, stampa e spedizione dell'Agenzia "Transnational". Una struttura simile è stata creata anche a Madrid, per assicurare analoghi servizi per l'area spagnola. A partire da questi dati tecnico/organizzativi sono stati avviati contatti e raccolte di adesioni, in particolare di parlamentari, sulle campagne del partito.

Abolizione della pena di morte

Sono state raccolte numerose adesioni sotto gli appelli per la moratoria. In Belgio, ad iniziativa del deputato ecologista Henri Simon, un gruppo di parlamentari ha presentato una mozione che chiedeva l'impegno del Belgio a sostenere l'iscrizione all'ordine del giorno dell'Assemblea delle NU. In Spagna si sono pronunciati diversi parlamentari mentre, per l'occasione, il senatore Bolinaga, del PNV, ha presentato una proposta di abolizione della pena di morte dal Codice militare che è stata approvata sia dal Senato che dal Congresso.

A Bruxelles, nel dicembre 1993, ha avuto luogo il congresso di fondazione della Lega Internazionale per l'abolizione della pena di morte.

Vari sindaci hanno aderito alla Marcia di Pasqua del 1994, in particolare dalla Spagna, tre di essi (Zaragoza, Valencia e Gernika) participandovi personalmente.

Tribunale ad hoc

Un centinaio di firme di parlamentari belgi, francesi, lussemburghesi, tedeschi, britannici, irlandesi, spagnoli, portoghesi, svizzeri, finlandesi e svedesi è stato raccolto dalla sede di Bruxelles. Hanno depositato mozioni il deputato belga Jean-Pierre De Clippele, liberale, e il senatore belga Paul-Joseph Benker, ecologista, mentre hanno presentato interrogazioni la deputata irlandese Nora Owen, il deputato svizzero Bernard Comby, la senatrice portoghese Teresa Santa Clara Gomes e i parlamentari britannici Lord Hilton e William Powell. In Spagna sei militanti hanno digiunato per diversi giorni mentre veniva raccolta una cinquantina di firme di personalità. La parlamentare Pilar Rahola, del partito "Esquera Republicana de Catalunya", depositava una mozione al Parlamento spagnolo, successivamente approvata.

Nel marzo 1994 mentre decine di radicali digiunano, parecchi firmatari prendono anche l'iniziativa dell'invio fax alla sesta Commissione delle NU.

Nel maggio 1994 si apre una forte campagna di informazione e poi di mobilitazione dei parlamentari. Nella sua Sessione di novembre, il Parlamento europeo approvava a grandissima maggioranza una importante mozione per la convocazione nel 1995 della conferenza istitutiva.

Antiproibizionismo

Una Associazione radicale antiproibizionista contribuisce, prendendo contatti con personalità ed intellettuali, alla riapertura in Spagna del dibattito sulla legalizzazione. El Pais pubblicava un articolo del deputato Luis Yanez Barnuevo, che aveva appena partecipato al convegno sulla denuncia delle Convenzioni ONU. E' la prima volta che un parlamentare ed esponente di primo piano del PSOE dichiara pubblicamente la scelta antiproibizionista.

In Portogallo due iscritti, Luis Mendao e Luis Andrade, creano nella primavera 1994, assieme con i deputati socialisti Eurico Figuereido e Joao De Menezes Fereira, una associazione antiproibizionista (SOMA).

Lo studio sulla denuncia delle Convenzioni viene distribuito ad oltre mille parlamentari europei (oltre che - ricordo - nord- e sudamericani) membri delle Commissioni giustizia o sanità dei vari parlamenti. Con poche eccezioni, anche in Portogallo e in Spagna la stragrande maggioranza dei parlamentari non è ancora pronta a schierarsi apertamente per la legalizzazione e regolamentazione delle droghe.

Questione Bosnia

Vari documenti sono stati presentati al Parlamento europeo sulla questione Bosnia, e tutti sono stati bocciati. Ultimo esempio, un emendamento presentato nella Sessione del dicembre scorso, a prima firma Marco Pannella, che recitava: "Il Parlamento europeo non sanzionerà in alcun modo un accordo politico - chiunque ne sia il promotore - fondato sulla spartizione della Repubblica, internazionalmente riconosciuta, di Bosnia-Herzegovina, e quindi sul riconoscimento in diritto dei risultati della pulizia etnica", e che è stato respinto con 198 voti contro 198 grazie, una volta di più, al gruppo socialista.

In Spagna viene pubblicato un articolo di Rosa MONTERO, che difende l'iniziativa dei radicali spagnoli impegnati nella raccolta di firme contro la divisione di Sarajevo. A seguito dell'articolo, oltre 6.000 firme pervengono alla sede del PR a Madrid.

Federalismo

Parallelamente al riallaccio di rapporti con i federalisti europei attraverso la partecipazione a incontri, convegni e congressi (seminario di Ventotene del settembre 1994, Congresso dell'Unione Europea Federalista a Bocholt in Germania del novembre 1994, ecc.) vengono aperti sul sistema telematico Agorà una Conferenza e un Archivio "federalismo", perché siano punto di incontro e di riflessioni utile al rilancio dell'integrazione federale dell'Europa. I contenitori telematici si dimostrano valido strumento di informazione e di confronto in particolare in vista della conferenza intergovernativa del 1996 sulla revisione dei Trattati dell'Unione europea, a partire della pubblicazione, in agosto 1994, del documento del gruppo parlamentare tedesco CDU-CU.

Non si può non ricordare infine, che al PE, con le ultime elezioni, si sono aperte prospettive importanti con la costituzione di un gruppo parlamentare "radicale", in particolare con i tredici eletti della lista del Mouvement des Radicaux de Gauche - poi chiamatosi "Radical" - condotta da Bernard Tapie e da Jean François Hory, vicepresidente dell'Assemblea dei parlamentari iscritti al partito radicale.

L'esistenza di tale gruppo, presieduto da Catherine Lalumière, ex segretaria generale del Consiglio d'Europa, può consentire infine il pieno sfruttamento delle potenzialità offerte dal Parlamento europeo, che in passato la collocazione dei deputati radicali in gruppi disparati rendeva disagevole. La mia relazione non è la sede per trattare più compiutamente questo aspetto, per certi versi cruciale rispetto alle scelte che il nostro congresso è chiamato a compiere.

Mass media

Salvo pochissime eccezioni, i mezzi d'informazione dei paesi dell'UE non hanno mai registrato iniziative del Partito radicale. Nel migliore dei casi - per esempio sulla campagna per la abolizione della pena di morte - si è avuta qualche breve notizia sull'evento, senza pero' specificare che alla sua origine c'era il PR. Tra le eccezioni, il Portogallo, dove diversi giornali hanno segnalato le iniziative del PR e della LIA per la denuncia delle convenzioni internazionali. Significativo, l'articolo apparso su El País nel dicembre '94, che registrava l'iniziativa dei radicali spagnoli per l'appello su Sarajevo.

9. NEW YORK, L'ONU, GLI STATI UNITI

Il progetto di Sofia proponeva azioni politiche che superavano i limiti temporali della annualità e uscivano dai confini "europei"; La conquista di un nuovo diritto internazionale diventava il minimo comune denominatore delle nostre battaglie e delle idee radicali: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite l'appuntamento necessario al quale le nostre proposte dovevano tendere.

Di qui la necessità di una qualche presenza a New York. Dapprima poco più di una "antenna", poi con gli obblighi maggiori di una sede che offrisse la necessaria copertura di più iniziative. In una dimensione di certo insufficiente alle necessità e inadeguata in termini di esperienza, con il dubbio di non essere in condizioni di impegnare il Partito in un nuovo fronte ONU o addirittura - si cominciò a pensare - USA.

In previsione della pubblicazione di alcune pagine pubblicitarie sul New York Times e per organizzare un appoggio all'attività all'ONU sulle mozioni sulla pena di morte e sul tribunale Internazionale, a partire dal mio incontro con il Segretario dell'ONU Boutros Ghali, nel settembre era aperto un ufficio di fronte alle Nazioni Unite.

Fu possibile così pubblicare la doppia pagina "May Day May Day America!" Alcune centinaia di americani scrissero per informazioni, alcuni inviarono contributi in denaro anche significativi, qualcuno si iscrisse. Nei mesi successivi uscivano, sempre sul NYT, altre due pagine: a fine ottobre con l'appello per la creazione del Tribunale permanente e in novembre con quello per la moratoria sulle esecuzioni capitali. I risultati ricalcarono, sostanzialmente, la prima uscita.

Non venivano raggiunte, per questa via, che un milione di persone, cifra significativa ma certo non rilevante nella realtà statunitense. Ma, al di là anche del prestigio del NYT, pure importante, le pagine creavano interesse in determinati ambienti provocando, anche se in misura minima, altri articoli sui giornali e presenza sui media, consentendo di presentare il partito in un mondo completamente diverso dallo scenario europeo. Esse sono state e sono tuttora un buon passaporto per introdurre idee e iniziative in America. Ma sopratutto hanno rappresentato uno strumento di pressione efficace all'interno delle Nazioni Unite e presso le Missioni diplomatiche.

L'insediamento a New York assumeva un carattere continuativo dalla primavera del 94 e il primo impegno (come ho raccontato nelle pagine precedenti) era di tallonare i lavori della VI Commissione Onu mentre si stava occupando della questione del bilancio del Tribunale ad hoc.

L'impatto con il mondo politico americano

Nei mesi successivi si avviavano i primi contatti con il mondo politico e la società civile americana, e venivano effettuati i primi mailing con l'invio della newsletter "Transnational" e la costruzione di un indirizzario adeguato. Si avviavano rapporti con associazioni non governative (NGO) presso l'Onu ed erano sviluppati i primi incontri con partiti politici e Associazioni per i diritti civili. Furono, inevitabilmente, passi difficili; non era facile rompere l'isolamento determinato dalla assoluta novità della nostra presenza, dalla diversità sostanziale del mondo politico americano dal diverso linguaggio politico. Non marginale era persino l'ostacolo del diverso valore semantico del termine "radicale" e la non corrispondenza formale e di significato del termine "partito" nei due mondi politico-culturali.

Riconoscimento ONU del Partito

A maggio vengono seguite le complicate procedure per la richiesta di riconoscimento del Partito radicale da parte delle Nazioni Unite in ambito ECOSOC, in qualità di Organizzazione Internazionale. Abbiamo chiesto lo status di massima categoria, che ci consentirebbe di avanzare interventi propositivi, anche se minimi. L'esame della richiesta era stabilito prima per febbario e poi successivamente rinviato a maggio del '95. Ci siamo, dunque, o quasi. Una costante opera di lobby è stata svolta nei mesi scorsi, seppure in carenza dell'insediamento della Commissione preposta al riconoscimento, per superare alcune difficoltà legale alla specificità della nostra forma costitutiva e alla possibile opposizione, all'interno della Commissione, di paesi come Cina e Cuba .

Sviluppo e aiuti al Terzo Mondo

Una utile ed importante attenzione sulle nostre attività si è avuta a partire dalla mia presenza fra gli "Expert Witness" sullo sviluppo e sugli aiuti al Terzo Mondo convocati dalle Nazioni Unite in giugno. Ho potuto presentare, a personalità di governo e leaders politici americani e internazionali, il nostro punto di vista su temi che ci hanno visto impegnati negli anni '80 con la campagna contro lo sterminio per fame nel mondo.

La critica radicale alla logica degli aiuti bilaterali e la nostra proposta di un approccio multilaterale al problema raccolsero in tale sede il consenso e l'interesse dei rappresentanti africani e provocarono una dura polemica con l'Ambasciatore francese, che sosteneva una tesi in evidente continuità con l'impostazione tradizionale, di retaggio coloniale. In molti hanno auspicato un reimpegno diretto del partito sulle questioni dello sviluppo.

Diritti Umani a Cuba

La partecipazione in luglio al Convegno svoltosi a Miami su Cuba, Caribe y Latino America, e l'affondamento di un rimorchiatore di fuggiaschi da parte della marina cubana riapriva il problema dei diritti umani a Cuba. Manifestazioni per la libertà di Francisco Chaviano, Presidente del Comitato per i diritti umani a Cuba e iscritto radicale vengono promosse dal Partito in tutta Europa.

Ripartono da Miami gli appelli per la libertà a Cuba, e nel settembre una mozione di critica nei confronti del regime di Castro, presentata grazie ai deputati radicali viene respinta per un pugno di voti dal Parlamento Europeo.

Nel frattempo gli iscritti cubani sono diventati 48. Negli Stati Uniti alcuni esiliati si iscrivono al Partito per sottolinearne l'impegno in favore dei Diritti Umani a Cuba.

Abolizione della pena di morte

Già all'indomani del voto all'Onu il Partito si è impegnato nella campagna contro la reintroduzione della pena di morte nello Stato di New York. Senza molte speranze, invero, dacché il nuovo Governatore Pataki dispone di una solida maggioranza favorevole ed è ben deciso a firmarne l'esecutività. La presenza dei radicali su questo fronte è ora a pieno titolo, già nella organizzazione di iniziative comuni, assieme a New Yorkers Against Death Penalty e Demi Mc Guire, a Amnesty International USA con Linda Thurston e Enid Harlow, alla ACLU con Norman Siegel, a New York Lawyers Against death Penalty con Ron Taback, alla NAACP con Kika Matos, al Living Theater di Judith Malina con cui da mesi si organizzano manifestazioni a Times Square. Siamo stati invitati a collaborare alla organizzazione di una grande manifestazione a New York il 4 giugno e di una Conferenza Abolizionista Panamericana in agosto.

Ma soprattutto sarebbe un'occasione di grande rilancio, se si avesse la forza di organizzarla, una Conferenza Internazionale promossa da Nessuno Tocchi Caino e dal partito, in autunno, in coincidenza con il Cinquantesimo Anniversario delle Nazioni Unite, con la partecipazione di centinaia di Associazioni abolizioniste americane e la presenza di parlamentari e leader politici.

Non sembra invece che vi sia la possibilità di ripresentare per la sessione del prossimo autunno all'Assemblea Generale dell'ONU un'altra mozione per una moratoria. Le spaccature createsi sul voto di novembre hanno bisogno di qualche tempo per sanarsi. Da valutazioni correnti non sembra si possa raggiungere, a suo sostegno, un numero di paesi significativo, né si dispone più, e forse sarebbe adesso insufficiente, dell'impegno del Governo Italiano. Si è fatta strada invece l'ipotesi di uno scenario, difficile ma possibile, per un'azione di grande portata in concomitanza della Sessione ONU del 1996, partendo da una Campagna Internazionale che chieda all'Unione Europea di farsi carico della presentazione di una nuova mozione. Se questo potesse accadere, la prospettiva di ribaltare lo scarto nei voti aumenterebbero e, visto il maggior tempo a disposizione, non marginale sarebbe la possibilità di premere sui paesi africani e sui molti indecisi.

Tribunale Internazionale

Su nostra proposta, promossa da World Federalist Movement, WFA: ICC Project, Amnesty International, Partito Radicale e There Is No Peace Without Justice, si è tenuta a New York una prima Conferenza a sostegno delle iniziative per il Tribunale, con la partecipazione di oltre 25 Organizzazioni Non Governative americane e internazionali. Erano presenti: Internationl Commission of Jurist, International Commission of Jurist-American Committee, International Human Rights Law Group, International League for Human Rights, Parliamentarians for Global Action, Quaker UN Office, United Nations Association, War and Peace Foundation, World Order Model Project, Institute for Global Policy, Human Rights Watch, Global Policy Forum, B'nai B'rith Int'l and Coordinating Board of Jewish Organizations, Bahài International Community, CURE, DePaul Institute for Human Rights, Equality Now, Carter Foundation e Ford Foundation. Diversi membri della American Bar Association e dell'ASIL hanno partecipato a titolo personale.

La Conferenza deliberava di dar vita a una "Coalizione per una Corte Criminale Internazionale" a partire dalle NGO presenti, al fine di coordinare le iniziative necessarie, in particolare per chiedere la partecipazione della lobby ai lavori del Comitato ad Hoc, e per creare un Comitato di NGO che segua il lavori del V Comitato e della Commissione preparatoria del Bilancio (ACABQ) dell'ONU. Si è cercato di intervenire sui Governi affinché inviassero i loro pareri sulla bozza di statuto della ILC entro il 15 marzo 95, organizzando altresì attività di pressione presso i governi contrari o indecisi. Sono stati formati 6 gruppi di lavoro.

Campagna SAVE TIBET

In previsione della marcia da Dehli a Lhasa, promossa dalle organizzazioni tibetane in esilio per il 10 marzo, sono stati presi contatti con il Tibet Office americano, con US-Tibet Committee e con International Campaign for Tibet . Assieme si è stabilito un progetto di massima per le iniziative in occasione della Sessione Onu di settembre e sopratutto per la Campagna Internazionale per il Satyagraha nonviolento del 1996.

Campagna antiproibizionista sulle droghe

Il governo americano ha rinnovato solo in parte i finanziamenti per la guerra alla droga dichiarandone in sostanza il fallimento. Ma questa "non posizione", o meglio questo far finta di niente, di fatto finisce per pregiudicare in parte gli sforzi degli antiproibizionisti di sollevare il problema. L'attività della sede di New York su tale questione non è decollata. I tentativi di reperire finanziamenti per una Conferenza nell'Est Europa non hanno avuto effetto. Anche il progetto di finanziare la pubblicazione dell'Annuario prodotto dalla LIA è caduto e si sono raffreddati i rapporti con la Drug Policy Foundation e il suo Presidente Arnold Trebach.

Rapporti politici e costruzione del Partito

Contatti sono stati presi con il Partito Democratico, con quello Repubblicano, con il Partito Liberale dello Stato di New York, con l'Independence Party e l'Independent Fusion Party, che si rifanno allo United We Stand dell'ex candidato presidenziale Ross Perot. Fra i democratici, solo con Mario Cuomo, con il Sen. Moynihan e con il Senatore dello Stato della California Tom Hayden i rapporti si sono evoluti. Buoni rapporti si sono stabiliti con il Partito Liberale di New York e con uno dei suoi leader, Russ Hemingway.

Cresce invece la collaborazione con gli indipendenti e sopratutto con Lenora B. Fulani, una dei maggiori leader della comunità nera d'America e già candidata alla Presidenza degli Stati Uniti. Altre buone occasioni d'incontro sembrano possibili con la National Italian American Foundation (NIAF), anche con l'iscrizione nel "Consiglio dei Mille" di un rappresentante radicale e con i buoni rapporti con il Presidente, l'ex Congressman Frank Guarini. Ma il quadro, con l'eccezione degli indipendenti, non offre motivi di ottimismo. So bene che la pubblicazione di qualche numero del Giornale da inviare ai deputati, una costante presenza a Washington, e presso le Lobby del Congresso Americano, aiuterebbero molto e consentirebbero di sviluppare un discorso di partnership politica anche negli Stati Uniti.

Anche su New York, questo è il punto della questione, coi suoi motivi di interesse e le sue difficoltà, che sono, più o meno, le stesse che ci troviamo di fronte in ogni altra situazione. Rinvio ad altri punti della relazione una valutazione più generale sul significato politico di questa iniziativa "americana".

Appendici

APPENDICE I^

IL TRIBUNALE AD HOC

Caratteristiche:

a) Il Tribunale è stato istituito direttamente dal Consiglio di Sicurezza che, senza far ricorso al troppo lungo e incerto iter di un accordo o trattato internazionale, ha agito utilizzando il Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite, quello che riguarda le iniziative relative alla pace, alla violazione della pace ed agli atti di aggressione di competenza del Consiglio di Sicurezza. Applicandolo, il Consiglio di Sicurezza ha potuto costituire il Tribunale quale "organo sussidiario necessario per l'adempimento delle sue funzioni" (art. 29 della Carta dell'Onu);

b) il suo Statuto è stato disegnato da una Commissione, partendo dai tre progetti fatti elaborare dai governi francese, italiano e svedese (quest'ultimo, a nome della CSCE); altri Stati, ONG, esperti, hanno inviato suggerimenti e osservazioni;

c) costituisce l'unica iniziativa di rilievo e portata "strutturali" che la Comunità internazionale, a lungo accusata di essere impotente di fronte ai problemi del nostro tempo, è riuscita a prendere dalla fine del periodo del bipolarismo Est-Ovest;

d) per l'individuazione dei crimini e dei criminali, dovrà avvalersi di quella legge internazionale "scritta" che è rappresentata dalle Convenzioni di diritto umanitario e dalle Convenzioni sui diritti umani (i due Patti generali del 1966, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, e la Convenzione sui diritti del fanciullo entrata in vigore nel 1990);

e) il suo Statuto espressamente prevede che i procedimenti possano iniziare anche a partire da impulsi provenienti dalle varie ONG, così come previsto al par. 5 della Ris. 827 del 25 maggio 1993 con cui il Consiglio di Sicurezza aveva deciso la creazione del Tribunale e ne aveva approvato lo Statuto; secondo tale norma anche semplici cittadini sono chiamati a fornire collaborazione al Tribunale, con informazioni, aiuti economici, esperti;

f) in base al principio della giurisdizione concorrente, sancito dall'articolo 9 dello Statuto, anche ai tribunali nazionali è riconosciuto il diritto-dovere di giudicare sui crimini di guerra e contro l'umanità nella ex Jugoslavia, quando ne siano debitamente investiti. Il Tribunale condivide dunque la propria giurisdizione con i tribunali nazionali, ma in posizione di supremazia. I tribunali nazionali potranno celebrare processi nei confronti di responsabili di crimini di guerra o di atti di genocidio o di crimini contro l'umanità, ma il Tribunale Internazionale potrà in ogni momento avocare a sé, formalmente, i procedimenti. E anzi, poiché la sua giurisdizione è concorrente con quella delle corti nazionali, il Tribunale internazionale potrà promuovere i processi in tutti i casi in cui i tribunali interni siano restati inattivi. Lo Statuto non indica esplicitamente i casi in cui il Tribunale Internazionale potrà intervenire e richiedere la trasmissione dei procedimenti. E' prevista un'eccezione al principi

o del "ne bis in idem": il Tribunale Internazionale può nuovamente sottoporre a giudizio una persona già giudicata davanti ad un tribunale nazionale ogni volta che, davanti al tribunale di uno Stato, il fatto sia stato rubricato in modo meno grave (ad es. come "reato comune") o quando il giudizio non sia stato imparziale e indipendente o sia risultato diretto a sottrarre l'accusato alle proprie responsabilità penali relative ai crimini riconosciuti dalle norme internazionali; oppure, infine, nel caso in cui il processo non sia stato diligentemente istruito. Il principio della "giurisdizione concorrente" non viene limitato ai rapporti con i tribunali degli Stati già facenti parte della ex Jugoslavia, ma si estende ai rapporti con le giurisdizioni nazionali di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite;

g) le pene vengono irrogate dal Tribunale sulla base del codice penale in vigore nella Federazione Jugoslava prima dello smembramento, ma viene comunque esclusa la pena di morte; sono così contemplate solo pene detentive da scontarsi nelle carceri degli Stati disposti ad accogliere i condannati. A tutela dei diritti e delle garanzie della difesa non sono ammessi i processi in contumacia.

Competenze:

a) violazioni gravi delle convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra, i feriti e i civili coinvolti in azioni di guerra (sono considerati l'omicidio volontario, la tortura o altri trattamenti crudeli compresi gli esperimenti biomedici, l'estesa distruzione o appropriazione di proprietà altrui, deportazioni, trasferimenti o confinamento illegale di civili, presa di civili come ostaggi);

b) violazioni di leggi o consuetudini di guerra (tra cui l'uso di armi chimiche o che provocano sofferenze inutili, le distruzioni e devastazioni ingiustificate, i bombardamenti o attacchi a città, villaggi, costruzioni prive di difesa, la distruzione di luoghi di culto, scuole, beni artistico-culturali);

c) genocidio;

d) crimini contro l'umanità commessi contro la popolazione civile: omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, imprigionamento, tortura, stupro, persecuzione per motivi politici, religiosi o razziali, altri atti contrari al senso di umanità.

Particolare importanza, per la raccolta di documenti e altro materiale probatorio, avranno le missioni di osservatori inviati dall'ONU o da altri organismi internazionali specializzati.

Come abbiamo già accennato, anche organismi nongovernativi saranno chiamati a collaborare: in particolare ci si avvarrà dell'enorme banca dati informatizzata realizzata presso l'Università De Paul di Chicago, che già collabora con la Commissione dell'Onu per i crimini di guerra (presieduta dall'egiziano Cherif Bassiouni).

Molti Stati hanno recepito l'invito delle Nazioni Unite a fornire la loro collaborazione al Tribunale, emanando le leggi necessarie a regolare i rapporti tra i loro tribunali interni e quello dell'Aja e attribuendo alle autorità di polizia i poteri per dare esecuzione alle ordinanze del Tribunale internazionale. Alcuni paesi si sono dotati di leggi che in generale regolamentino la collaborazione e le forme con cui la società civile possa fornire un utile contributo: ad es., segnalando i crimini su cui il Tribunale può esercitare la propria competenza e garantendo la consegna dei responsabili alle autorità internazionali.

Il Parlamento italiano, in particolare, ha definito con la legge n. 120 del 14 febbraio 1994 le competenze relative a tali procedure di collaborazione. L'Italia si è detta anche disponibile ad accogliere i condannati nelle prigioni italiane; l'art. 7, comma 4, di tale legge dispone che la reclusione non possa comunque superare il massimo di trent'anni.

Problemi aperti:

Il Presidente del Tribunale ad hoc, Antonio Cassese, ha ribadito lo scorso 14 novembre, all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che il Tribunale deve disporre di un budget regolare, proveniente dal bilancio ordinario delle Nazioni Unite e in grado di soddisfare le esigenze operative di una corte penale che agisce sul piano internazionale: "La mancanza per molti mesi dopo l'istituzione del tribunale di un budget regolare - ha detto - ci ha impedito di costruire un'aula; solo 12 mesi dopo l'insediamento del Tribunale è stato possibile rendere disponibile un'aula e non le 3 che sono necessarie; la stessa cosa è avvenuta per quanto riguarda l'unità speciale nella quale vengono tenuti gli imputati, sotto il controllo dell'autorità dell'Aja; quest'unità è stata approntata solo 11 mesi dopo l'istituzione del Tribunale".

Altri due ostacoli incontrati sono stati la sia pur temporanea mancanza di un Procuratore Generale (per statuto, nessun processo può essere avviato se non a seguito di atto d'accusa presentato dal Procuratore Generale) e l'esiguità del numero dei componenti l'ufficio del Procuratore, 20 persone per condurre indagini su tutti i reati sui quali il Tribunale ha giurisdizione.

Malgrado questi ostacoli, come ha sottolineato ancora Cassese, i giudici del tribunale hanno finora promosso tutte le iniziative che fossero nelle loro competenze, ponendo le basi per l'apertura delle azioni penali e promuovendo l'elaborazione di un mini-codice di procedura penale internazionale ("The Rules of Procedure and Evidence"), di norme per regolamentare la detenzione degli imputati ("Rules of Detention") e la loro difesa ("Directive on the granting of legal aid to defendants"). Queste norme non hanno precedenti nella comunità internazionale. Ovviamente, per la loro stesura, ci si è attenuti a quelle che l'ONU ha adottato in tema di applicazione dei diritti umani.

Un esempio per tutti: l'ottobre scorso, l'ufficio del Procuratore depositò la richiesta di avocazione di un caso pendente davanti alle autorità giudiziarie tedesche, e nel quale erano presenti accuse di genocidio, pulizia etnica, tortura, violenza carnale, assassinio di civili e di prigionieri di guerra. In novembre, nella sede appena aperta all'Aja, si è tenuta un'udienza pubblica per esaminare la richiesta, nonché la posizione assunta dal Governo tedesco e le dichiarazioni dell'avvocato della difesa, al quale è stato concesso di presentarsi come "amicus curiae". Il Tribunale ha accolto la tesi del Procuratore, chiedendo di conseguenza allo Stato tedesco di rimettere il caso al Tribunale stesso. Il caso, la stessa udienza pubblica, hanno reso visibile per la prima volta il Tribunale Internazionale alle parti coinvolte e all'opinione internazionale; non ha dunque solamente segnato l'esordio del Tribunale; ha anche bloccato e ridotto lo scetticismo espresso nei suoi confronti. Ormai, il ghiaccio è rotto: da m

arzo, il Tribunale sarà in Sessione permanente.

APPENDICE II^

Perché una Corte Penale Internazionale?

L'idea di istituire una Corte Penale Internazionale venne abbozzata nel 1899. Man mano che si è venuto affermando il principio del divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali, è apparso più chiaro che la guerra, estremo mezzo di confronto tra le ragioni di Stato, o forse, meglio, tra gli egoismi dei popoli, non può comunque costituire un alibi per giustificare comportamenti crudeli e disumani che la coscienza ma anche il diritto definiscono unanimemente come "crimini di guerra".

Dopo la prima guerra mondiale, il Trattato di Versailles del 1919 stabilì che il Kaiser e gli altri militari accusati di reati di guerra dovessero essere processati: mancò (e noi diciamo per fortuna) da parte degli Alleati la volontà politica. Anche alla decisione di punire i responsabili del genocidio del popolo armeno non venne dato seguito. Alla fine della seconda guerra mondiale, la Comunità mondiale esigeva un processo contro i responsabili della guerra, dei reati di guerra e dei reati contro l'umanità. La contraddittoria esperienza di Norimberga e Tokyo rimase però isolata. Tuttavia, con l'esplodere delle varie crisi, aumentavano le occasioni per il dispiegarsi di una nuova, inaccettabile criminalità internazionale e transnazionale; in occasioni di conflitti di ogni genere, il numero delle vittime di gravi, inaccettabili, esecrabili violazioni dei più elementari diritti umani si è fatto sempre più alto: basti ricordare che in Cambogia il regime dei Khmer rossi ha causato 2 milioni di morti, e che la gu

erra di indipendenza del Bangladesh è costata a questo paese oltre un milione di morti.

Con la nascita del sistema delle Nazioni Unite cominciò a prendere corpo l'ipotesi di una giurisdizione relativa alla violenza perpetrata con l'aggressione e con le minacce alla sicurezza ed alla pace, mentre si affermavano le tesi giuridiche del genocidio e di altri crimini contro l'umanità (atti di pirateria aerea o marittima, apartheid, crimini contro i diplomatici, presa di ostaggi).

Moltissimi altri comportamenti individuali hanno oggi acquisito una rilevanza negativa nella coscienza comune e appaiono meritevoli di sanzioni irrogate tramite procedure e da un Tribunale internazionali: contro una criminalità organizzata internazionale, contro il traffico di stupefacenti, il traffico internazionale di minori e altre attività criminose che nella globalizzazione dei rapporti e della stessa economia hanno acquisito un predominante carattere transnazionale sfuggendo alle capacità e alla forza dei diritti nazionali; e ancora, contro il terrorismo internazionale nelle sue più tragiche manifestazioni, il ricorso ad una Corte penale internazionale potrebbe far accreditare l'esistenza di una Società internazionale fondata sul diritto e non unicamente sui rapporti di forza.

Background e aggiornamento:

Nel 1989, a seguito di una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la International Law Commission elaborava il quadro di riferimento per la costituzione di un "Tribunale internazionale sui crimini, o altro meccanismo giuridico internazionale".

La 45a e la 46a Sessione dell'Assemblea Generale (1990 e 1991), votarono risoluzioni che si limitavano a reiterare all'ILC il mandato. Un atteggiamento frenante veniva da alcuni paesi occidentali, specialmente Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.

Nel 1992, come conseguenza delle vicende dell'ex Jugoslavia e per il problema delle controversie in tema di estradizioni del Libano, numerosi Paesi prendevano posizione a favore della costituzione della Corte Penale (tra questi, Australia, Canada, Colombia, Giappone, Venezuela, Zimbabwe e - inaspettatamente - la Comunità Europea nel suo insieme, inclusi quindi Gran Bretagna e Francia). La ILC chiese alle Nazioni Unite il mandato per elaborare un progetto più dettagliato, una vera e propria bozza di Statuto. Malgrado alcune resistenze iniziali degli Stati Uniti e lo scetticismo di Cina, Indonesia ed altri paesi in via di sviluppo, l'Assemblea Generale nel novembre 1992 invitava la ILC a elaborare un progetto di Statuto, da sottoporre alla Sessione successiva.

Secondo il Progetto elaborato dell'ILC, alla Corte va la giurisdizione sui crimini di genocidio (si veda in proposito la Convenzione sul genocidio del 1948) e di aggressione, sui crimini di guerra e contro l'umanità. Sono i crimini internazionali sulla cui sanzione si riscontra il più ampio consenso internazionale, anche nella forma di consuetudine internazionale riconosciuta. Per quanto riguarda altri crimini previsti da accordi internazionali, l'art. 21 e l'annesso del Progetto ICC prevedono la giurisdizione della Corte solo in caso di eccezionale gravità. Ci si riferisce alle violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e relativo protocollo, delle Convenzioni dell'Aja e di Montreal sulla pirateria aerea, della Convenzione contro l'apartheid, della Convenzione per la protezione degli agenti diplomatici, della Convenzione sugli ostaggi, della Convenzione sulla tortura, della Convenzione sulla pirateria marittima, della Convenzione sul traffico di droga.

Secondo il Progetto, l'accettazione della giurisdizione della Corte può avvenire con dichiarazioni rese dagli Stati sia al momento della conclusione del Trattato istitutivo (o successivamente) sia anche, in relazione ad un singolo caso e a un singolo crimine , da parte di uno Stato che non abbia riconosciuto la Corte (vedi art. 22). E' previsto che nel caso di genocidio la richiesta sia presentata da uno Stato membro della Convenzione del 1948 (art. 25.1); negli altri casi la richiesta può essere avanzata da uno qualsiasi degli Stati firmatari del Trattato istitutivo della Corte (art. 25.2). L'azione potrà essere promossa solo se lo Stato che detiene il sospettato o lo Stato nel quale è stato commesso il crimine abbiano emanato una dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte per il crimine in questione (art. 21.1(b)). Si tratta di quelle che il Progetto definisce "precondizioni dell'accettazione della giurisdizione della Corte da parte degli Stati" (art. 21, che rinvia anche agli artt. 20,

22, 25) e che accrescendo la possibilità di adesione degli Stati, rendono flessibile ed ampliano la giurisdizione della Corte.

Il Progetto fissa ragionevoli criteri per la determinazione delle pene. Esclusa la pena di morte (art. 47.1(a)), la pena sarà fissata sulla base delle sanzioni previste dalle leggi dello Stato dell'imputato; dello Stato dove il crimine è stato commesso; o dello Stato che aveva la custodia dell'imputato (art. 47.2(a)(b)(c)). E' contemplata anche la possibilità di ricorso contro le sentenze di primo grado.

APPENDICE III^

LA LINGUA AUSILIARIA

La situazione italiana

La Relazione finale della Commissione del Ministero della Pubblica Istruzione sull'esperanto, da noi perseguita ed ottenuta grazie alla costituzione dell'Intergruppo federalista sulla lingua coordinato da Elio Vito, ha consentito l'autorizzazione e il varo del primo progetto di sperimentazione dell'insegnamento della Lingua Internazionale nella scuola. Bisognerà ora lavorare perché anche le altre proposte di quella Commissione vengano accolte.Poiché, grazie alla riforma, si prevede di introdurre lo studio obbligatorio di una seconda lingua straniera nella scuola secondaria, bisognerà avviare una campagna di raccolta di firme e quanto altro necessario perché sia davvero offerta agli studenti l'opportunità di scegliere di comunicare transnazionalmente anche attraverso una lingua non etnica.

Le istituzioni scolastiche, e lo stesso governo, potrebbero avviare consultazioni e sperimentazioni con l'Ungheria - dove già dagli anni '50 l'Esperanto è insegnato nelle scuole di ogni ordine e grado - per arrivare anche a un patto bilaterale perché le relazioni diplomatiche tra i due paesi siano tenute nella lingua internazionale.

Note

Nota 1. Manifestazioni relizzate in Russia nell'ultimo anno e mezzo

- 27 maggio 1994, di fronte all'ambasciata Armena a Mosca, per la cancellazione della pena di morte a Jurij Belechenko, pilota militare azero accusato di crimini di guerra nella auto-proclamatasi "Repubblica del Nagorno Karabakh", con slogans per la Corte Penale Internazionale per i crimini di guerra, e contro la pena di morte;

- alla ambasciata cubana a Mosca per la democrazia a Cuba e la liberazione dei prigionieri politici, in simultanea con quelle in più capitali europee;

- 7 agosto, San Pietroburgo, in occasione dell'ultimo giorno dei Giochi della Buona Volontà 1994, quando durante la partita tra squadra russa e quella del "resto del mondo" e poi durante la cerimonia di chiusura dei giochi 5 membri del Partito radicale hanno esposto sulle tribune lo slogan " There Is No Peace Without Justice: International Criminal Court - Now!";

- all'ambasciata americana a Mosca contro la posizione assunta dagli Stati Uniti sul tribunale internazionale al Sesto Comitato della Assemblea Generale delle Nazioni Unite;

- partecipazione al grande rally organizzato il 10 gennaio dal gruppo parlamentare "Russia's Choice" sulla piazza Teatraljnaja di Mosca, contro la guerra in Cecenia;

- deposizione simbolica sulla tomba al Milite Ignoto di un striscione con l'iscrizione "A tutti i soldati vittime del militarismo da Stalin a Grachev"; questa azione è stata importante perché è l'inizio di un nuovo stadio nella campagna antimilitaristica del PR.

Nota 2. Assemblee pubbliche in Russia

- il 15 gennaio 1994, a Mosca (Hotel Moskva) con circa un centinaio di partecipanti;

- il 12-13 maggio a San Pietroburgo, assieme a un dibattito sul problema droga, con la partecipazione di funzionari della polizia di San Pietroburgo, gruppi del servizio sanitario e per l'assistenza ai tossicodipendenti;

- 8/9 luglio, a Mosca, incontro allargato dei membri del Consiglio Generale dei paesi della CSI e del Baltico, con la presenza di circa cento militanti, parlamentari e membri del Consiglio Generale da quasi tutti gli stati della CSI e del Baltico.

Andrea Tamburi durante la prima assemblea e Antonio Stango nella seconda e terza hanno preso parte come coordinatori delle attività del partito; all'ultima erano presenti anche il tesoriere del partito, Ottavio Lavaggi, e il presidente del Consiglio Generale, Olivier Dupuis.

Nota 3. Manifestazioni radicali in Ucraina

- 18 e 19 settembre 1993, sulla piazza principale di Kiev, mobilitazione per il Tribunale sull'ex-Jugoslavia, contemporaneamente alle altre azioni similari svoltesi in altre capitali europee. 743 firme - non solo di cittadini ucraini, ma anche della Corea del Sud, Nigeria, Russia, Iran, Stati Uniti, Germania, Polonia, Nepal, Pakistan, Lettonia, Moldavia, Kazakhstan, Georgia, Croazia ed Estonia - raccolte. E' stata una buona occasione per stabilire relazioni con la missione ONU in Ucraina.

- 27 settembre 1993. Una delegazione radicale partecipava al simposio su "Sicurezza, Disarmo e Cooperazione" sponsorizzato dall'ufficio ONU in Ucraina. Nell'atrio dell'albergo Rus, dove il forum era organizzato, militanti radicali hanno istallato un tavolo con documentazione e hanno raccolto firme di partecipanti al simposio sotto l'Appello alle Nazioni Unite per l'insediamento immediato del Tribunale ad hoc.

- 16 novembre 1993, a Kiev, conferenza stampa sulla inaugurazione del Tribunale ad hoc. Tutte le agenzie stampa, i principali giornali e due reti TV ne davano notizia.

- 3 aprile 1994. Militanti radicali di Dneprodzerzhinsk (nella regione di Dnepropetrovsk, Ucraina orientale) organizzavano una "Veglia di Pasqua" contro la pena di morte sotto la bandiera di "Nessuno tocchi Caino", proprio davanti alla chiesa cattolica polacca della città.

- 9 maggio 1994, a Kiev, sotto gli slogan "Niente pace senza giustizia", "Tribunale permanente sui crimini di guerra - Subito!", "Bosnia libera". Gli slogan insieme al simbolo gandhiano del partito furono visti da migliaia di persone venute quella mattina in Kreschatik - la strada principale della capitale ucraina - per assistere alla parata dell'orchestra militare per il Giorno della Liberazione, una delle maggiori festività in tutti gli Stati dell'ex-Unione sovietica.

- Il 27 maggio 1994, membri del partito sottoponevano ai rappresentanti della Repubblica di Armenia a Kiev un appello contro la sentenza di morte che colpiva Yuri Belechenko, il pilota militare azero il cui aereo era stato abbattuto sopra il Nagorno Karabakh e per l'istituzione della Corte Penale internazionale permanente.

- 26 luglio 1994, manifestazione dei radicali di Kiev di fronte all'ambasciata cubana, per la democrazia in Cuba e contro le repressioni politiche sotto il regime di Castro. L'iniziativa era condotta contemporaneamente in varie città europee.

Un appunto sulla questione Danubio, del Consigliere Paolo Pietrosanti

In quegli stessi paesi dell'Europa centro-orientale le cui carceri avevano ospitato a decine i militanti radicali nell'arco di due decenni di azioni e lotte nonviolente, già dai primi giorni di vita delle nuove democrazie, nei mesi stessi che hanno preceduto la caduta del muro di Berlino, al Congresso di Budapest, i radicali hanno affermato la necessità e l'urgenza del loro ingresso nella Comunità Europea. Non solo in funzione della necessaria proposizione di una sorta di Piano Marhall, ma in funzione della necessità di una trasformazione della Comunità Europea di allora, e della UE di oggi, in senso pienamente federale, un processo che non potrà esplicarsi se non diverranno comuni i luoghi istituzionali delle decisioni.

Nel momento in cui il sistema istituzionale della UE deve cercare, anche in vista della revisione dei Trattati del 1996, di adeguarsi alle forme che proprio nei paesi membri hanno trovato storicamente le più alte espressioni, dobbiamo chiederci se il Partito radicale non sia chiamato ad una grande campagna per la progressiva, rapida trasformazione istituzionale in senso democratico del sistema dell'UE che corra in parallelo con il suo allargamento.

Dobbiamo chiederci qui, nel Congresso, se non sia necessario proporci, proporre il Partito come lo strumento politico della volontà dei cittadini dei popoli europei per conquistare il luogo delle comuni decisioni politiche, giuridicamente cogenti per tutti.

Dobbiamo chiederci qui se non sia necessario incardinare nel Partito radicale la grande campagna per l'allargamento e la trasformazione della UE e delle sue istituzioni. Dobbiamo chiederci qui se non si debba, tutti noi, concepire la nuova campagna politica di durata e intensità grandi, campagna per il diritto che non è se non istituzioni e poteri e autorità, istituzioni che dicano e affermino, in Europa, diritto; così come a New York, al Palazzo di Vetro abbiamo fatto e ci accingiamo a fare ancora sui temi della Corte Penale e della moratoria. Dobbiamo chiederci se non debba il Partito radicale subito incardinare il lavoro preparatorio e di studio di tale campagna per l'allargamento della Unione Europea, da sottoporre al primo Consiglio Generale del partito perché la articoli in un vero e proprio progetto operativo.

Dobbiamo chiederci qui se non debba concepirsi un grande manifesto, un appello europeo per il concepimento della Europa istituzionalmente nuova e adeguata alle necessità del nostro tempo.

Dobbiamo chiederci se non sia necessario, ora, progettare attorno a tale manifesto-appello la grande campagna che unisca le due Europa nella comune volontà di regole e istituzioni, che si rivolga ai governi dell'Europa occidentale come a quelli dell'Europa meno sviluppata, ma anche a singoli e a organizzazioni che appaiano e vogliano impegnarsi per dare all'Europa forme politiche e istituzionali adeguate al destino che è oggi tra le due Europa diverso soltanto in virtù di resistenze che relegano la politica, e con essa la democrazia, ad un ruolo sempre meno centrale.

Dobbiamo chiederci se non sia necessario, ora, far rinascere e organizzare la grande e diffusa volontà di autonomia, di capacità decisionale locale, che soltanto può discendere da un allargamento della UE, che corra parallelo ad un sua trasformazione in senso federale.

Dobbiamo chiederci qui se non dobbiamo noi al Danubio, al grande fiume che è parte della cultura e della storia del pianeta intero, il suo essere amministrato e goduto insieme dalle genti d'Europa, tutto intero in nuove e grandi istituzioni democratiche.

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II parte

RIFORMA DEL TRATTATO DI MAASTRICHT, NUOVO ASSETTO EUROPEO:

QUALI SFIDE PER IL PARTITO RADICALE

estensori: Olivier Dupuis, Gianfranco Dell'Alba

In vista della conferenza intergovernativa del 1996 per la riforma del Trattato di Unione europea sta prendendo corpo, ad opera di vari soggetti, istituzionali, politici, lobbistici, tutta una serie di proposte, miranti alla riforma - o alla contro-riforma - delle istituzioni europee.

Giscard d'Estaing, ad esempio, propone di incentrare il rilancio del processo d'integrazione intorno alla realizzazione dell'Unione monetaria. Questa Europa, ch'egli battezza "Europa-potenza", sarebbe un'unione aperta da subito a coloro che possono e successivamente a coloro che vogliono farne parte (Germania, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo più Italia, Spagna e l'uno o l'altro dei nuovi aderenti). Essa si opporrebbe a una "Europa-spazio", aperta a tutto il continente ma ridotta, per l'essenziale, a uno spazio di libero scambio.

L'impostazione di Giscard d'Estaing dà per scontata l'idea di un nucleo duro, ovvero della possibilità per un gruppo di paesi di andare avanti senza essere bloccati da paesi "recalcitranti" o da chi non vuole progredire; ha poi un grosso limite: quello di basarsi su un'architettura di tipo prevalentemente "intergovernativo" (contrariamente a ciò che può lasciare intendere il titolo del "manifesto per una nuova Europa federativa" che espone queste idee). In effetti, è attorno ad un Consiglio dei ministri dell'Unione monetaria, ad un Consiglio politico dell'Unione monetaria composto dai capi di governo dell'Unione e da una Commissione parlamentare di membri dei Parlamenti nazionali che egli propone di organizzare questa Europa a "vocazione federativa".

Alain Juppé e Klaus Kinkel - ministri degli esteri, rispettivamente, di Francia e Germania - evocano numerose iniziative, in corso o a venire, in favore dell'integrazione europea, ma guardandosi bene dal sottolineare che per la maggior parte si sviluppano fuori dal quadro istituzionale dell'Unione europea!

La libera circolazione delle persone, infatti, pur iscritta nel Trattato CEE, si organizza all'interno di una struttura multilaterale (Schengen) quindi solo intergovernativa e comunque concepita per essere integrata nel III pilastro del Trattato sull'Unione Europea, esso stesso intergovernativo; l'Eurocorps è una iniziativa franco-tedesca-belga-ibero-lussemburghese; il coordinamento delle marine è un'iniziativa franco-italo-spagnola; l'agenzia degli armamenti è franco-tedesca; la struttura di coordinamento dell'aviazione militare è franco-britannica, ecc.

Tutti questi progetti, poi, fanno perno su una centralità francese, che difficilmente si può spiegare con i soli criteri geografici.

Questa attenzione "panoramica" permette ai due ministri di evitare di affrontare un problema centrale, la governabilità dell'Unione, che così limitano ad evocare, quando dicono che: "L'Unione europea è una delle fondamenta più importanti di questo nuovo ordine di sicurezza in Europa. Essa non può assumere questa missione che se la capacità di decisione delle sue istituzioni viene mantenuta e rafforzata".

Una questione, che il gruppo parlamentare CDU-CSU aveva posto in modo inequivocabile in un documento pubblicato nel settembre scorso, provocò un certo scalpore; nessuna "capacità di decisione", nessuna democrazia, nessuna trasparenza ...è possibile "senza una riforma federale dell'Europa", afferma il documento, che poi prosegue: "Le riforme devono tendere verso una nuova concezione della ponderazione delle istituzioni, conferendo progressivamente al Parlamento il carattere di organo legislativo ad uguaglianza di diritto con il Consiglio; quest'ultimo essendo chiamato ad assumere, accanto ad altri compiti per di più di natura intergovernativa, il ruolo di seconda Camera, vale a dire di Camera degli Stati, e la Commissione esercitando gli attributi di un governo europeo."

Il documento tedesco ha avuto l'indubbio merito di rilanciare - specie nei paesi tradizionalmente più attenti a queste tematiche (le reazioni spagnole ed italiane, ad esempio, si sono soffermate quasi esclusivamente sulla questione di una possibile esclusione dal cosiddetto "nucleo duro") - il dibattito sull'assetto istituzionale e politico europeo, soprattutto sul punto forse più delicato: quello del modello federale dell'integrazione europea. In effetti e con poche eccezioni, tutti, nell'impossibilità di utilizzare l'alibi britannico, quando posti alle corde sono obbligati a constatare una loro radicale comunione di vedute quanto alla necessità di continuare a subordinare la costruzione europea agli interessi nazionali, dimostrando la loro incapacità, la loro assenza di volontà o la loro opposizione irriducibile alla possibilità e alla necessità di far emergere un interesse superiore comune, europeo.

Nelle ultime settimane poi, da parte britannica in particolare, sono riemerse le posizioni più oltranziste contro le istituzioni comunitarie per eccellenza, Parlamento europeo e Commissione, che preannunciano l'importanza del processo di revisione dei Trattati che sta per cominciare.

Non è più in gioco, come nel 1985 per l'Atto Unico e nel 1991 per il Trattato di Maastricht, "quanto" si progredisce, insieme, verso una maggior integrazione politica e per un maggior carattere democratico e partecipativo delle istituzioni e delle procedure decisionali, ma "se" si progredisce, "con chi" e "con quali istituzioni", partendo da una rimessa in discussione del ruolo motore della Commissione europea e del carattere rappresentativo del Parlamento europeo.

Né, purtroppo, le recenti prese di posizioni, coraggiose anche se forse tardive, di Jacques Delors - che a Strasburgo, nel suo discorso d'addio, ha evocato la necessità di creare una "Federazione di Stati nazionali" e di privilegiare quindi il metodo federale - e dello stesso François Mitterrand, possono farci dimenticare neppure per un secondo che il rischio di una completa "rinazionalizzazione" dell'Unione europea è oggi più che mai vicino.

Più ancora che una "riformetta", la conferenza del 1996 rischia dunque di partorire una vera contro-riforma. Non si vede in effetti come - rebus sic stantibus sul piano della mobilitazione dei cittadini europei - la Germania, anche se raggiunta da un'Italia ritornata alla sua tradizione federalista europea, potrebbe opporsi ad un fronte comune "franco-britannico", per di più saldato da tre anni di "lavoro" comune nella ex Jugoslavia, Milosevic, Karadgic e Mladic ringraziando...

Il Partito Radicale trasnazionale e transpartito può e deve alzare le sue bandiere, i valori che ha sempre difeso a partire dalla grande campagna per gli "Stati Uniti d'Europa" condotta sulla base del Progetto di Trattato dell'Unione di Altiero Spinelli, del Parlamento europeo, per confermare convinzioni vecchie e nuove, punti fermi senza i quali la grande sfida di costruire insieme, da Est ad Ovest, un'Europa giusta, libera, democratica, rischia di trasformarsi nel suo contrario. Solo una grande mobilitazione delle classi politiche, dei parlamentari, dei movimenti federalisti ed europeisti su punti come quelli qui appresso indicati, può fare del 1996 la data di un balzo in avanti dell'Unione europea e non del suo declino, della sconfitta del progetto che da sempre forma la base essenziale dell'integrazione europea.

La Conferenza intergovernativa del 1996 dovrebbe dare seguito ai seguenti obiettivi:

1. Allargamento dell'Unione e adesione immediata della Bosnia

La questione dell'allargamento all'Est deve, per delle ragioni evidenti di sicurezza e stabilità del continente (gli esempi della ex Jugoslavia e della Cecenia insegnano), nonché di consolidamento dei processi democratici, diventare una priorità politica dell'Unione, con un calendario di realizzazione preciso e vincolante. L'allargamento deve coinvolgere in particolare tutti i Paesi dell'Europa centrale e balcanica interessati, a due condizioni: che siano retti a democrazia politica e che vi sia una volontà di aderire al progetto di creazione di un'Europa federale.

Un'unica eccezione va applicata a una tabella di marcia che guarda oltre l'appuntamento del 1996: quella riguardante la Bosnia-Erzegovina. L'Unione dovrebbe avviare immediatamente, con le autorità legittime di questa Repubblica, internazionalmente riconosciuta, le procedure per la sua piena e completa adesione nel più breve tempo possibile all'Unione europea. Contro gli argomenti economici, peraltro facilmente contestabili, che possono essere invocati per ritardare l'adesione dei paesi ex comunisti o ad "alta instabilità" come appunto la Bosnia, l'argomento centrale è in questo caso senz'altro quello politico: "L'Europa muore o rinasce a Sarajevo". In effetti, solo una simile iniziativa, articolata in meccanismi specifici per il necessario periodo di transizione al mercato unico, ma senza mettere in discussione la piena appartenenza della Bosnia all'Unione europea, interromperebbe la spirale di indifferenza e di cinismo che caratterizza l'azione dell'Unione europea su quel fronte, non solo per quanto riguard

a la Bosnia ma anche per la Macedonia, il Kosovo, eccetera.

2. Corte costituzionale europea

Per far sì che l'ampliamento ai paesi dell'Europa centrale e dell'Est possa avere luogo in tempi relativamente brevi, bisogna darsi da oggi gli strumenti per evitare che l'entrata di nuovi membri porti ad un blocco del funzionamento dell'Unione: già le attuali procedure decisionali sono particolarmente complesse, opache e poco democratiche, oltreché poco efficaci; e in questo contesto è facile, fin troppo facile che l'intero meccanismo si inceppi: le "bizze" di inglesi o danesi, la cattiva volontà della Commissione, le "ripicche" di italiani o spagnoli, le pressioni di politica interna su un presidente del Consiglio sono fattori sufficienti a paralizzare per mesi, a volte per anni, il processo decisionale. Finora si sono evitati gli ostacoli grazie a continui compromessi spesso sui principi costitutivi stessi, a "opting-out", a eccezioni che stanno però progressivamente e silenziosamente conducendo ad una rinazionalizzazione delle politiche comunitarie, facendo leva su una applicazione distorta del principio

di sussidiarietà. Ma non basta: la scelta fatta a Maastricht di non dare all'Unione una struttura istituzionale coerente e unitaria per tutti i settori di intervento, lasciando deliberatamente la politica estera e gli affari interni ad una gestione totalmente intergovernativa, si è tradotta nel completo fallimento della ambizione di dare all'Europa un peso e un ruolo autonomo sulla scena internazionale e di farne uno spazio senza frontiere interne per i suoi cittadini.

Lo stesso errore non deve ripetersi nel 1996: tra i temi fondamentali della riforma (e sarà da queste scelte cruciali che emergerà con chiarezza chi vuole fare parte di una Unione politica che funzioni e chi no) saranno l'eliminazione della struttura a "pilastri" dell'Unione e la semplificazione e democratizzazione delle procedure decisionali e dei testi normativi: in concreto, questo significa che il Consiglio - il solo organo legislativo in Europa che decida a porte chiuse - non dovrà più essere l'unico centro legislativo e di governo dell'Unione; che lo spazio della cooperazione intergovernativa e delle decisioni all'unanimità dovrà essere radicalmente ridotto e che tutte le competenze dell'Unione dovranno essere ricondotte nell'ordinamento comunitario. E inoltre, anche per l'Europa deve finalmente valere il sano concetto della separazione dei poteri...: Parlamento e Consiglio devono esercitare alla pari la funzione legislativa, e la Commissione assumere in pieno il ruolo di governo dell'Unione, liberando

si di tutto quel complesso sistema di pesi e contrappesi che oggi la condiziona a livello degli Stati membri, e ne riduce i poteri di iniziativa e di esecuzione.

In questo quadro, la Corte di Giustizia, che è stata uno dei fattori più importanti di consolidamento dell'ordinamento comunitario, dovrà assumere nuove responsabilità, non limitandosi al controllo della corretta applicazione del diritto comunitario. In una Unione politica democratica, dotata di istituzioni separate ed autonome da quelle degli Stati membri, nella quale norme e decisioni producono effetti diretti sulla vita e le attività di tutti coloro che vivono ed operano sul suo territorio, nella quale il significato di una cittadinanza europea deve essere meglio definito e allargato, è necessario che la Corte di Giustizia divenga una vera e propria Corte costituzionale, avente come suo compito quello di assicurare che i diritti e i doveri di istituzioni, cittadini, regioni, Stati membri siano rispettati e che gli atti presi dall'Unione non violino i principi fondamentali su cui si fonda l'Unione.

3. Unicità delle procedure decisionali e delle istituzioni

Coerentemente con il punto precedente, la Conferenza intergovernativa del 1996 deve portare alla "comunitarizzazione" del secondo e del terzo pilastro dell'Unione, la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e degli Affari Interni e di Giustizia (AIG).

Parallelamente, deve sancire la soppressione dei vincoli che ostacolano l'attività della Commissione (la cosiddetta "comitologia"), frapposti dai governi dei Paesi membri per impedire l'affermarsi di un vero e proprio "governo europeo" pur se limitato alle materie di pertinenza comunitaria; deve semplificare drasticamente le procedure decisionali, decidendo la pubblicità delle riunioni del Consiglio quando agisce in quanto legislatore, riformando altresì la gerarchia delle norme comunitarie per arrivare, anche in questo caso, ad una razionalizzazione degli strumenti operativi dell'Unione.

4. Un Presidente per l'Europa

L'opacità, la mancanza di efficacia, visibilità e coerenza della "leadership" dell'Unione, cioè del Consiglio (e in particolare della sua Presidenza, ruotante ogni sei mesi) e della stessa Commissione, sono uno dei motivi principali della disaffezione dell'opinione pubblica nei confronti dell'Unione, percepita come un'entità potente ma inafferrabile, senza volto né nome, persa tra le nebbie di Bruxelles: se tra gli obiettivi della riforma del 1996 ci deve essere, oltre alla democratizzazione dell'Unione e al riequilibrio dei poteri delle istituzioni, anche quello di assicurare visibilità e rappresentatività all'Unione e renderla credibile tanto sul piano interno che su quello internazionale, allora è necessario porsi il problema di come si può far divenire più esplicito il legame tra i popoli europei e la leadership dell'Unione; una leadership certo controllata e democraticamente responsabile, ma pur sempre una leadership.

A partire da questo principio, un ampio dibattito potrebbe svilupparsi sul ruolo del "Presidente dell'Unione":

Si può prendere in considerazione l'ipotesi di una presidenza dell'Unione che corrisponda all'esecutivo (cioè alla Commissione), eletto a suffragio universale: un Presidente che possa scegliere i membri del governo tra candidati presentati dai governi nazionali e sia sottoposto al controllo di Parlamento e Consiglio, nel quadro della radicale riforma democratica dell'Unione già delineata più sopra e di una più esplicita ripartizione di competenze tra Stati, regioni e Unione stessa.

Si può, viceversa, pensare ad un "Presidente dell'Unione" carica autonoma e distinta dagli altri organi esistenti, eletto da un Congresso composto per metà da rappresentanti dei parlamenti nazionali e per metà dai parlamentari europei - e magari, in una seconda fase, a suffragio universale - ed incaricato di alcuni specifici e puntuali compiti, come la presidenza "superpartes" del Consiglio europeo, la presidenza dell'attività dell'Unione nel campo della politica di sicurezza, la designazione del candidato alla Presidenza della Commissione, la nomina dei giudici della Corte di Giustizia, la rappresentanza dell'Unione nelle istanze internazionali.

5. Uniformizzazione del sistema di elezione del Parlamento europeo

Una delle critiche ricorrenti rivolte al PE è la sua scarsa rappresentatività, conseguente a leggi elettorali diverse e disparate fra Stato e Stato, complesse, talvolta di concezione radicalmente diversa dalle leggi elettorali vigenti per il parlamento nazionale, insomma scarsamente motivanti per il cittadino europeo. Allo stesso tempo, si esalta nel Trattato di Maastricht la funzione dei "partiti politici organizzati a livello europeo", si adottano disposizioni che permettono il voto e la candidatura alle elezioni europee al di fuori del territorio del proprio Stato, salvo poi opporsi a qualsiasi tentativo di giungere, infine, ad una legge elettorale europea unica ed uniforme per l'Unione.

E' dunque essenziale che nel 1996 si riesca ad arrivare quantomeno ad una "calendarizzazione" del processo decisionale necessario per far sì che le prossime elezioni europee si tengano sotto un unica legge elettorale, indipendentemente dal modello proporzionale o maggioritario che si vorrà privilegiare, e per il quale occorrerà in tempo utile avviare un dibattito consentendo in particolare l'affermarsi di veri "partiti europei", che prendano il posto delle rituali, ed un po' inutili, "internazionali" dei partiti oggi esistenti.

6. Democrazia linguistica

Numerosi sono, ormai, coloro che sottolineano che il problema centrale della costruzione europea è costituito dalla questione della comunicazione, tanto tra i cittadini dell'Unione quanto in seno alle Istituzioni. Anche Giscard d'Estaing, per esempio, afferma che "i negoziatori dovranno rimettere in questione il numero delle lingue utilizzate nelle istanze comunitarie" e che "la capacità di riformare questo sistema, e ridurre a quattro o cinque il numero di lingue di lavoro, costituirà un primo test della volontà di rinnovamento delle pratiche comunitarie". Ma quando il ministro francese Lamassoure ha proposto, seppur in modo informale e poi smentito, di ridurre il numero di lingue a quelle dei 5 grandi paesi (tedesco, francese, inglese, italiano e spagnolo), abbiamo assistito ad una levata di scudi degli altri Paesi membri.

La questione non è, in alcun caso, se rilanciare una qualunque "ricerca della lingua perfetta", ma affrontare un problema, ben reale, sia di comunicazione e di democrazia linguistica non solamente all'interno delle istituzioni europee ma anche tra i cittadini europei, sia un problema finanziario e di bilancio (le implicazioni in termini finanziari dei diversi servizi di traduzione e d'interpretariato di una Unione a 9 lingue rappresentano oltre l'1% del bilancio globale).

Il primo problema è di natura istituzionale. In effetti secondo il principio di sussidiarietà, che vuole che ciascun problema sia trattato al livello più pertinente alla sua natura e dimensione, il settore "dell'educazione e dell'insegnamento" è rimasto quasi esclusivamente (con l'eccezione, per esempio, delle procedure di equivalenza dei diplomi) di competenza nazionale. Per il 1996 un primo obiettivo potrebbe essere quello di attribuire alle istituzioni europee le competenze relative alla definizione di una politica europea di comunicazione linguistica, lasciando agli Stati a alle regioni la sua esecuzione.

Il secondo problema da affrontare, politicamente molto più difficile, riguarda la natura di questa nuova politica europea. Pur se le proposte attuali appaiono manifestamente non in grado di fornire una risposta convincente, è doveroso constatare come l'unica proposta alternativa, quella volta all'insegnamento generalizzato di una lingua "artificiale" in tutte le reti europee d'insegnamento, soffra di un pregiudizio oggi largamente - ed è un eufemismo - negativo. Un pregiudizio che i principali sostenitori di questa opzione, gli esperantisti, contribuiscono, volenti o nolenti, a mantenere coltivando equivoci di tipo utopistico.

Il che porta ad affrontare il terzo problema, forse il più delicato, quello del ruolo di questa lingua artificiale. Conviene essere particolarmente chiari. Questa lingua deve essere una lingua di comunicazione, dunque una lingua ausiliaria; non sostituirsi alle lingue nazionali, o prendere il posto di questa o quella delle lingue straniere conosciute. Essa è lo strumento di comunicazione comune a tutti, la seconda lingua di tutti. Studiata come tale da tutti, creerebbe le condizioni di una pari opportunità nella comunicazione (ciò che è molto raro nel caso in cui una lingua impiegata è lingua materna per una parte degli interlocutori, seconda lingua per l'altra). Molteplici studi dimostrano peraltro che il suo apprendimento favorisce quello successivo di altre lingue.

Infine, la struttura particolarmente logica di tale lingua la rende particolarmente propizia ad una utilizzazione come lingua di riferimento giuridico. Ciò che eviterebbe le interpretazioni divergenti come è spesso il caso oggi nelle organizzazioni internazionali, che utilizzano più lingue di riferimento giuridico (il caso più conosciuto è quello di una risoluzione dell'ONU sui territori occupati, i cui testi inglese e francese danno luogo a interpretazioni completamente differenti).

7. Come arrivare al 1996 ?

Avendo così delineato, a grandi tratti, quale Europa dovrebbe uscire dalla riforma del 1996, non è possibile chiudere ignorando che, allo stato, le possibilità che la Conferenza intergovernativa si chiuda con un accordo unanime su un'Europa forte, federale e democratica sono alquanto remote. Le crescenti divisioni tra gli Stati membri quanto al futuro dell'Unione lo dimostrano ampiamente: che fare se la Conferenza rischierà di concludersi con un nulla di fatto perché non è possibile raggiungere un consenso sulle modifiche da introdurre?

E' necessario fin d'ora porre il problema del metodo da adottare per la revisione del Trattato; non si può più - le esperienze dell'Atto Unico e di Maastricht lo hanno dimostrato in modo lampante - lasciare le sorti dell'Unione nelle sole mani di una conferenza di diplomatici obbligati a raggiungere un consenso, magari di basso profilo e pieno di ambiguità e contraddizioni, come è successo a Maastricht: bisognerà andare oltre lo stretto quadro giuridico definito per questa riforma dal Trattato di Maastricht con l'articolo N: il negoziato tra gli Stati deve essere aperto e condotto su scelte chiare; il PE, espressione della legittimità democratica a livello europeo, deve esservi associato, attraverso una procedura che potremmo definire di "co-decisione costituzionale"; infine, già da ora gli Stati membri sono chiamati ad aprire il dibattito, in vista di un accordo sul modo più adeguato per evitare che l'unanimità richiesta dall'art. N costringa tutti ad uniformarsi a compromessi mediocri o porti all'impasse.

Solo così, con un impegno "politico" - precedente la fase conclusiva del negoziato - a voler seguire comunque questa via, sottoponendo poi i risultati ad un referendum europeo di ratifica, è possibile fare davvero dell'Unione europea affare di tutti i cittadini, progetto capace di affrontare, armati di ragionevolezza, il ventunesimo secolo.

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III parte

Roma, 14 gennaio 1995

Care compagne, cari compagni,

sono profondamente spiacente di non poter aprire io stessa, come avrei voluto e come ero tenuta a fare, il 37· Congresso del Partito radicale. Da domani, infatti, mi trasferirò nella sede europea dove assumerò formalmente l'incarico che mi è stato affidato dal governo italiano. Invio dunque un caloroso saluto e un augurio fervido di buon lavoro a questo congresso che ho preparato e indetto, e al quale sono affidate decisioni fondamentali per quello che è ancora, posso dirlo, il mio partito, il Partito radicale transnazionale e transpartito delle speranze non solo italiane per la crescita del diritto e della nonviolenza al di là delle frontiere e nel cuore della comunità dei popoli.

Questa mia è una relazione manchevole: manchevole di tutte le parti che dovrebbero riferirsi al periodo di tempo che intercorre da oggi all'apertura della vostra assise: dal 14 gennaio, dunque, al 7 aprile. Tre mesi che porteranno qualche elemento fattuale nuovo, ma che non penso possano incidere sul nocciolo dei problemi che il partito si trova ad affrontare: e dunque, da questo momento, consentitemi di dimenticare e di non tener più conto del periodo di tempo che effettivamente ci separa, e di rivolgermi a voi congressisti al presente, come se fossi dinanzi a voi a leggervi queste poche pagine.

Questo 37· congresso è stato convocato in due scadenze. Ad un certo momento abbiamo deciso infatti di posticiparlo al 7 aprile, per abbinarne lo svolgimento con la marcia delle Palme di domenica 9 aprile. Sapevamo che la coincidenza avrebbe creato un problema aggiuntivo, perché avremmo dovuto ulteriormente ridurre i tempi congressuali, ma siamo convinti che i due eventi, ambedue indirizzati ad un unico progetto politico, saranno rafforzati dalla contiguità. Dobbiamo ora far sì che quella decisione risulti funzionale, lavorando su positivi risultati congressuali e facendo sì che la marcia sia incisiva sull''opinione pubblica e nel dialogo con i suoi interlocutori. I due eventi dovranno essere occasioni di crescita.

Ma intanto possiamo aprire il nostro dibattito con la piena consapevolezza di aver in questi anni compiuto un lavoro che, senza sicumera ma con tranquilla fierezza, posso definire di grande rilievo. Oggi il diritto, la vita del diritto, può contare su un valido strumento giurisdizionale a livello mondiale. Il Tribunale Penale è stato incardinato, ampliando le prospettive aperte dal Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia. Non è detto che riuscirà a superare gli ostacoli frapposti al suo funzionamento, ma c'è, e costituisce esso stesso il punto di partenza per una ulteriore - possibile, necessaria - nostra iniziativa; all'ONU, sulla pena di morte, si è finalmente aperto un grande confronto, di valore storico, e gli Stati, tragiche divinità assolute del nostro secolo, sono stati portati a mettere in dubbio il mito di una sovranità collocata al di sopra dei diritti civili e del diritto alla vita.

Questo lavoro, lo abbiamo compiuto tutti assieme, a Roma come a Mosca o a Zagabria, a Sofia o dovunque vi siano dei nuclei, dei cittadini che, nella loro apparente solitudine ma collegati da una comune profonda trama di convinzioni e di speranze, hanno sostenuto il comune sforzo: acquistando una tessera certo costosa, inviando fax, diffondendo i nostri fogli, i nostri comunicati, la nostra povera, essenziale informazione, organizzando e partecipando alle diverse iniziative e manifestazioni militanti e nonviolente, scrivendo lettere, sempre presenti e attivi in contesti difficili, ostili, lontani: sia a Roma che in qualsiasi città dove i conflitti, gli odi etnici, le incomprensioni razziali, culturali, religiose scavano abissi tra cittadino e cittadino, tra uomo e uomo e tra uomo e donna, negando alla radice quell'"irreductible humain" su cui, come ha detto Boutros-Ghali, si edificano i valori, le speranze, che ci costituiscono in comunità di dialogo.

E se pure dobbiamo sempre tener presente, ad evitare pericolosi errori di valutazione, che il raggiungimento dei due obiettivi è stato reso possibile anche per l'efficace intervento di un soggetto politico "nazionale", la Lista Pannella-Riformatori (a cui, in un momento elettorale difficile e controverso deve andare oggi il nostro caloroso saluto e il nostro più vivo augurio) e per l'attenzione prestata dal parlamento dal governo italiani a questi temi, abbiamo comunque ampio motivo di essere soddisfatti, nella consapevolezza che l'ideazione, come l'iniziativa e tutto il quotidiano, defatigante, necessario lavoro è stato compiuto da quel pugno di militanti che costituisce l'unica classe dirigente consapevolmente transnazionale del nostro tempo.

La nostra soddisfazione non può essere però piena e limpida: essa è offuscata e ferita, nell'intimo, dal vuoto lasciato dalla scomparsa inaspettata, dolorosa e violenta di tre nostri compagni: Alberto Torzuoli, Andrea Tamburi e Mariateresa Di Lascia. Compagni preziosi, ed amici cari: Alberto nella sua generosità di militante sempre pronto e disponibile ad ogni necessità e chiamata del partito, insostituibile nel coprire alle incombenze più diverse e delicate senza chiedere per sé; Andrea, per come, senza esitazioni, aveva saputo abbandonare una esistenza tranquilla e fattiva per abbracciare con entusiasmo il lavoro, pieno di incertezze e spesso ingrato, del militante proiettato in realtà diverse e lontane; Mariateresa per quanto, in anni di militanza, ci ha donato con la sua parola aspra e sollecita, con la sua intelligenza umana e politica dei rapporti e dei valori che devono necessariamente presiedere ad una impresa quale è la nostra. Parti essenziali, l'uno e l'altro di questi compagni, e ciascuno a suo m

odo, del corpo del nostro partito, che si è costruito e ha potuto vivere negli anni, nei decenni, solo per l'apporto di tante diverse esperienze, incomparabili e tutte necessarie. A loro, ad Alberto, ad Andrea, a Mariateresa il nostro ricordo e il nostro saluto.

Gli ultimi due anni, quelli trascorsi dalla Assemblea di Sofia ad oggi, sono stati - ripeto - intensi e produttivi. Il bilancio che se ne può trarre e di una importanza che ancora, probabilmente, non possiamo valutare appieno. Una esposizione puntuale e dettagliata, una cronologia precisa e comprensiva di queste vicende vi sono già state distribuite, come parte prima e seconda (più i vari allegati) di questa mia relazione introduttiva. Ho scelto questa via per risparmiare un po' dello scarso tempo disponibile (lo sapete, abbiamo dovuto ridurre questo congresso al minimo, costrettivi dalla esiguità delle risorse finanziarie disponibili). Senza dunque ripercorrere minutamente le tappe che hanno segnato questi anni, mi limiterò a un rapido schizzo di valutazione e di sintesi, finalizzato a trarre immediatamente alcune basi di discussione alle vostre decisioni congressuali. Decisioni, anticipo ancora, che ritengo debbano ruotare attorno a una sola, precisa, inequivoca scelta: che può essere riassunta - come fac

cio - nella consapevolezza di dover considerare chiuso un ciclo della vita del partito e di dover compiere un'altra volta, come già nel passato e sia pure con forme diverse e soluzioni diverse (vi ricorderete certamente di un consiglio federale tenutosi a Bohinj, nell'allora Jugoslavia) una drastica rottura di continuità con il nostro ieri.

Proprio i nostri indiscutibili successi ci consigliano - ci ingiungono - una decisione come questa, per dolorosa che ci appaia e oggettivamente sia. Certamente abbiamo commesso errori, ma nulla che ci possa indurre a cambiamenti essenziali di rotta. E il primo elemento forte e positivo è ancora nella scelta iniziale. Alla luce di tutta la nostra esperienza, è sempre più evidente che la scelta politica su cui il partito transnazionale venne disegnato, progettato e, in parte, realizzato dal Congresso di Budapest del 1989, era ed è giusta, previdente, di lunga prospettiva. Non ho né dobbiamo avere alcun pentimento, e non dobbiamo quindi pensare di poter risolvere i problemi di oggi attraverso una via riduttiva, rinunciataria rispetto a quello che siamo stati e siamo. Io non lo consentirei. Mai come oggi avvertiamo, nel disordine che ci circonda in ogni parte del globo, che la sfida di organizzare come partito la politica del diritto e della nonviolenza era, è, valida, necessaria e urgente. E, mentre non crediam

o nei progetti che cercano di imporre un "ordine nuovo" al mondo attraverso accordi multilaterali di Stati, o attraverso l'esercizio monopolistico della forza di polizia da parte di un solo Stato (cosa a volte necessaria ma non soddisfacente e sopratutto non risolutiva) pensiamo che sia fondamentale ancora impegnarci perché - come era scritto nel nostro documento di Budapest del 1989 - "alla stessa ora, nello stessa forma, in più parlamenti siano presentati analoghi disegni di legge, o uno stesso disegno di legge" per promuovere, in una dimensione transnazionale, diritto e giustizia. In stretto e positivo collegamento con questa è l'altra nostra caratteristica, di essere una internazionale ad adesione diretta, non mediata dalle burocrazie dei partiti "nazionali", capace di coinvolgere cittadini di ogni paese intorno ad iniziative politiche a carattere nonviolento promosse o sostenute nei vari parlamenti nazionali dai parlamentari iscritti anche al Partito radicale.

Tenendo la barra fissa su queste indicazioni, abbiamo combattuto con successo all'ONU le battaglie per il tribunale penale permanente e per l'abolizione della pena di morte.

Nelle due parti precedenti della mia relazione troverete la cronaca e una valutazione anche delle altre iniziative che hanno assorbito le energie nostre e delle associazioni assieme alle quali le abbiamo condotte, inquadrandole sempre, sul piano del metodo, sotto il denominatore di quell'antiproibizionismo radicale che cerca, attraverso la definizione e la conquista di leggi positive, di sviluppare in primo luogo la libera responsabilità dei singoli, dei cittadini. Nella varietà dei temi affrontati, esse sono dunque un nostro patrimonio unitario, del quale non vi è nulla da rifiutare o accantonare.

Se si limitasse a tirare le somme di quanto abbiamo fatto, sembrerebbe naturale che il congresso debba porsi come suo obiettivo quello del COME sviluppare ulteriormente le varie iniziative. Ed è proprio quel che abbiamo cominciato a fare quando abbiamo indetto il congresso, ponendoci una serie di domande, tutte essenziali, e cercando di dare loro una risposta.

Dunque, in prima sintesi: A quali progetti, a quali inizitive il partito dovrebbe dare priorità? E quale dimensione, quali strutture sarebbero necessari, a partire da domani, per impegnarci sui diversi fronti appena ricordati, per aprire nuove sedi, per affrontare nuovi temi? E' il partito, con il gruppo militante e dirigente di questi anni, in grado di garantire l'iniziativa politica ai livelli necessari e adeguati?

Altrimenti detto: quali investimenti finanziari sarebbero necessari, magari per mantenere i livelli attuali o anche per immaginare una dimensione più ampia e adeguata alle nuove esigenze? Possiamo individuare possibili nuovi apporti, di individui e organizzazioni politiche "altre"? Ci sono, nell'occidente o nel centro-est europeo persone, parlamentari o cittadini in grado di assumere ora responsabilità di dirigenti del partito?

E poi, del tutto "ovviamente": come far crescere la comunicazione di un soggetto politico che ha avuto e ancora avrà come interlocutori le Nazioni Unite e i parlamentari, ma vuole raggiungere anche cittadini e singoli, per coinvolgerli in modo diretto in iniziative militanti? Potrà per esempio il Partito radicale, nell'imminenza di una rivoluzione tecnologica destinata a sconvolgere il futuro del mondo, ignorare, non avvalersi dei nuovi strumenti telematici? Ma, anche qui, quali investimenti, quali conoscenze e competenze, quanto tempo occorrerebbero?

Abbiamo ormai accertato che per garantire gli attuali livelli di presenza occorre realizzare un flusso annuale - costante e stabile, di iscritti (o constribuenti non-iscritti) - che sia dell'ordine di dimensione di quello raggiunto con la campagna 1992-1993, vale a dire di circa 30000 iscrizioni a quota "italiana". Ma esistono altre situazioni in grado di garantire un simile apporto, così da ridurre l'ipoteca e l'attesa che oggi grava solo sul cosidetto "serbatoio italiano"?'

E infine: l'azione del Partito radicale deve privilegiare alcune aree, già note e sperimentate, oppure cercare di aprirsi anche ad altre, come l'Africa, che non apportano risorse economiche ma hanno mostrato di poter accogliere il suo messaggio?

Di fronte a tante domande - alle quali non si può, responsabilmente, dare una risposta evasiva o elusiva se si vuole che il Partito radicale transnazionale sia non un mero fatto di testimonianza ma un soggetto politico commisurato ai suoi obiettivi e sopratutto alle necessità del nostro tempo - dobbiamo tener presente, con franchezza, senza aver paura della realtà, senza nasconderla sopratutto ai nostri occhi, un dato estremamente preciso e puntuale: Il partito attuale, nella sua classe dirigente e militante, nelle sue forze effettive - quelle che sono impegnate fulltime nel lavoro oscuro, faticoso, essenziale, di sviluppare con iniziative quotidiane, passo passo, le singole iniziative, da New York a Roma a Mosca, ecc., o anche quelle che danno al partito la risorsa, limitata ma importante e preziosa del loro "tempo libero" inteso come momento di dedizione, di intelligenza, di partecipazione, ecc. - non può contare complessivamente su più di 200 persone circa.

Tentar di rispondere alle domande, tentare di sciogliere i vari problemi non tenendo presente, rimuovendo questo ineliminabile dato di partenza, sarebbe irresponsabile, illusorio e pericoloso. A questa elementare realtà dobbiamo restare ancorati, se vogliamo che ogni nostro progetto abbia un senso preciso e non sia una aspirazione illusoria, per noi e sopratutto per quanti, sapendo della nostra presenza, scaricano su di noi, sul partito, speranze o sogni, così sgravandosi della responsabilità di fornire un contributo alla loro realizzazione.

Noi non possiamo, non dobbiamo assolutamente consentire di diventare un alibi, agli occhi di nessuno: neppure ai nostri.

Ma altre considerazioni si sommano a questa prima, non meno urgenti, impellenti, alle quali non si può sfuggire, ignorandole o sottovalutandole o, magari, scaricandosene. Io ho cercato di farmene carico, giungendo alla conclusione che esse condizionino in modo determinante le scelte che sono dinanzi al congresso, se non si vuole fare fughe in avanti.

Le cifre della relazione finanziaria presentatavi dal tesoriere parlano da sole: questo partito per vivere al minimo delle attività ha bisogno mediamente di 330/350 milioni la mese, circa 4 miliardi all'anno. Come potete vedere dagli allegati, tale cifra media mensile comprende quanto è minimamente indispensabile a tener aperte - solamente "aperte" - via di Torre Argentina, Budapest, Bucarest, Tirana, Varsavia, Zagabria, Mosca, Kiev, Baku, Tbilisi, Erevan, San Pietroburgo, Vilnius, Minsk, Alma Ata, Tashkent, Praga, Sofia ed ora, se si vuole, New York, corrispondendo un minimo di rimborso spese ai compagni che vi operano, oltreché per consentire alle associazioni che ospitiamo nella sede di Roma di avere una struttura di base e i servizi indispensabili.

Ma 350 milioni al mese sono sufficienti solo alla sopravvivenza quotidiana; non a sostenere efficacemente, a rilanciare una sola campagna politica dell'ampiezza di quelle condotte nei confronti dell'ONU sulla pena di morte o sul Tribunale speciale: tanto meno per affrontare, con realismo, gli altri obiettivi indicati da documenti e mozioni, con la massa dei problemi, delle necessità, che impongono o imporrebbero.

350 milioni al mese, quattro miliardi l'anno sono, in sostanza, troppo poco per le idee e i progetti che il partito della nonviolenza, del diritto quotidianamente produce. Né, d'altra parte, vogliamo abbandonarci alla mera sopravvivenza. Io respingo con decisione, e mi auguro che il congresso abbia analoga sensibilità, una simile prospettiva. Il problema da sciogliere è esattamente l'opposto: come crescere, come divenire adeguati per rilanciare i nostri obiettivi?

Ci si ripresenta, insomma, una situazione finanziaria che per l'ennesima volta pone a rischio il progetto radicale. Abbiamo tentato di affrontarla subito, non appena essa cominciò a chiarirsi ai nostri occhi nella sua gravità, rallentando o impedendo le attività nel semestre precedente il congresso. Non abbiamo trovato soluzioni accettabili. Né facciamoci illusioni (lo dico subito prima che qualcuno cerchi di riproporla in congresso): una ripetizione della campagna iscrizioni del 1993 in Italia, quando si associarono al partito circa 30.000 persone dandoci un periodo di respiro e qualcosa anche di più, è irripetibile: la congiuntura politica italiana è profondamente mutata e non si vede una ipotesi di sbocco a noi favorevole come avvenne - anche a seguito di un "felice equivoco", come venne definito - nel 1992/1993. Certo, se dovessero presentarsi imprevisti eccezionali, tali da mutare il quadro e da rendere ancora aggredibile il cosidetto "serbatoio italiano" saremo come sempre pronti a cogliere l'opportuni

tà; ma sarebbe assurdo farci conto oggi. E, d'altra parte, un Partito radicale che dovesse ogni anno dedicare la maggior parte delle sue energie per raggiungere quel numero minimo di iscrizioni o sottoscrizioni che fosse indispensabile alla sopravvivenza pura e semplice è impensabile: sarebbe una struttura antieconomica e improduttiva, o produttiva solamente della propria perpetuazione: questo è il destino cui si sono votati troppi altri soggetti, esaurendo in esso le stesse proprie ragioni di vita. Noi, questo, non lo vogliamo.

Il combinarsi dei problemi e delle difficoltà finanziarie con i problemi e le difficoltà di ordine più schiettamente politico è, come vedete, tale da porre ostacoli insuperabili, e da imporre scelte drastiche e risolutive.

Io non ho altra indicazione da proporre al congresso, pertanto, se non che si debba prendere atto della conclusione di un ciclo, quello nel quale abbiamo pensato, realizzato, fatto lavorare - e bene - un certo modello di partito, con certe strutture e un certo modello di organizzazione, di radicamento, e per conseguenza certe incomprimibili necessità in fatto di risorse umane, finanziarie e strutturali. Questo ciclo - durato complessivamente circa 6 anni - va considerato chiuso. Va chiuso, ripeto, un periodo, non va chiuso il partito, né va minacciata, come facemmo nel 1992-93, la sua chiusura. Allora, quel che possiamo ragionevolmente fare, è di affrontare un periodo che penso debba essere di "straordinarietà", di "sospensione", cioè di riflessione e di ripensamento generale su quanto abbiamo fatto e su come, se e quando sarà possibile avviare un nuovo inizio, ancorato al passato ma anche, in strumenti e strutture, in risorse e modalità, radicalmente diverso.

Non è un escamotage, né un appello per l'ultima prova, per l'ultima scommessa. Non è una ripetizione del 1989 a Budapest, quando le strutture del partito vennero azzerate e la sua gestione affidata a un "quadrumvirato", che sciolse la riserva, e rilanciò il partito, nel 1992/1993; non è una ripetizione della scommessa del congresso del 1992, nelle sue due sessioni, quando lanciammo la sfida dei 30.000 nuovi iscritti dal "serbatoio italiano". Come ho detto, non siamo davanti a nessuna delle due ipotesi, anche se il richiamo ad esse può essere suggestivo.

La situazione in cui ci troviamo ha una sua precisa specificità. Essa presenta anche, e li ho sottolineati, problemi, condizionamenti, finanziari: ma deve innanzitutto fronteggiare un problema che è politico: il problema di una classe militante e dirigente insufficiente, non certo per qualità ma per dimensioni, a sostenere una ipotesi di crescita del partito.

Problema di classe dirigente. Lo ripeto: una classe dirigente che, nella sua duplice composizione di coloro che sono impegnati full time e di quanti sono invece impegnati in quote, seppur consistenti e moralmente assorbenti, del loro tempo, non supera forse di molto (se lo supera) il numero di duecento persone, ha potuto compiere, realizzare, quello che ha realizzato in questi anni (e di cui anche il congresso è conferma); ma domani, e già oggi, ogni giorno, dobbiamo constatare che in questa dimensione non è più possibile lavorare con una prospettiva valida. Ce ne aveva avvertito anche l'allora tesoriere Paolo Vigevano, nella relazione tenuta all'Assemblea di Sofia, ma fino ad oggi la situazione non è sostenzialmente mutata.

Certo, possiamo e dobbiamo chiederci cosa sarebbe successo se anche altrove, in altri Paesi, e sia pure in parte minima, si fosse verificato quanto ha caratterizzato in questi anni - in risorse e militanza - il cosidetto serbatoio italiano. Ma un tale apporto, o un apporto paragonabile, è mancato. Di ciò il congresso deve prendere atto, su questo deve riflettere, e rispetto a questo dare una risposta: se è vero che si sono iscritti in questi due anni più di quattrocento deputati e parlamentari di vari paesi, e se questo apporto è stato, in più di una occasione, determinante, prezioso, per fare conseguire al partito alcuni dei suoi successi, va anche denunciato, con forza, che solo in pochissimi casi questi nostri (ripeto, nostri) parlamentari hanno avvertito l'importanza di un loro più consistente contributo di presenza e di collaborazione - non a full time, ma nel loro "tempo libero", come noi lo concepiamo - che fosse il "valore aggiunto" su cui far leva per dare al partito la dimensione, la forza necessar

ia.

Oggi, sono presenti al congresso alcuni, molti parlamentari, sopratutto provenienti dall'Europa dell'Est. Davanti a questa relazione, e ancor più dallo svolgimento del congresso, essi potrebbero essere spinti a pensare: cosa stiamo a fare qui, dove non si parlerà che pochissimo di Bosnia, di Macedonia, di Cecenia, o di Russia, ma di altro, che è però distante dai nostri problemi? A questi dubbi io rispondo subito: il primo obiettivo da porsi, se si vuole non solo "parlare" ma agire efficacemente sulla questione Bosnia e sulle altre cose, è il come fare vivere, crescere e rendere forte il Partito radicale. Noi in definitiva non rimproveriamo a questi compagni di non avere "dato" al partito, ma di non esserselo "preso", di non averlo occupato, di non averne fatto cosa propria, di non aver saputo o magari di non aver potuto farsi una forza di questa appartenenza, di questa militanza, per rafforzare la loro "presenza" nazionale. Cari amici, deputati della "Duma", o del parlamento bosniaco, o bulgaro: sta a voi r

ovesciare i termini della questione, e fare di questo partito transnazionale una bandiera o un'arma per le vostre battaglie "nazionali". E' per questo che il Partito radicale è non solo transnazionale ma anche transpartito! In queste ultime settimane, in Voivodina, una intera classe dirigente e politica si è iscritta. Mi auguro che questi nuovi amici sappiano condurre, issando la bandiera di Gandhi, numerose e forti battaglie per la Vojvodina, utilizzando il sostegno del partito e dei suoi militanti italiani o francesi o di altra parte del mondo. Quello della Vojvodina è un esempio da imitare e da moltiplicare, in termini attivi, non di mera, solo formale, presenza.

Se è questo uno dei maggiori nodi da sciogliere, è evidente che io non posso dare una risposta, non posso dare soluzioni. Posso solo pormi in attesa che maturi qualcosa che non è in mio potere. Ecco perché non ho altra indicazione da dare al congresso se non di consentire a tutto il partito una pausa, appunto, di riflessione e di ripensamento globale. Non chiusura, non simulazione, non minaccia, non appello alla buona volontà, o ai sensi di colpa di qualcuno.

Come questa "pausa" di riflessione debba essere articolata, attraverso quali strumenti e forme, non saprei, ora, dirlo. Tutto ciò deve formare oggetto del dibattito congressuale. E' però mia convinzione che una gestione straordinaria quale è quella che vi suggerisco richiederà strutture e forme straordinarie, da vero e proprio "commissariamento". Un commissariamento che sarebbe di "liquidazione" se fosse indirizzato fin da adesso, per mandato, verso una tale soluzione. Non di questo si tratta però, evidentemente: l'organismo straordinario di gestione, il "commissario" insomma, dovrebbe avere pieno e libero mandato di esplorare, sia pure in un tempo determinato, le strade possibili di rilancio, in forme nuove, del partito, come partito "vincente", proiettato verso il positivo, non rinchiuso in se stesso, non in stallo. Solo in estrema ipotesi, quando ogni verifica fosse stata fatta, ogni possibilità fosse stata esplorata, potrebbe configurarsi la necessità di una chiusura definitiva di questa nostra esperienz

a politica. Certo, questa è una grave responsabilità per una sola persona, ma anche un modo di affrontare il problema in linea con la nostra tradizione istituzionale, tendenzialmnente "monocratica", responsabilizzante. Si potrebbe peraltro pensare anche che il "commissario" si avvalga - liberamente e senza vincoli di sorta - dei pareri di un gruppo di iscritti da sentire nelle forme e nei tempi più acconci, e dunque scelti in modo da essere effettivamente consultati (dovrebbe essere un gruppo ristretto, non pletorico come l'attuale Consiglio generale, una cui riunione viene a costare al partito poco meno di un vero e proprio congresso).

Questo periodo, di straordinarietà, di sospensione, di commissariamento (o come vorremo chiamarlo) non dovrà essere però un periodo di inerzia per nessuno dei compagni. Al contrario. Le domande che ho posto all'inizio restano, ed esigono risposte che non potranno essere trovate dal solo commissario o altro organo che pensiamo di nominare. Il compito investe tutti e ciascun iscritto, e sarà anche importante preordinare i canali attraverso i quali possa essere effettivamente svolto. E la sospensione investirà le associazioni, federate o comunque vicine, che saranno tenute a ripensare la loro attività, per capire come sia possibile rafforzarsi, divenire più autonome dal partito e anche meno gravanti su di esso.

Se noi osserviamo il lavoro svolto dalle associazioni possiamo dire di essere soddisfatti. Alcune hanno mostrato capacità di iniziativa ed anche una certa forza di organizzazione: non può esservi federazione se non tra soggetti veri, che nel federarsi mettono in comune una parte dei loro progetti e delle loro stesse strutture ma autonomamente possono esprimere altri lati della loro iniziativa. Altre, invece, non hanno raggiunto la "massa critica" necessaria per dar luogo alla loro autonomia e ad una vera federazione, come noi la intendiamo. A volte, anche nel recente passato, si sono avuti momenti di confronto critico, tra il partito e l'una o l'altra delle associazioni: rivendicando, questa, la sua compiuta e perfetta autonomia mentre non poteva non essere osservato che essa avrebbe potuto vivere solo se sostenuta dal partito e dai suoi strumenti finanziari ed operativi.

Questa dialettica si è ripetuta molte volte, nei più che trenta anni di vita del Partito radicale: dalla Lega Italiana del Divorzio in poi, c'è sempre stato aperto confronto tra i poli costitutivi dell'associazionismo radicale: ed esso non si è mai sciolto adottando una soluzione netta, automatica, alla problematica in gioco. Partito di associazioni, allora? Ma come negare che il partito ha sempre avuto una funzione prioritaria, trascinante, indispensabile anche sul piano organizzativo e della responsaqbilità finanziaria, rispetto alle associazioni? Dunque, nessuna soluzione netta e definitiva, ma soluzioni "politiche" nella consapevolezza che questa pluralità di presenze non debba dar luogo ad una frammentazione, ad una "specializzazione" tecnico-burocratica di compiti.

Al momento in cui convocammo il congresso, pensammo che fosse necessario, o comunque opportuno, prevedere, o cominciare a pensare, a modifiche dello statuto. Avevamo sperimentato incongruenze, difficoltà, veri e propri errori nella forma statutaria che ci eravamo dati a Sofia. La tenuta biennale del congresso, ad esempio, così come la convocazione periodica del Consiglio generale sono elementi irrealistici, se consideriamo le nostre effettive possibilità finanziarie: pensammo quindi di proporre modifiche che rendessero più snello, efficace, il funzionamento delle strutture, magari grazie all'utilizzazione degli strumenti telematici - quelli che stanno già rivoluzionando i mercati, l'informazione, i metodi di organizzazione, e proprio in un senso trans-nazionale (con il trattino, però!); fino ad immaginare una ipotesi di vero e proprio partito "telematico" (che è cosa diversa da un partito che utilizzi la telematica....).

Quasi subito, però, ci siamo resi conto che il problema dello statuto diveniva ormai secondario, persino distraente. Dunque non dovremo passare, per realizzare le forme della nostra"sospensione", attraverso una riforma statutaria. Lo statuto, per ora, resti come è: ma resta anche il suo problema, e anzi dovrà essere uno dei primi affrontati nel periodo della sospensione.

Quelli che vi ho sottoposto in questa terza parte della relazione sono solo suggerimenti, proposte: Ma, credetemi, valutate e ponderate con estrema attenzione. Sono suggerimenti e proposte che io vedo in positivo, proiettate verso una riconversione strutturale del partito per rilanciarlo, per farlo crescere. Per questo occorrerebbe che il congresso si assumesse coraggiosamente la responsabilità di "ratificarle" nella loro globalità, per potersi concentrare sui modi adeguati a "governare" la transizione, senza compiere fughe in avanti e senza ritirarsi nella conservazione statica e infruttuosa del passato, nelle sue forme morte, che rischiano di disperdere anche la sostanza, per puro amore di autoconservazione. Io mi auguro che questo senso di responsabilità prevalga, sia che si accolgano le mie proposte sia che altre ne vengano presentate.

E, se ciò (come io credo) può confortarci nella nostra scelta perché ci dice che non siamo soli a combattere queste battaglie transnazionali, vorrei ricordare due significativi, recenti eventi: da una parte il fatto che, nel loro primo congresso, i Riformatori della Lista Pannella hanno assunto quasi integralmente, nel documento conclusivo, i temi che sono al centro della nostra iniziativa; dall'altra il fatto che al Parlamento europeo si è costituito un gruppo, nel quale sono confluite forza di diversa provenienza ideale e nazionale, che ha una forte caratterizzazione federalista-europea e transnazionale e dunque potrà portare in quella sede iniziative nostre o nelle quali potremo riconoscerci senza residui. Non si tratta di contributi da poco: lo sappiamo bene per quanto riguarda i compagni Riformatori e della Lista Pannella, e ce lo auguriamo per quel che concerne il gruppo parlamentare di Strasburgo.

Care compagne e compagni, cari amici,

mi auguro anche che il vostro dibattito sia, pur nella stringatezza imposta dalla scarsità di tempo, attento e aperto agli scenari che abbiamo intorno e a quelli che già sono prevedibili. Nel mondo, in Europa, in Italia le cose stanno rapidamente cambiando, i problemi aperti sono diversi da quelli che avevamo a Budapest o anche a Sofia. Basti un significativo esempio. Alle sedi che abbiamo in vari paesi, abbiamo aggiunto quest'anno quella di New York. L'abbiamo aperta un po' casualmente, per poter seguire al meglio i lavori dell'Assemblea delle Nazioni Unite, il suo dibattito. Ma è stata una esperienza importantissima. Innanzitutto perché, appunto, ci ha messo in quotidiano contatto con la Comunità internazionale dei popoli, vale a dire con un nostro interlocutore non occasionale, e in particolare con Boutros Boutros-Ghali, al quale invio di qui un cordiale saluto ed augurio di buon lavoro. E importantissima anche perché ci ha rivelato, ci ha fatto toccare l'evidenza di un Paese come gli Stati Uniti: ma come

è possibile, ci siamo accorti, poter pensare ad una dimensione davvero transnazionale e "mondiale" del nostro impegno restando fuori, non confrontandoci con questo Paese? Ecco come, da un fatto occasionale, abbiamo tratto l'occasione per una riflessione problematica di grande rilievo circa le necessità, le urgenze, la dimensione cui deve far fronte un partito che voglia davvero operare come soggetto transnazionale nel tempo e nelle condizioni storiche e politiche che viviamo, e non voglia rinchiudersi in una dimensione comunque provinciale e insufficiente. Posso addirittura aggiungere che questo ulteriore passo verso la necessaria mondializzazione è stato causa non seconda delle decisioni gravi, risolutive, anche dolorose che vi ho chiesto di assumere nella vostra responsabilità di congressisti.

Una riflessione particolare voglio sottoporvi però per quel che riguarda l'Europa: e non solo per il fatto che nel prossimo quadriennio io sarà impegnata come commissario alla Ue per gli aiuti umanitari, la pesca e la difesa dei consumatori. Certo, in queste attività porterò tutta la forza delle mie convinzioni e la determinazione della mia militanza radicale, ancora una volta facendomi carico dell'impegno che assunsi quando arrivai al parlamento italiano: non farsi modificare dalle istituzioni, e invece cercare di modificarle, fosse solo di un millimetro o di un passo.

Ma penso che comunque l'Europa debba porsi al centro delle vostre attenzioni, senza che ciò significhi trascurare altri settori (e ricordo qui, solo per inciso, che ad esempio il sia pur minimo radicamento che avevamo in Africa si è dissolto, e mi pare che sia necessario ritentare in quella direzione, come nella direzione dei paesi mussulmani più "laici", quali sono - posso qui solo accennarvi - i paesi del Caucaso già parte dell'Impero sovietico). L'Europa si trova di fronte ad una scadenza difficilissima, la conferenza del 1996. Dall'appuntamento, l'Unione potrebbe anche uscire definitivamente in frantumi. Il disastro sarebbe incolmabile, per noi europei, per il mondo, per i paesi ell'est che ora aspirano ad entrarvi. E' dunque evidente che, se fino a ieri avevamo, quali interlocutori, l'Italia (a causa del nostro precedente radicamento) e le Nazioni Unite, a questi poli dobbiamo ora aggiungere l'Europa, in posizione se non privilegiata sicuramente prioritaria. Nelle nostre discussioni precongressuali abbi

amo anche pensato che, per segnare con forza il passaggio, sarebbe stato anche utile spostare il baricentro politico del partito più vicino alla sede del parlamento e delle istituzioni europee: dunque a Bruxelles, utilizzando le strutture a disposione degli europarlamentari radicali (oggi più cospicue che fino a ieri). Una risposta precisa in termini organizzativo/operativi non siamo stati capaci di fornirla, ma questo compito dovrebbe essere affidato al "commissario", al gruppo dei compagni che lo affiancheranno, o anche ai singoli compagni nelle loro diverse possibilità e opportunità.

Come vedete, il tempo di straordinarietà che abbiamo dinanzi non sarà un tempo vuoto. Se lavoreremo bene, esso sarà forse un tempo breve, anche se non credo che dobbiamo fissare da subito delle scadenze precise. Se lavoreremo bene: e cioè se saremo capaci di prevedere, in termini non vaghi ma strettamente operativi, un vero e proprio salto di qualità, se saremo insomma capaci di rispondere al quesito centrale: come dovrà - o dovrebbe - configurarsi il partito transnazionale e transpartito capace di superare le attuali difficoltà e anzi di farsene punti di forza per affrontare i problemi di domani?

Indicare vie, mezzi, tempi per arrivarci è compito vostro, compito del congresso. Al quale una cosa credo di dover perciò raccomandare, con estrema forza. Il tempo che avete a disposizione, gli stessi strumenti di lavoro, sono ridotti e forse insufficienti: bisogna non disperdere nemmeno un istante, non abbandonarci a guardare al passato, né per compiacerci delle cose fatte, né per recriminare fra noi. Non dobbiamo - come si dice - parlarci addosso: le prime due parti della mia relazione sono state concepite per fissare, cronologicamente e documentariamente, tutto questo che è ormai solo materiale di lavoro. Attardarvisi sopra sarebbe inutile.

E dunque, insieme al mio augurio di buon lavoro, non mi resta ora che rivolgere un ringraziamento, innanzitutto a quanti hanno prestato in questi anni il loro lavoro militante nella sede di Via di Torre Argentina; nella segreteria, ristretta o allargata che fosse, con le sue quotidiane, faticose riunioni, con le responsabilità assunte da ciascuno di quelli che ne hanno fatto parte; e non solo ai compagni della segreteria, ma a tutti coloro che, in questo o quell'ambito, hanno portato avanti con enorme disponibilità e responsabilità i loro essenziali compiti, non sempre, so bene, gratificanti; senza la loro quotidiana presenza nulla sarebbe stato possibile fare di tutto quello di cui ho fin qui parlato. Un mio particolare ringraziamento va a Marco Pannella, per la sua costante disponibilità e ricerca di dialogo, la sua offerta continua di idealità e di forza propulsiva; e quindi ai parlamentari italiani ed europei, ai militanti delle tante sedi in Italia, in Europa e nel mondo, avamposti militanti di una batt

aglia difficile ed essenziale. A tutti coloro che da semplici iscritti o da contributori hanno consentito al partito di vivere, fosse un giorno o un'ora.

Ringrazio anche quanti hanno lavorato e stanno lavorando perché il congresso si svolga nel massimo di efficacia, di serenità e di spirito di collaborazione. Sono condizioni senza le quali le prossime ore potrebbero andare perdute o sottoutilizzate. Se ciò non accadrà, lo dobbiamo a tutti coloro che per mesi hanno avuto pazienza dinanzi a quelle che erano in primo luogo mie responsabilità, mie ansie, miei problemi.

Con questo, è giunto il tempo del mio commiato da voi: commiato formale, non sostanziale: spero anzi che, dalla diversità dei nostri compiti e delle nostre responsabilità, possano nascere occasioni di stretto confronto, di iniziative congiunte o parallele, di lotte univoche e tese ad identici obiettivi, capaci di coinvolgere non solo noi ma quanti, in Europa e nel mondo, agiscono in nome di idealità e di progetti comuni. Per mia parte, cercherò di comunicare e di far capire questo messaggio a tutti gli interlocutori del mio lavoro, radicali o come vogliano chiamarsi; ma questo è anche vostro compito. E dunque, ancora una volta, viva il Partito radicale, transnazionale e transpartito, il partito del diritto alla vita e della vita del diritto, il partito della nonviolenza.

 
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