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Neppi Modona Guido - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (23) Astrattismo illuministico e questioni in tema di disciplina dell'ordine pubblico
di Guido Neppi Modona

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

Pur essendo stato chiamato in causa da più parti su entrambi i temi del Convegno, mi occuperò solo del secondo tema, quello relativo all'ordine pubblico, sia per motivi di tempo, sia soprattutto perché ritengo che le proposte di modifica alla disciplina del referendum non abbiano, almeno nei termini dei disegni di legge sinora presentati, alcuna possibilità di tradursi, né ora né mai, in legge operativa. La mobilitazione contro alcuni contenuti delle proposte modificative del referendum mi sembra giusta, ma non attuale, perché non vedo quali siano le forze politiche che si propongono di attentare coscientemente alla libera espressione della volontà popolare.

Molto più concreto ed attuale è il problema dell'ordine pubblico e del rischio che alcune delle misure di emergenza previste dall'accordo programmatico ledano i diritti di libertà sanciti dalla Costituzione. Il problema è concreto e attuale perché le misure di emergenza non solo fanno parte dell'accordo programmatico approvato nel luglio 1977 dal Parlamento, ma in parte si sono già tradotte in disegno di legge a iniziativa del Governo.

Ho l'impressione che su questo tema, che è certamente l'argomento centrale del Convegno, l'impostazione di Rodotà e di Bricola, rispettivamente sul terreno generale e su quello specifico dell'esame delle singole misure, non sia stata la più idonea per consentire di compiere una valutazione che non sia sacrificata in termini di pura logica o tecnica giuridica, ma abbia un più vasto respiro politico. Mi è parso un po' strano che un Convegno come questo, organizzato in maniera non tradizionale e rivolto soprattutto ai politici, si sia chiuso in una atmosfera di metafisica astrattezza giuridica, lasciando fuori della porta alcuni dati storici e politici contingenti, ma essenziali per l'esatta comprensione delle proposte legislative che siamo chiamati ad esaminare.

Se si fosse trattato di un Convegno accademico tradizionale, paludato, mi potrei dichiarare pienamente d'accordo con la maggior parte delle argomentazioni tecnico-giuridiche e logico-sistematiche svolte da Bricola; in un sede politica quale vuole essere questo Convegno debbo farmi preliminarmente carico di alcuni importanti dati di fatto, che, a mio avviso, sono stati un po' troppo disinvoltamente omessi, e fornire nello stesso tempo alcune prospettive concrete.

1. In primo luogo non si è tenuto conto della crescente gravità dell'attacco che in questi ultimi anni la grande criminalità comune organizzata, il terrorismo politico e le evasioni in massa dalle carceri hanno recato alla stabilità delle istituzioni democratiche. Bricola all'inizio della sua relazione ha riservato un cenno alla gravità della situazione, ma non ne ha poi tratto le logiche conseguenze; cioè non ha creato i collegamenti tra la constatazione di questa realtà e le sovrastrutture giuridiche che dobbiamo discutere.

Non si è neppure tenuto conto che vi sono profonde connessioni tra terrorismo politico, criminalità comune organizzata ed evasioni in massa dalle carceri, e che il fine ultimo di questi fenomeni è la destabilizzazione dell'attuale quadro politico. E' verissimo, come ha detto Rodotà, che vi è stato un arretramento dei livelli di libertà dalla fine degli anni '60 e dai primi anni '70 ad oggi. E' questa una constatazione che non può essere messa in discussione: basti pensare alle modifiche processuali in tema di interrogatorio dell'arrestato, di carcerazione preventiva, di libertà provvisoria. Però bisogna anche ricordare quale è la realtà quotidiana della criminalità e del terrorismo, quale è lo stato di crescente esasperazione dell'opinione pubblica, e dare atto che vi sono state delle cause e delle spinte che hanno condotto a questi arretramenti.

Inoltre, nel denunciare queste involuzioni bisogna essere in grado - ecco perché parlavo di proposte concrete - di presentare delle alternative immediate, anche nel breve periodo, a quanto sinora è stato fatto o proposto, alternative che siano in grado di combattere questi fenomeni senza sacrificare gli spazi di libertà. Questo credo sia uno degli scopi essenziali del Convegno: se si conviene e si prende atto che criminalità e terrorismo hanno creato una situazione estremamente difficile per la credibilità delle istituzioni democratiche, non basta limitarsi a criticare le misure di emergenza sinora adottate o proposte, ma alla critica, doverosa e necessaria, bisogna affiancare idee costruttive, che siano in grado di fronteggiare con maggiore efficacia la criminalità e l'eversione nel rispetto degli spazi di libertà garantiti dalla Costituzione.

2. In questa sede sono finora state completamente dimenticate le proposte democristiane sull'ordine pubblico, presentate a partire dal mese di febbraio di quest'anno; in primo luogo il fermo di polizia inteso come privazione della libertà fine a se stessa, non collegata cioè ad alcun ulteriore provvedimento, né processuale né di prevenzione. La Democrazia cristiana ha inoltre proposto la reintroduzione dell'interrogatorio di polizia dell'arrestato nel processo penale senza l'assistenza del difensore, l'istituzione di speciali tribunali regionali per i processi politici in palese dispregio del principio del giudice naturale precostituito per legge, strumenti di controllo sulla vita privata dei cittadini, quali micorospie e mezzi audiovisivi installati clandestinamente nelle abitazioni su diretta iniziativa della polizia, senza preventiva autorizzazione della magistratura.

Un discorso completo non può dunque prescindere da un lato da questo tipo di proposte, dall'altro dal clima di insicurezza e di disagio che coinvolgeva (e coinvolge tuttora) vastissimi strati dell'opinione pubblica ed anche i militanti dei partiti e dei movimenti di sinistra. Non ci si poteva pertanto limitare a dire di no appellandosi ai propri modelli culturali o tecnico-giuridici; bisognava in qualche modo trattare per evitare da un lato i guasti peggiori insiti in queste proposte e per respingere le tentazioni scopertamente liberticide, per soddisfare dall'altro la richiesta di sicurezza che saliva e sale tuttora dal Paese. Ben diversa sarebbe stata la situazione se le sinistre fossero riuscite a proporre per prime un loro piano sull'ordine pubblico, senza essere costrette ancora una volta a giocare da rimessa e in posizione difensiva; l'avere perso l'iniziativa ha costretto le sinistre a giocare su un terreno disagevole e più arretrato, ed a subire alcuni pesanti condizionamenti. E' giusto augurarsi che

per il futuro le sinistre si muovano in modo tale da uscire dalla morsa in cui le ha sistematicamente costrette la Democrazia cristiana in questi ultimi anni sui temi dell'ordine pubblico, ma esaminando il contesto concreto dell'accordo programmatico e delle misure sull'ordine pubblico non si possono trascurare i dati reali da cui ha preso le mosse il dibattito tra i partiti.

3. Questo Convegno ha sinora affrontato l'esame delle misure sull'ordine pubblico isolatamente dal contesto più generale dell'accordo programmatico che prevede, sia pure solo sul terreno dell'emergenza, una serie organica di interventi per tentare di porre rimedio nel breve periodo agli aspetti più gravi della crisi della giustizia penale e degli apparati repressivi e preventivi della criminalità.

I collegamenti tra misure di ordine pubblico e provvedimenti ordinari per risolvere alcuni aspetti della crisi della giustizia penale non possono essere trascurati, perché sono il sintomo, sia pure viziato da eccessive cautele e timori, di una inversione di tendenza, e cioè del passaggio dalla logica degli interventi settoriali e contingenti ad un disegno organico che tocca tutti i rami dell'ordinamento penale.

Vengono in considerazione in primo luogo alcune riforme parziali del processo penale contenute nella legge 8 agosto 1977 n. 534 in tema di notificazioni, nullità, connessione e separazione dei procedimenti.

L'on. Pannella, commentando questi provvedimenti, ha espresso giudizi molto severi ed ha parlato di norme giuridicamente assurde. E' mia impressione che le nuove norme processuali non meritino un giudizio così severo; al contrario esse realizzano, sia pure imperfettamente stante le loro carenze tecnico-giuridiche, alcune aspirazioni da tempo avanzate dagli operatori e sono in gran parte mutuate dai lavori preparatori del nuovo codice di procedura penale, quello di cui si parla da anni e che dovrebbe essere emanato entro l'11 maggio 1978.

L'elezione di domicilio da parte dell'imputato per le notificazioni, valida per tutto il corso del processo, è uno dei meccanismi migliori per accelerare i tempi della giustizia e per evitare defatiganti eccezioni di nullità. Per quanto concerne le modifiche alla disciplina della connessione dei procedimenti, è da anni che si sostiene che per riuscire a celebrare i processi e per evitare che in futuro si ripeta la formazione di mostri giuridici quali i processi per la strage di Piazza Fontana, per l'anonima sequestri, contro Ordine Nuovo e contro le Brigate Rosse, con decine di imputati e centinaia di capi di imputazione, bisogna adottare un sistema che consenta tendenzialmente di celebrare un processo per ogni imputato e per ogni capo di imputazione. Questa linea di tendenza è appunto presente nella legge 8 agosto 1977.

Infine le modifiche al regime delle nullità hanno sollevato veementi proteste da parte di quegli avvocati che si sono visti togliere un comodo strumento per proporre eccezioni che in realtà servivano solo a ritardare o insabbiare certi processi, ma non privano il difensore corretto ed attento della possibilità di eccepire tempestivamente le violazioni sostanziali del diritto di difesa.

Le nuove norme processuali in sé e per sé considerate sono quindi buone e potranno avere riflessi positivi sullo snellimento della macchina processuale. Il rischio insito nelle nuove norme è di altra natura; poiché si tratta di principi mutuati dal nuovo processo penale, la loro anticipata approvazione potrebbe costituire uno dei tanti pretesti per ritardare ulteriormente l'emanazione del nuovo codice di procedura penale. Ma lasciamo da parte questa problematica che ci porterebbe troppo lontano e torniamo al programma organico per fronteggiare la crisi della giustizia penale.

A fianco delle riforme parziali del processo penale sono previsti interventi amministrativi del Consiglio superiore della magistratura e del Ministero di grazia e giustizia per concentrare le scarse ed insufficienti risorse giudiziarie nei grandi centri urbani e in certe zone del mezzogiorno ove maggiore è l'incidenza della grande criminalità organizzata e del terrorismo. Questo è un dato importante, perché finalmente si è creato un collegamento tra modifiche legislative e interventi amministrativi per fronteggiare la paralisi del processo penale. Non è molto, ma è comunque il segno di un'ottica diversa, che trova conferma nell'evidente collegamento tra il programma di potenziamento delle strutture giudiziarie e il progetto di depenalizzazione dei reati cosiddetti minori. Non ci si è cioè limitati a provvedimenti che rimarrebbero fine a se stessi, perché il potenziamento delle strutture giudiziarie sarebbe comunque frustrato dal progressivo aumento del flusso dei procedimenti penali, ma si è contestualmente

previsto di sottrarre all'intervento penale una consistente fetta di illeciti.

Ulteriori sintomi di questa nuova logica di interventi istituzionali si possono intravedere in materia penitenziaria. Da un lato si parla di rilancio della riforma carceraria e della necessità di affrontare anche il riordinamento e la smilitarizzazione del corpo degli agenti di custodia, dall'altro vi è il disegno di legge sulle sanzioni sostitutive del carcere (libertà controllata) per le pene detentive brevi.

E ancora, da una parte si parla di nuove misure di prevenzione, anche estese al settore della pericolosità politica, attraverso una modifica dell'art. 18 della legge Reale, dall'altra il Parlamento ha definitivamente approvato la riforma dei servizi di sicurezza. Se finora l'art. 18 della legge Reale non è mai stato applicato, neppure nei confronti dei neofascisti, il motivo è molto semplice. Sia chiaro che non voglio qui fare l'apologia di tale norma, che è strumento di una politica del sospetto ed è per di più formulata in maniera tecnicamente infelice. Intendo solo precisare che la norma, una volta approvata dal Parlamento, poteva almeno conseguire lo scopo di disturbare l'eversione fascista. Se ciò non è stato fatto è perché mancavano dei servizi di sicurezza idonei a svolgere le indagini per applicare le misure di prevenzione ai soggetti politicamente pericolosi. Se i nuovi servizi di sicurezza verranno organizzati secondo le indicazioni della nuova legge votata dal Parlamento, se saranno politicamente

responsabili e sottoposti ad un effettivo controllo parlamentare, può acquistare un significato anche il potenziamento delle misure di prevenzione nei confronti di coloro che si propongono l'eversione dell'ordinamento costituzionale.

Si è infine dimenticato che la Camera ha approvato il nuovo Regolamento di disciplina militare, raggiungendo un obiettivo che sino a pochi mesi orsono era addirittura impensabile.

A scanso di equivoci è opportuno chiarire che queste prospettive di riforma, sia pure parziali e di emergenza, dei principali settori dell'ordinamento penale, sono per ora dei meri propositi programmatici e che vi sono notevoli rischi che si verifichino degli scarti tra le enunciazioni programmatiche e le concrete realizzazioni. Se tali scarti si verificheranno, non potrà più parlarsi di una nuova logica istituzionale, ma ricadremmo nella vecchia prassi dei rattoppi contingenti e settoriali, alla quale siamo ormai assuefatti da un trentennio di immobilismo democristiano. Se questo è vero, i rilievi critici e gli obiettivi di lotta non debbono essere circoscritti alle singole misure di emergenza sull'ordine pubblico, ma avere come punto di riferimento l'attuazione integrale di tutti i punti dell'accordo programmatico, sia al livello legislativo che organizzativo.

A mio avviso il rischio maggiore non va visto nelle singole misure che, ai limiti della legittimità costituzionale, attribuiscono nuovi poteri alla polizia, ma nella possibilità, tutt'altro che remota, che si creino degli sfasamenti tra i vari momenti di realizzazione del programma organico.

Che i rischi maggiori siano in questa direzione è dimostrato da due esempi che mettono a nudo l'estrema gravità dei guasti che si stanno verificando a seguito dello sfasamento temporale tra la realizzazione delle varie parti del programma ovvero della mancata realizzazione di alcune parti del programma.

Il primo esempio riguarda le carceri di sicurezza; su questo terreno ha pienamente ragione l'on. Pannella a denunciare gli interventi arbitrari e incontrollati del generale Della Chiesa.

Gli stabilimenti carcerari di sicurezza sono infatti stati realizzati a tempo di record, ma in maniera completamente isolata e distaccata dal rilancio della riforma penitenziaria (di cui in realtà non si parla per nulla) e dalla smilitarizzazione e dalla riorganizzazione del corpo degli agenti di custodia. Da questa sfasatura deriva che attualmente l'indirizzo impresso al mondo penitenziario ha una valenza esclusivamente afflittiva e repressiva, terroristica. Tutto ciò che doveva essere realizzato contemporaneamente al recupero della sicurezza per rilanciare la riforma penitenziaria è stato completamente trascurato. Problemi come il potenziamento delle strutture organizzative per rendere operanti istituti quali l'affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà e per consentire forme di vita collettiva all'interno degli stabilimenti, nonché stabili collegamenti con gli enti locali e con le comunità di base per rendere effettivi i programmi di risocializzazione del detenuto sono talmente lontani dal

venire affrontati e risolti che vi è da domandarsi cosa rimanga in piedi della riforma penitenziaria approvata solo due anni orsono.

Ciò che è accaduto nel settore penitenziario è un campanello di allarme di estrema gravità: la svolta autoritaria imposta alle istituzioni carcerarie è l'unico rischio concreto di ``germanizzazione'' della situazione italiana e dimostra a quali conseguenze può portare l'avere privilegiato esclusivamente le esigenze di sicurezza senza la contestuale difesa e il potenziamento dei contenuti democratici della riforma penitenziaria. Non dimentichiamo, in questo contesto, il significato che ha avuto recente riforma dell'istituto dei permessi, sacrificati sull'altare di una forsennata campagna scandalistica contro il ``permissivismo'' carcerario; in pratica i permessi, così come erano previsti nel testo originario della riforma, non esistono più, in quanto è stata abrogata proprio quella categoria che si proponeva di creare forme di collegamento tra il detenuto e la società libera e di facilitare quindi il reinserimento del condannato nell'ambiente esterno.

Il secondo rischio connesso ai diversi tempi di realizzazione del programma di interventi per la giustizia penale ci tocca ancora più di vicino, perché riguarda l'oggetto principale di questo Convegno. Bricola ha già sottolineato molto bene che le misure sull'ordine pubblico si sostanziano nell'attribuzione di nuovi poteri alla polizia, senza che venga garantita la contestuale riforma democratica della polizia stessa. La contestualità è in questo settore un obiettivo irrinunciabile, perché non si può consentire che vengano arricchiti i già vasti poteri della polizia senza avere la garanzia che vengano gestiti da una nuova polizia, che goda di un'ampia legittimazione democratica ed abbia un collegamento istituzionale con le forze sociali e sindacali. Non è ammissibile, in altre parole, che i nuovi poteri di polizia vengano gestiti dall'attuale struttura burocratica e dai suoi capi, che non danno alcun affidamento di volerli e saperli usare in maniera corretta e democratica.

Su questo punto bisogna quindi essere intransigenti: le misure sull'ordine pubblico potranno proseguire il loro cammino parlamentare solo se verranno discusse parallelamente alla riforma democratica della polizia. Il che vuole dire discussione contestuale del pacchetto sull'ordine pubblico, dell'istituzione del sindacato di polizia aderente alle confederazioni sindacali, del coordinamento tra i vari corpi di polizia, del riconoscimento dei diritti civili alla nuova polizia smilitarizzata.

4. Volendo sintetizzare quanto sinora detto, ritengo che sia troppo comodo e troppo facile in questo momento storico e politico rifugiarsi in astratti schemi di purezza ideologica e nella critica fine a se stessa; la critica in questo momento è valida solo se accompagnata da concrete proposte alternative. Mi rendo conto che è molto più gratificante e più tranquillizzante per la propria coscienza di intellettuale fare un discorso illuminista, coerente con le proprie impostazioni culturali e ideologiche, ma ritengo di non potermi esimere dal condurre un esame che tenga conto dell'attuale realtà politica, dell'attuale situazione di fatto nel paese, anche se ciò può comportare sacrifici rispetto agli schemi intellettuali che tutta la sinistra ha sostenuto sino a pochi anni orsono sui temi della criminalità e dell'ordine pubblico.

Questa precisazione mi consente di passare a quello che Bricola ha giustamente definito il problema centrale del pacchetto sull'ordine pubblico; il problema, cioè, degli atti preparatori, che costituiscono il filo conduttore delle principali misure di emergenza e dei nuovi poteri di polizia previsti nel disegno di legge governativo.

E' necessario partire dalla premessa che in questo momento è indispensabile apprestare strumenti per prevenire il terrorismo politico e la criminalità organizzata. Non so se gli uditori sono d'accordo, ma a mio avviso ci troviamo di fronte ad un fenomeno reale, che ha già recato guasti gravissimi alla stabilità delle istituzioni democratiche ed è capace di creare nel prossimo futuro guasti ancora più gravi e incontrollabili. Ha perfettamente ragione Bobbio quando ha recentemente sostenuto che non è vero che la violenza non paga; la violenza esterna, portata cioè contro le istituzioni e il tessuto democratico del Paese è pagante, perché reca inevitabilmente con sé una "escalation" della violenza di stato, una limitazione degli spazi di libertà, una svolta autoritaria. L'esempio della Germania federale è al riguardo illuminante.

Se queste premesse sono esatte e se compito di qualsiasi forza politicamente responsabile è di misurarsi su questi problemi, dal punto di vista della tecnica giuridica conosco solo due possibili vie per cercare di prevenire le attività eversive. Lascio evidentemente da parte i rimedi sociali, economici e politici, perché esulano dall'oggetto di questo Convegno.

La prima alternativa è l'estensione della portata del delitto tentato oltre i limiti dell'idoneità e dell'univocità degli atti, requisiti attualmente richiesti dall'articolo 56 del codice penale. Se si vogliono fare rientrare nell'alveo del codice penale e quindi delle garanzie del processo penale le attività preparatorie del terrorismo e della criminalità organizzata la soluzione è appunto di estendere la punibilità a titolo di tentativo ai semplici atti preparatori, a prescindere cioè dai requisiti della idoneità e della univocità degli atti. Questa via porta alla conseguenza che la garanzia di essere puniti a titolo di tentativo solo per avere compiuto atti idonei e univocamente diretti alla consumazione del delitto, e non per i semplici atti preparatori, viene a cadere non solo nei confronti dei gravissimi delitti in cui si concretano le imprese del terrorismo e della grande criminalità organizzata, ma per l'intero sistema penale. Ciò significa che per fronteggiare una situazione di emergenza, che tutti

ci auguriamo sia transitoria, si è costretti a rinunciare ad un sistema di garanzie che provengono da una secolare tradizione liberale risaliente all'illuminismo; si rischia cioè di scardinare il principio di stretta legalità, che in tema di tentativo si traduce nella garanzia di essere puniti solo quando si pongono in essere atti di esecuzione, e non atti meramente preparatori, che possono sconfinare nella semplice intenzione di commettere il delitto, non accompagnata da comportamenti esteriori.

Questi sono i motivi per cui è stata esclusa la soluzione di una modifica dell'articolo 56 del codice penale in tema di delitto tentato; sembrava infatti troppo grave rinunciare in via generale ad una garanzia così salda, che neppure il codice fascista aveva avuto il coraggio di rinnegare, limitandosi a estendere la punibilità del tentativo dagli atti di esecuzione agli atti che abbiano almeno i requisiti dell'idoneità e della direzione equivoca a commettere il delitto.

Per esclusione è stata quindi scelta l'altra alternativa, quella di intervenire nei confronti degli atti preparatori con le misure di prevenzione. La via che è stata attaccata così duramente in questo Convegno. Se vi è una terza via diversa dall'immobilismo e dalla rassegnazione, sono pienamente disponibile a recepirla, non aspetto altro che Bricola e tutti i presenti me la indichino, perché sull'efficacia che potrà avere la soluzione scelta dal disegno di legge governativo e sui suoi profili garantistici i dubbi sono più che legittimi.

Per il momento, comunque, limitiamoci a esaminare gli esatti termini in cui si pone il ricorso alle misure di prevenzione nei confronti degli atti preparatori.

Le misure di prevenzione - è inutile ricordarlo in questa sede - non godono di una buona fama; si tratta di uno strumento che ha alle spalle una consolidata tradizione liberticida, con pessime applicazioni pratiche nella storia dell'ordinamento giuridico italiano. Basti pensare al domicilio coatto, potenziato nel 1894 dalle leggi crispine contro i sospettati di sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali, e al confino, istituito nel 1926 dalle leggi fasciste di pubblica sicurezza; al di là di questi esempi particolarmente significativi, è incontestabile che nella storia dell'ordinamento italiano le misure di polizia sono state in realtà sempre usate, sotto lo schermo della tutela dell'ordine pubblico, in funzione anti-popolare, contro i militanti e le organizzazioni del movimento operaio.

Vediamo allora se questo rischio è ancora presente e può riproporsi con l'applicazione delle misure di prevenzione a chi commette atti preparatori di alcuni gravissimi delitti.

Sgombriamo subito il campo da alcune inesattezze. Nel disegno di legge governativo vi sono, è vero, situazioni in cui il concetto di atto preparatorio è privo di ogni possibile riscontro obiettivo, in quanto, come ha rilevato Bricola, le misure di prevenzione (e qui importa soprattutto riferirsi alla più grave delle misure, il soggiorno obbligato) verrebbero applicate a chi compie atti preparatori di atti diretti a commettere un delitto. Ciò avviene in tutti i casi in cui il disegno di legge si richiama agli atti preparatori dei cosiddetti delitti di attentato, quelli cioè che incriminano non un delitto consumato, ma semplici atti diretti a commettere il delitto. Non vi è dubbio che questo doppio riferimento ridicolizza il significato garantistico che dovrebbe avere il richiamo agli atti preparatori.

Va però chiarito che questa situazione si verifica solo in tre delle ipotesi previste dal disegno di legge governativo: atti preparatori di fatti diretti a suscitare la guerra civile (art. 286 del codice penale), atti preparatori di fatti diretti a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato (art. 285 del codice penale), atti preparatori diretti a danneggiare o distruggere impianti di pubblica utilità (art. 419 bis del codice penale, contenuto nel disegno di legge governativo, e quindi non ancora in vigore). In tutte le altre ipotesi gli atti preparatori non si riferiscono a delitti di attentato, ma a delitti ``normali'', per i quali è richiesta la verificazione dell'evento di danno (omicidio, strage, rapina, sequestro di persona, disastro ferroviario, ecc.).

Premesso che le ipotesi di atti preparatori di delitti di attentato vanno certamente eliminate, vediamo che significato ha il richiamo agli atti preparatori come presupposto per l'applicazione delle misure di prevenzione, posto che tali misure sono state istituzionalmente e tradizionalmente usate per colpire non fatti o singoli atti materiali, ma atteggiamenti di vita, intenzioni del soggetto, in una parola uno stato di sospetto. Al riguardo il professor Barile ha ricordato puntualmente le misure di prevenzione nei confronti degli oziosi, dei vagabondi abituali validi al lavoro, di coloro che si presume svolgono abitualmente attività contrarie alla morale pubblica o al buon costume o siano abitualmente dediti a traffici illeciti, ecc.

Da una parte vi è cioè una consolidata tradizione illiberale che collega le misure di prevenzione al sospetto; dall'altra vi è questo tentativo - non so se maggiormente garantista ed efficace - di prevenire non solo un'astratta e generica pericolosità per la sicurezza e la moralità pubblica, quale si può desumere dal modo di essere del soggetto o dalla sua intenzione di commettere delitti, ma di colpire dei fatti obiettivi e individuati, nella specie gli atti preparatori. Non è facile elencare e tantomeno tipicizzare per categorie quelli che potranno essere ritenuti atti preparatori suscettibili di fare scattare il processo di prevenzione. Il nodo centrale del problema consiste proprio nell'accertare se vi è effettivamente uno spazio in cui collocare una categoria di atti preparatori che da una parte non integrino gli estremi del tentativo punibile, dall'altra abbiano una portata obiettiva diversa dalla mera intenzione di delinquere. Penso ai pedinamenti della persona da sequestrare o nei cui confronti si pr

ogetta di compiere un attentato terroristico, al camuffamento in previsione di una di queste imprese criminose, alla detenzione o al trasporto di materiali (cerotti, cloroformio, ecc.) necessari per privare della libertà la persona da sequestrare, all'apprestamento della ``prigione'' in cui custodire il sequestrato, agli appostamenti, al possesso di mappe, piante, elenchi di nomi, quando vi siano elementi che provino che il possesso di questo materiale è finalizzato a realizzare un sequestro di persona o un attentato terroristico a persone o a cose.

Saranno però soprattutto le prassi operative a rendere possibile una tipicizzazione di atti preparatori rilevanti per ciascuno dei reati nei cui confronti saranno applicabili le misure di prevenzione; saranno gli interventi della magistratura, chiamata a convalidare attraverso il processo di prevenzione le iniziative della polizia, a delineare i confini e i requisiti minimi degli atti preparatori; sarà soprattutto compito delle forze democratiche esercitare un attento e costante controllo per imporre un uso garantistico delle misure di prevenzione nei confronti degli atti preparatori.

Gli esempi sopra riportati sono comunque tali da dimostrare l'esistenza di uno spazio in cui collocare una categoria di atti preparatori che non realizzano ancora gli estremi del tentativo punibile e sono qualcosa di più della mera intenzione di delinquere.

Ciò è vero anche sul terreno della costruzione giuridica: vi può infatti essere un atto preparatorio perfettamente idoneo a realizzare ad esempio un sequestro di persona, privo però del requisito della univocità soggettiva. E' questo il caso della cosiddetta ``prova generale'' del delitto, in cui manca il rapporto contestualità temporale tra gli atti compiuti e la realizzazione del delitto, e conseguentemente manca il dolo, in quanto il soggetto si rappresenta gli atti che sta compiendo come una prova generale distaccata cronologicamente dal momento della realizzazione del sequestro. Si può verificare anche la situazione opposta: l'atto è oggettivamente e soggettivamente diretto in modo non equivoco a commettere il delitto, ma non idoneo, cioè incapace per le sue intrinseche caratteristiche o per concrete circostanze di fatto di portare alla realizzazione del delitto, e quindi non perseguibile a titolo di tentativo.

Bricola ha obiettato che l'atto preparatorio, una volta che è provato, costituisce la prova dell'associazione per delinquere. Secondo Bricola ci troveremmo pertanto di fronte a questa alternativa: o gli atti preparatori sono effettivamente provati, e allora bisogna procedere penalmente per associazione per delinquere; o manca la prova, e allora la misura di prevenzione continua a basarsi come per il passato sulla logica del sospetto. La tesi urta però contro una costante interpretazione giurisprudenziale, che richiede molto di più della realizzazione di semplici atti preparatori per aversi la prova dell'associazione per delinquere. E' richiesta una organizzazione dotata di un minimo di stabilità, con una gerarchia e una precisa attribuzione di ruoli tra gli associati, la predisposizione di mezzi che denotino l'esistenza dell'associazione e la finalità concreta di commettere più delitti, per cui gli atti preparatori non coincidono necessariamente con la prova dell'associazione.

Strettamente connesso al problema degli atti preparatori è l'arresto preventivo nei confronti di chi è sorpreso a compiere tali atti.

Si è detto che questa forma di arresto non è altro che una subdola etichetta per introdurre il fermo di polizia ancorato al mero sospetto; in effetti il rischio esiste, e la linea di demarcazione tra un arresto che rientra nei limiti dell'articolo 13 della Costituzione e un fermo che travalica la garanzia costituzionale è molto sottile.

L'ancoraggio garantistico è rappresentato dalla flagranza dell'arresto, che è ammissibile solo nei confronti di chi è colto mentre sta compiendo l'atto preparatorio. Il disegno di legge governativo non dice espressamente che l'arresto deve essere in flagranza, lasciando quindi aperta la possibilità che l'arresto venga operato anche nei confronti di chi ha già compiuto o si pensa commetterà atti preparatori. Su questo punto bisogna essere inflessibili, perché la flagranza rappresenta lo spartiacque tra una soluzione nell'alveo della costituzionalità e una scelta arbitraria ed illiberale. Se infatti l'arresto avviene in flagranza, si acquisisce nel contempo l'automatica certezza che vi è un vero e proprio atto preparatorio, in quanto non è possibile arrestare una persona in flagranza se non sta effettivamente compiendo qualche cosa, se non tiene un comportamento obiettivamente rilevante. L'arresto in flagranza permette di avere un punto di riferimento preciso, sul quale il giudice può esercitare un controllo g

arantistico sulla legittimità dell'iniziativa della polizia. Se cade il requisito della flagranza, il soggetto può essere arrestato perché ha compiuto nel passato atti preparatori o si sospetta che li compirà, e viene meno la garanzia che può essere privato della libertà personale solo chi sta attualmente realizzando un atto esteriore, concreto, materiale. Si torna alla logica del sospetto, dando ragione a chi sostiene che l'arresto preventivo non è altro che un camuffamento verbale del fermo di polizia.

Abbiamo così enucleato, insieme all'inscindibilità del rapporto ``nuovi poteri alla polizia - riforma democratica della polizia'', un secondo punto irrinunciabile, talmente importante che non è sufficiente che l'ancoraggio dell'arresto alla flagranza venga eventualmente esplicitato nella relazione del disegno di legge governativo; si deve chiedere che il requisito della flagranza venga espressamente inserito nel testo della legge, mediante la formula: ``la polizia può procedere all'arresto preventivo di persone che siano colte nell'atto di commettere atti preparatori...''. Diversamente viene a cadere l'unica barriera garantistica che può rendere accettabile il collegamento delle misure di prevenzione agli atti preparatori, e viene in particolare a cadere la legittimità dell'arresto da parte della polizia.

All'arresto in flagranza si collega la disciplina dell'interrogatorio dell'arresto, che il pubblico ministero può compiere personalmente o delegare ad un ufficiale di pubblica sicurezza. In entrambi i casi viene avvertito il difensore, ma l'interrogatorio può essere effettuato anche in assenza del difensore, con la precisazione che può essere redatto processo verbale dell'interrogatorio solo se il difensore è presente o sono decorse almeno dodici ore dall'avviso al difensore. In questo ultimo caso le dichiarazioni dell'arrestato non hanno valore probatorio.

Come si vede, si tratta di una disciplina piuttosto barocca e contorta, che potrebbe preludere alla reintroduzione dell'interrogatorio di polizia senza la presenza del difensore nel processo penale. Contro questo rischio penso si debba proporre che sia sempre il magistrato ad interrogare personalmente l'arrestato nella flagranza di atti preparatori, consentendo eventualmente al pubblico ministero di delegare l'interrogatorio al pretore. I meccanismi proposti dal disegno di legge governativo sono infatti talmente complessi da essere di difficile se non impossibile applicazione: cosa vuol dire infatti che in assenza del difensore l'interrogatorio può essere assunto al solo fine di ricercare fonti di prova e che le dichiarazioni dell'arrestato non hanno valore probatorio? Si tratta di tentativi poco felici di rendere più accettabile una realtà difficile da digerire, quale è appunto la restituzione alla polizia del potere di interrogare l'arrestato senza la presenza del difensore.

Tra i nuovi poteri concessi alla polizia vi è la facoltà di procedere all'immediata perquisizione dei luoghi ``nei quali si diano convegno persone indiziate di porre in essere atti preparatori...''. La formula legislativa è decisamente infelice, perché si sposta il tiro dagli atti preparatori all'indizio di porre in essere atti preparatori; quantomeno si dovrebbe agganciare il presupposto della perquisizione alla flagranza degli atti preparatori, nel senso di ammettere la perquisizione solo nei luoghi in cui siano radunate persone che stiano commettendo atti preparatori. La disputa peraltro ha valore accademico, perché già ora la polizia ha il potere di procedere di sua iniziativa alla perquisizione di qualsiasi luogo alla ricerca di armi; sotto l'etichetta della ricerca delle armi è quindi presente nell'ordinamento un generico potere di perquisizione domiciliare, al quale nulla toglie e nulla aggiunge la nuova forma di perquisizione prevista dal disegno di legge governativo.

Fondate riserve suscita anche l'istituto dell'intercettazione di comunicazioni o conversazioni telefoniche ``nei confronti di persone gravemente indiziate del compimento di atti preparatori...''. Qui non è prevista la diretta iniziativa della polizia, che deve rivolgersi al Procuratore della repubblica per l'autorizzazione; nel disegno di legge governativo si prevede però che la richiesta di autorizzazione al magistrato possa essere formulata anche dal Ministro dell'interno, ponendo così in una posizione di netta inferiorità il singolo magistrato nei confronti del vertice del potere esecutivo; inoltre è troppo generico il riferimento all'indizio del ``compimento'' di atti preparatori; è più corretto circoscrivere le intercettazioni alle persone che hanno compiuto o stiano compiendo atti preparatori. Quando cioè la polizia viene a conoscenza che si stanno realizzando degli atti preparatori, ha due possibilità: intervenire subito arrestando in flagranza coloro che stanno compiendo gli atti ovvero chiedere l'au

torizzazione all'intercettazione telefonica, in modo da acquisire ulteriori elementi di prova, rimandando ad un momento successivo l'arresto.

Tra le misure di emergenza di maggior rilievo rimane da esaminare l'accompagnamento negli uffici di polizia delle persone che rifiutino di declinare le proprie generalità ovvero dichiarino false generalità o vi sia motivo di ritenere che abbiano documenti falsi. Dette persone possono essere trattenute il tempo necessario per l'identificazione e comunque non oltre le 24 ore. I presupposti dell'accompagnamento sono decisamente troppo generici e indeterminati, specie per quanto riguarda l'ipotesi in cui vi siano ``sufficienti indizi per ritenere falsi le dichiarazioni sull'identità personale o i documenti d'identità esibiti''. Per evitare che la misura si trasformi in uno strumento incontrollato di privazione della libertà personale sarebbe più corretto prevedere dei veri e propri casi di arresto in flagranza, collegati ai reati di rifiuto di fornire le proprie generalità e di falsificazione dei documenti, sottoposti all'immediato controllo della magistratura. Così come formulata, la norma lascia aperto il varc

o ad applicazioni indiscriminate e di massa, specie nell'ipotesi degli indizi che i documenti di identità siano falsi: o l'agente di polizia ritiene che effettivamente i documenti siano falsi, ed allora è legittimato ad eseguire l'arresto in flagranza; diversamente l'accompagnamento negli uffici di polizia costituisce un'inutile vessazione, fine a se stessa. Oltre a questi rilievi, va comunque rilevato che il trattenere la persona negli uffici di polizia sino a 24 ore è decisamente eccessivo, in quanto i moderni strumenti tecnologici consentono di compiere qualsiasi accertamento sull'identità di una persona in tempi molto inferiori.

Concludo così l'esame sulle singole misure di emergenza sull'ordine pubblico, ribadendo che l'utilità di incontri come questo è tanto maggiore quanto più concreto è il terreno di dibattito e di confronto politico e sempreché non si trascuri che la critica alle norme aberranti o sbagliate sull'ordine pubblico deve essere calata nella realtà del momento politico e deve tenere conto che siamo in una situazione in cui non ci si può limitare a dire no. Bisogna in qualche modo intervenire e misurarsi con queste proposte, perché la richiesta di sicurezza che sale dal paese e dalle masse popolari legate ai partiti di sinistra non è ulteriormente eludibile.

Un secondo momento di incontro e di confronto va ricercato nella difesa della realizzazione contestuale delle varie riforme nel settore giudiziario, penale e dell'ordine pubblico. Non si può rinunciare al salto di qualità rappresentato da un programma che tocca contestualmente tutti questi settori. Non ci troviamo più a combattere la legge Reale, che si limitava ad aumentare i poteri di polizia; dobbiamo difendere la nuova logica degli interventi organici che, partendo dalla prevenzione, passano attraverso il processo penale e l'organizzazione giudiziaria per arrivare al rilancio della riforma penitenziaria.

Il terzo terreno di incontro è l'impegno comune per passare nel più breve tempo possibile dall'emergenza alle riforme organiche e globali della codificazione fascista. Bisogna superare il rischio di rimanere impantanati troppo a lungo sul terreno dell'ordine pubblico; bisogna chiudere al più presto la non felice vicenda delle norme sull'ordine pubblico e passare alle riforme organiche che cancellino la legislazione fascista.

Da più parti mi è stato rivolto il rimprovero di illudermi che l'accordo sull'ordine pubblico possa aprire la strada alle riforme della codificazione; in realtà - è stato detto - è in corso un processo di stabilizzazione autoritaria talmente in contrasto con le riforme democratiche della legislazione fascista da precludere per il futuro qualsiasi inversione di tendenza. Rimbalzo la critica domandando quali sono stati in questi ultimi mesi gli spazi per impostare un discorso serio sulla riforma del codice di procedura penale o per rilanciare la riforma del codece di procedura penale senza essere svillaneggiati o presi per visionari. Il dibattito sull'ordine pubblico ha precluso qualsiasi possibilità di impostare un programma riformatore di lungo respiro; dobbiamo uscire da questa strettoia per riconquistare lo spazio politico e culturale necessario per affrontare almeno le riforme dei tre settori portanti dell'ordinamento penale: codice penale e legislazione penale speciale, codice di procedura penale e organ

izzazione della magistratura (giudice monocratico, giudice elettivo, consigli regionali di giustizia, ecc.). Non è un caso che prima del mese di luglio pareva che la riforma del processo penale fosse caduta completamente nel vuoto: solo ora, dopo l'accordo programmatico, se ne incomincia a parlare di nuovo in termini concreti e si può ragionevolmente sperare che il termine del maggio 1978 per l'emanazione del nuovo codice sarà questa volta rispettato.

Mi è stato ancora obiettato di non rendermi conto che il mio discorso si mangia la coda, perché io stesso ho suggerito l'eventualità che lo schema del nuovo processo penale - risalente alla legge delega del 1974 - possa subire delle modifiche. Ben vengano le modifiche a sventare il rischio di rimanere ancorati a schemi vecchi, non più rispondenti ale esigenze attuali. La legge delega per il nuovo codice di procedura penale è stata approvata nel 1974 dopo quasi un decennio di discussioni parlamentari; altri tre anni sono stati spesi dalla Commissione ministeriale per redigere il testo del nuovo codice; sono quindi trascorsi in tutto dodici anni, e in tale periodo qualcosa, spero lo consentiate, può cambiare.

E' cambiato ad esempio l'atteggiamento nei confronti del pubblico ministero. Quando è stata approvata la legge delega, si era al culmine di un processo di sfiducia nei confronti del pubblico ministero, giustificato dai poteri arbitrari ed incontrollati che quest'organo aveva esercitato in alcune drammatiche vicende processuali, prima fra tutte quella relativa alla strage di Piazza Fontana. La legge delega ha riflesso questa atmosfera, dettando una disciplina punitiva dei poteri del pubblico ministero, e cioè imponendogli di concludere le sue indagini nel termini di 30 giorni dalla notizia di reato e prevedendo poi il passaggio diretto al giudizio immediato davanti ai giudici del dibattimento. La legge delega ha previsto che eccezionalmente, quando lo stato delle indagini non consente di passare direttamente al giudizio immediato, intervenga il giudice istruttore per compiere atti di istruzione. Ciò significa che nei processi più delicati e complessi sarà impossibile, a causa della brevità del termine concess

o al pubblico ministero per svolgere le indagini preliminari, passare direttamente al giudizio immediato; si dovrà sempre passare attraverso la fase degli atti di istruzione, riproducendo una delle maggiori piaghe dell'attuale sistema processuale, e cioè la reiterazione delle indagini ad opera del giudice istruttore.

Questa constatazione mi ha indotto a un ripensamento comune d'altronde a tutti coloro che in questi anni hanno lavorato alla riforma del processo penale, sul ruolo del pubblico ministero: sarebbe probabilmente molto più razionale, e perfettamente in linea con i principi del sistema accusatorio, potenziare cronologicamente la durata delle indagini preliminari del pubblico ministero, che non hanno tra l'altro valore probatorio ai fini della decisione, essendo attività preliminare di parte, in modo da evitare la fase degli atti di istruzione e passare sempre direttamente dalle indagini del pubblico ministero al giudizio immediato.

E' evidente che questo capovolgimento di ruoli tra pubblico ministero e giudice istruttore presuppone che l'attività del pubblico ministero sia sottoposta a forme di controllo sociale e goda di una legittimazione democratica che potrà essere ottenuta solo con una profonda riforma dell'ordinamento giudiziario.

Tutto ciò avverrà comunque a bocce ferme, dopo l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, in quanto nessuno qui intende proporre modificazioni della legge delega, che si tradurrebbero in ulteriori ritardi all'emanazione del nuovo codice.

Mi sono soffermato forse troppo a lungo su questi aspetti particolari del nuovo processo penale, ma l'esempio mi è parso utile per dimostrare come un confronto serio e sereno, al di là di diffidenze e posizioni preconcette, sia condizione essenziale perché si possa uscire da questo Convegno convinti di avere svolto tutti insieme un buon lavoro.

 
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