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Bandinelli Angiolo - 31 ottobre 1991
Ernesto Rossi: L'opposizione come eresia
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Ernesto Rossi (Caserta, 1897 - Roma, 1967) è figura capitale nella storia del partito radicale, sin dalla sua fondazione: ma per la generazione - o meglio, il gruppo - che agli inizi degli anni '60 si assunse la responsabilità di tenere in vita e rilanciare la formazione politica ormai abbandonata ad una sicura liquidazione dalla maggior parte della sua classe dirigente, Ernesto Rossi è maestro ed esempio insostituibile di quel rigore, di quella coerenza tra politica e moralità, tra progetto politico e scelte di vita, che quel gruppo assunse come premesse necessaria per rilanciare un disegno politico autenticamente riformatore. Continuo è il richiamo che il "nuovo" partito, ed in primo luogo Marco Pannella, fanno al magistero di questo straordinario uomo politico.

Su Ernesto Rossi, il club "Il Politecnico" e la rivista "Critica Liberale" tennero a Milano, il 18-20 maggio 1984,un convegno di studi. Il convegno, che otteneva l'alto patronato del Presidente della Repubblica e il patrocinio del Comune di Milano, poteva essere realizzato grazie all'impegno sopratutto di Franco Corleone e di Enzo Marzo. Relatori erano Alessandro Galante Garrone, Giorgio Fuà, Angiolo Bandinelli, Giuseppe Armani, Enzo Forcella, Altiero Spinelli. Importanti contributi vennero da Paolo Sylos Labini, Gianfranco Spadaccia, Gianfranco Viesti, Enzo Tagliacozzo, Giuseppe Armani, Mario Boneschi, Ada Rossi, ecc.

Nella sua relazione, Angiolo Bandinelli in primo luogo respinge l'immagine, largamente diffusa ma inadeguata e riduttiva, di un Ernesto Rossi grande giornalista e polemista e però incapace - nel suo estremismo ideologico e sopratutto nel suo esasperato anticlericalismo - di vera e moderna sintesi politica. Secondo Bandinelli, invece, Ernesto Rossi fu autentico uomo politico, che seppe ingaggiare una difficile, ma fondamentale battaglia per tentar di capovolgere, o almeno modificare, il corso della storia italiana. Per Rossi, questa era sempre più profondamente compromessa, nel senso della continuità con le strutture ereditate dal fascismo, sia per la pressione delle forze moderate clericali e corporative, ma anche per gli errori dell'opposizione di sinistra (socialista e comunista) e la debolezza delle forze laiche e liberali. L'autore analizza poi l'anticlericalismo di Rossi, tratteggiandone le ragioni di polemica nei confronti della crisi ideale e morale della cultura e nella politica degli anni Trenta

quando, nell'incontro tra le due ideologie del fascismo e del cattolicesimo, ambedue fortemente avverse alla civiltà e alla cultura liberale, nascono e si consolidano le strutture del "moderno", e della società italiana, che nemmeno la guerra e la Resistenza poterono poi modificare.

Purtroppo le classi dirigenti del dopoguerra (ma anche le opposizioni) ereditarono dal fascismo la concezione moderata e rinunciataria del rapporto tra Stato e Chiesa instauratasi con il Concordato fascista. Ernesto Rossi restò solo nella sua inflessibile denuncia anticoncordataria, ed in conseguenza oggi è dimenticato e espunto dalle ricostruzioni e dalle analisi storiche, sopratutto quelle "di sinistra" più o meno marxiste: il nome di Rossi non è nemmeno citato nella einaudiana "Storia d'Italia" diretta da Alberto Asor Rosa, e uno studioso come Eugenio Garin non lo comprende tra quelle figure di intellettuali e maestri che, con la loro opera, hanno plasmato l'Italia moderna.

Il saggio di Bandinelli ripercorre alcune dellepiù famose polemiche di Rossi contro il protezionismo, il neocorporativismo, il populismo della DC, ma anche contro la politica togliattiana

protesa verso quella gestione consociativa del potere

cui si deve la rinascente corruzione istituzionale. In definitiva, ricorda Bandinelli, Ernesto Rossi - pur impregnato di una cultura positivista - aveva una lucida e rara coscienza dei valori liberali e del loro rapporto con la istituzioni.

(Nota: Il testo che segue è quello che compare nel volume

èdito da Comunità, e rispecchia fedelmente la relazione tenuta al convegno milanese. Una redazione leggermente diversa apparve nel n.2 de "La Prova", supplemento a "Notizie Radicali" del 23 gennaio 1985).

(ERNESTO ROSSI, UNA UTOPIA CONCRETA, a cura di Piero Ignazi, Edizioni di Comunità, Milano, 1991)

Il titolo di questa relazione - "Ernesto Rossi: l'opposizione come eresia" - non è formula agiografica. E un titolo aderente al contenuto, enuncia quanto si propone di illustrare. Penso infatti che le battaglie, le polemiche giornalistiche, le iniziative incessanti promosse nel dopoguerra da Ernesto Rossi fino agli anni Sessanta e la morte, configurino un coerente e ininterrotto percorso, tutto politico, di rigorosa opposizione agli indirizzi di fondo della ricostruzione non solo materiale del paese, quale venne sviluppandosi ad opera di classi dirigenti indirizzate su un disegno molto preciso anche se non immediatamente apparente. Un'opposizione politica nei contenuti e nei metodi, che si appella a ragioni e valori antagonisti e alternativi e viene battuta sul terreno politico a seguito di una lotta politica asprissima, di cui ancor oggi sono visibili tracce, sedimenti e conseguenze profonde.

Vogliamo così sgombrare il terreno da un equivoco. L'Ernesto Rossi che ci viene spesso tramandato ha un volto diverso, che respingiamo. C'è invero in Rossi, accanto all'uomo politico impegnato nella battaglia per l'alternativa, anche il moralista puntigliosamente portato all'affermazione di una sorta di alterità etica incapace di compromessi, quindi non suscettibile della ricchezza anche dialogica del fare politico. Ma anche di questa alterità si può oggi dare una lettura più attenta e misurata, riconsiderando la definizione che di sé Rossi dava sovente e che gli viene spesso rigettata addosso, con cattiva coscienza, come connotato negativo: l'essere egli, in buona sostanza, un irriducibile »pazzo melanconico . Possiamo fare oggi una lettura diversa in quanto non a caso torna oggi a puntarsi l'attenzione sulla malinconia come condizione esistenziale di chi veda attorno a se irresistibilmente affermarsi una diversità dilagante, e, insieme, si senta irriducibile a tale diversità. Questa malanconia è forier

a di solitudine e di sconfitta; ma l'amara catastrofe cui alla fine Rossi viene piegato nulla toglie al senso schiettamente politico, denso d'una portata strategica, della sua opposizione.

La nostra interpretazione di Rossi deve dunque respingere e far dissolvere l'immagine che di lui viene ancor oggi proposta. E' un'immagine, certamente, elogiativa: Rossi viene dipinto come il »democratico ribelle . ricco di una impavida »freschezza quasi infantile e dotato di una »intransigente coscienza , il polemista con lo spirito del cavaliere dell'ideale che non guarda alle conseguenze cui lo trascina la sua azione (1). Di consimili citazioni potremmo raccoglierne fin troppe in questi giorni, a comporre un gran ritratto morale. Ma, tutte assieme, esse suonano fuorvianti e riduttive. Noi non possiamo ridurre Rossi al ruolo di interprete di nobili ma improduttivi valori, di per sé condannati a sterile sconfitta. Purtroppo, si tratta di un'immagine che nacque già in quegli ambienti culturali e politici con i quali egli a lungo, per indubbie affinità, dialogò e collaborò in una condizione anche di felice creatività (e pensiamo al »Mondo ) ma dove pur si sospirava: »Ernesto è tanto bravo, ma non si intende

molto di politica .

L'oppositore, il politico, qui scompare; resta il testimone, l'anima bella, il cavaliere intrepido dell'ideale. Ma gli anni ormai trascorsi e gli avvenimenti che abbiamo visto accadere in questo tempo ci consentono un giudizio più corretto e, insieme, profondo. Il clima è propizio perché molti giudizi correnti, relativi a quei momenti della nostra storia, cominciano a disgregarsi e a mostrare la corda, lasciando il posto a letture diverse, persin opposte. Ideologie crollano, grandi e trionfali certezze mostrano un'ossatura di cartapesta, istituzioni e forze politiche sono investite di un profondo travaglio. La storia del dopoguerra si riapre e reclama una lettura più complessa. E' stato recentemente detto che coi nostri giorni si chiude il ciclo delle ideologie degli anni Trenta, lasciandoci - sembra all'anno zero della coscienza e dell'agire politico. Oggi dunque a differenza di ieri è possibile capire come l'opera di Ernesto Rossi abbia espresso una linea possibile di sviluppo etico politico che è stata

combattuta e battuta da forze a ciò determinate. Sono state queste forze di cui è facile riconoscere l'identità, coalizzate e vittoriose, a tacere poi e a tener persin nascosto il nome di Ernesto Rossi, cancellato, letteralmente, dai capisaldi della memoria storica del paese.

Nel suo saggio dedicato nella einaudiana "Storia d'Italia" alla cultura italiana contemporanea, Alberto Asor Rosa non cita una sola volta (e vorrei davvero sbagliarmi) Ernesto Rossi (2). Né mi pare di aver rilevato una specifica indagine su Rossi nelle articolate ricerche attraverso le quali Eugenio Garin è andato esplorando in profondità il formarsi delle grandi ossature etiche, politiche e culturali su cui la società italiana è venuta crescendo sulla crisi di fine secolo, attraverso il dramma della prima guerra mondiale e poi durante e dopo il fascismo; né nelle ricerche di Garin né in quelle, estese su un frastagliatissimo panorama, della sua scuola. Rossi sembra dunque scomparso dalla memoria storica della sinistra, in primo luogo della sinistra marxista o marxiana. Ma è scomparso anche dalla cultura che chiameremo liberale, laico liberale, o genericamente democratica. Nella prefazione al saggio di Manlio Del Bosco sul Partito radicale e il »Mondo , Rosario Romeo sostiene, con evidente allusione a Ro

ssi, che il settimanale di Pannunzio, per esercitare la sua funzione di grande giornale liberale, »dovette pagare »un prezzo rilevante, in termini di spazio concesso (...) a elementi di radicalismo generico e a forme di anticlericalismo aprioristico, rimasti sempre lontanissimi dalla ispirazione del suo primo nucleo (...) (3).

Non è solo un ridimensionamento storiografico del personaggio: qui si fa una scelta precisa in termini ideali. In parte, non vi è dubbio, il giudizio è corretto; è vero, non si può identificare Rossi con Pannunzio e con il gruppo del »Mondo . Ma è pure vero che senza Rossi non si spiegherebbe gran parte dell'importanza del »Mondo e delle sue battaglie giornalistiche e politiche. In notevole misura Rossi e Pannunzio, anzi, si completano, più che con altri della comune cerchia. E forse è facile oggi comprendere certi ostracismi toccati a Rossi e alle sue intransigenze grazie al riscontro con paralleli ostracismi riservati a Pannunzio. Pannunzio viene ricordato, troppo spesso, come il grande borghese straordinariamente intelligente ma destinato al fallimento per mancanza di rispondenza con il suo tempo. Sempre nella grande storia einaudiana, il direttore del »Mondo viene posposto nel giudizio circa la funzione esercitata sulla propria epoca e sulla società ad Arrigo Benedetti, il quale avrebbe indirizzato

il giornalismo laico, borghese e »radicale , verso sbocchi di sinistra più maturi rispetto alla visione angustamente, puramente liberale, cui Pannunzio rimase invece ancorato (4).

Altre citazioni potremmo facilmente portare per aprire più di uno spiraglio alla comprensione della dimenticanza che ha colpito Ernesto Rossi nella memoria storica e politica, in particolare a sinistra. E' qui, in questi ambienti, che si costruisce il solido edificio storiografico che richiede e giustifica l'ostracismo cui Rossi viene condannato. Per decenni, e fino a pochi anni fa, il dibattito della sinistra ruota attorno ad un tema ben preciso, cui tutto viene subordinato. Animosamente viene sviluppata, si diffonde e dilaga la tesi della »centralità della linea storico culturale che poggia sui nomi di De Sanctis, Gramsci, Togliatti come inveratrice e »superatrice di quella che piuttosto privilegia i pilastri De Sanctis e Croce; della linea dello storicismo democratico marxista, vale a dire, su quella dello storicismo liberale. Questo dibattito appare già enormemente lontano da noi e dai nostri interessi, come consumato e svuotato dagli avvenimenti di questi ultimi anni. La cultura politica guarda a quel

le discussioni persino con fastidio e sufficienza. Ci si volge al passato, piuttosto, con atteggiamento di indulgenza trionfalistica; si accetta, si accoglie tutto, in un indiscriminato abbassamento di ogni soglia critica.

Non si vuole ad esempio fare i conti con un tema che è invece sottinteso a tutto quel dibattito, bomba inesplosa che minaccia di far saltare quanto accade ai piani superiori. Ciò che non si fa emergere, della storia di mezzo secolo, è l'importanza che ha avuto, nel bene come nel male, quella che si colloca come terza linea, terzo modello interpretativo possibile del percorso postunitario, la linea che ha come centrale l'asse che corre (o dovrebbe correre, appunto) tra De Sanctis e Giovanni Gentile. Tutta la rilettura del fascismo è ancora circondata di troppe cautele, non senza conseguenze attuali e brucianti. La vicenda impersonata da Ernesto Rossi ne è una riprova dolorosa. In sostanza l'interpretazione del fascismo, e quindi della storia anche posteriore - quella dell'antifascismo - si rifà ancora o all'interpretazione liberale, secondo la quale il fascismo è solo una parentesi della storia dell'Italia contemporanea, o a quella dello storicismo marxista, che bolla l'esperienza mussoliniana come degenerazi

one del residuo borghese, conseguenza o portato dell'inadeguato sviluppo del capitalismo italiano.

La lettura marxista del fascismo (che per ora ci interessa) si basa sulla definizione togliattiana del fascismo come »regime reazionario di massa ; alla luce della più recente storiografia essa mostra più di una crepa, non riuscendo a valutare nella sua enorme portata l'operazione di ricomposizione istituzionale e sociale che il fascismo compie collocando al suo centro non già, come si ripete, la borghesia o il »capitalismo , ma le masse emergenti, la borghesia di Stato che esso fa nascere e sviluppare, e soprattutto la borghesia intellettuale che in quegli anni viene acquisendo una articolazione di ruoli non più meramente sovrastrutturale. Questa nuova borghesia si allea al fascismo quasi integralmente dando luogo, attorno al 1930, alla costruzione di un edificio di valori a loro modo solidi e persino ad una originale europeizzazione, sia pure in forme antagoniste a quelle diffuse oltralpe. C'è, in questo processo, l'intreccio di una complessa gamma di fattori che la cultura marxista, come quella liberale,

si sono ostinate per decenni a marginalizzare, a ignorare drasticamente.

Su questo punto - I'interpretazione del fascismo - Rossi, il Rossi delle polemiche sul »Mondo , si ostina ad accampare una ostinata riserva, e fonda la sua polemica di oppositore eretico. La dimensione della sua opposizione rende appropriata questa qualifica, anche se va ricordato che l'eretico non si definisce come tale da se stesso, ma sono gli altri che lo definiscono così: semmai l'eretico ritiene di custodire in modo intransigente una verità rigorosa e profonda, forse più di quella dei suoi avversari; questi lo bollano e lo espellono dalla comunità dei credenti cancellandone anche il nome e la memoria. E ciò che appunto accade all'opera di Ernesto Rossi, in primo luogo al suo anticlericalismo.

Nella polemica anticlericale di Rossi, se prescindiamo un momento dalla componente culturale di matrice positivista, vi sono elementi storici che oggi meglio possiamo riconoscere come estremamente pertinenti, e dai quali occorre far discendere le conseguenze necessarie. Il clericalismo moderno nasce certo sulla diffusa e profonda presenza cattolica nel paese ma diventa istituzionale e statuale con il Concordato fascista del 1929, un'operazione storica di incalcolabile rilievo, come subito viene avvertito anche fuori d'Italia. E' da questa operazione che prende avvio o si consolida l'espansione della presenza cattolica, che si fa fortissima nel decennio successivo, fondata come è su una cultura che dialoga o pretende di dialogare, senza complessi di inferiorità con la »grande cultura laica, e finisce anche col condizionarla in modo rilevante grazie ad una autonoma e aggressiva classe dirigente e politica, la quale si fa le ossa in un confronto con la classe dirigente fascista chiaramente impostato sul tema d

el potere e dell'egemonia.

L'una e l'altra cultura rivendica per sé valori totalizzanti, corporativi, populisti, nazionali e conservatori, dominati dalla categoria della »politica , consapevolmente antagonisti ai valori liberali, laici e libertari. Mi pare che nel 1928 Giovanni Gentile arrivasse a proporre lo scioglimento del partito fascista, ormai a suo avviso non più necessario nella nuova realtà del paese. In certo modo, il filosofo aveva ragione: in quell'importantissimo decennio non si potrà più parlare di una cultura fascista ma di una cultura che è insieme nazionale, fascista e cattolica. In nome dei valori nazionali, la neo scolastica di Padre Gemelli dialoga con l'attualismo. Ma questa cultura poliforme può anche, a suo modo e a buon diritto, rivendicare per sé l'eredità del liberalismo, e fregiarsi emblematicamente del nome di De Sanctis come di un capostipite. E' la cultura che ha il suo monumento nella Enciclopedia italiana, dove noi ritroviamo tutta o quasi fisicamente, nei suoi nomi prestigiosi o appena emergenti la

intellettualità italiana, unita nello sforzo di fornire alla nazione strumenti adeguati per mettere a fuoco l'identità finalmente raggiunta e dispiegata (5). Questa è l'Italia che affronta compatta sia pure per l'ultima volta la guerra d`Africa.

Ora, in occasione di questa guerra che è momento zodiacale della vicenda mussoliniana prima di quel capovolgimento di fronte rispetto all'Europa e alle democrazie che sarà la miccia della seconda guerra mondiale, si stringono attorno al governo e allo Stato la gran parte della classe dirigente borghese liberale e, insieme, il papa benedicente, nella sua aspirazione a creare un blocco d'ordine europeo; ma anche le masse operaie delle città industriali del nord Italia, sulle quali la cultura del consenso ha fatto breccia. Dovrà arrivare la guerra di Spagna, per fare serpeggiare i primi, drammatici dubbi.

L'anticlericalismo di Ernesto Rossi affonda le sue radici in questa temperie storica che la guerra, la Resistenza, l'antifascismo non hanno intaccato nelle sue radici culturali e politiche. Rossi avverte attorno a sé, negli anni della ricostruzione, della rinascita e del consolidamento dei partiti, la compatta persistente presenza di una atmosfera culturale e politica che è rimasta, sul tema del ruolo della Chiesa, ferma agli anni Trenta. Tutti si sono adeguati: tutti, anche i partiti di sinistra, anche il partito comunista. Hanno non solo accettato il Concordato, ma assorbito una cultura. L'intera sinistra ha introiettato i valori concordatari dialettizzati dal gran turbine culturale del nazionalfascismo degli anni Trenta. L'anticlericalismo anticoncordatario e antipacelliano di Rossi non è dunque il relitto di un passato troppo lontano per pretendere di tornare, non è una vieta eccentricità. E' intelligenza storica che guarda oltre i dati immediati e apparenti. La validità del suo anticlericalismo è testim

oniata, infatti, dagli avvenimenti che intercorreranno tra i suoi anni e i nostri: il divorzio e l'aborto da una parte, ma dall'altra il Concilio Vaticano e il riemergere d'una Chiesa dei credenti che rivendica il diritto all'affermazione di coscienza; infine, i grandi referendum radicali che segnano non la risposta dell'indifferentismo laico del vecchio mondo borghese (che sul »privato del laicismo aveva costruito invece la propria pubblica acquiescenza al clericalismo) quanto il rovesciamento del vecchio blocco, durato più di quarant'anni.

Eventi, pensiamo, eccezionali. Oggi, a posteriori, diventa facile individuare nelle pieghe delle vicende trascorse elementi che ne consentano una lettura deterministica. La lettura strutturalistica e sociologica del passato ha di queste risorse. In alcune rievocazioni recenti, la vittoria del 1974 è apparsa come un fatto scontato e inevitabile, come geometrica conseguenza del lineare percorso di tracciati convergenti. Non è questa l'unica o la prima forzatura »giustificazionista di certi storicismi. L'interpretazione di matrice marxiana delle vicende postbelliche ha cercato, infatti, di liquidare l'ipotesi della possibilità di uno sviluppo liberale, laico (laicogarantista) del paese. Essa ha accreditato l'opposta tesi, quella della necessità ed obbligatorietà del processo indicato nella linea, già sopra evocata, De Sanctis Gramsci Togliatti. Solo questa linea avrebbe avuto la capacità di accogliere, mediandoli, tutti gli elementi, i dati, le spinte, le ipotesi, le tensioni e le indicazioni di libertà variam

ente presenti nel paese.

La chiave di lettura dei fatti viene semplificata all'estremo: da una parte c'è la borghesia, il capitale, le spregiate classi medie organiche agli altrui disegni, ecc., dall'altra ci sono le forze del progresso, le forze di classe, con i partiti che ne interpretano i bisogni e ne esprimono la politica. Al centro, il partito comunista. Tutto viene discriminato lungo questo asse di interpretazione, egemonico ed esclusivo. La stessa Dc è buona o cattiva a seconda che esalti la sua anima popolare o obbedisca invece ai disegni di una classe dirigente prona al capitale di Costa o di »lorsignori .

Nel dimenticatoio cadono, però, troppe cose. A partire dalla lettura dell'opera di Rossi e persino del »Mondo . L'esperienza del giornale di Pannunzio viene liquidata, abbiamo visto, come estremo, elegante frutto di una borghesia che si illude di poter realizzare, attorno ad un programma illuminato, una terza forza riformatrice proprio mentre il paese, le sue forze progressiste reali, si organizzano attorno ai nuovi, grandi partiti di massa: un'illusione, dunque, destinata a fallire per palese antistoricità. Ancora negli anni Settanta questa interpretazione circola senza troppe resistenze. Ci si dimentica però che dal 1962 c`è stato anche, in continuità ininterrotta con il partito ideale cui il »Mondo faceva riferimento, e con lo stesso Rossi, un partito riformatore, non terzaforzista, vivo e vitale; tanto da riuscire a coagulare, attorno al referendum del 1974, una maggioranza alternativista rispetto al »regime del blocco di potere clericale realizzatosi a partire dal Concordato del 1929. Dunque, né la li

nea anticlericale di Rossi né la linea riformatrice di Pannunzio erano arretrate.

La linea interpretativa di cui abbiamo parlato, quella dell'asse De Sanctis Gramsci Togliatti, non esprimeva, invece, alcuna capacità alternativa. Non la voleva. Il riferimento alla »classe , che essa faceva costantemente, ha coperto una merce composita e caduca, come oggi possiamo dire alla luce del fallimento di tutti i suoi progetti. La cultura che in quegli anni viene detta »di classe è stata un edificio ideologico eretto da una borghesia intellettuale »emergente protesa ad occupare spazi di potere concessile dalle trasformazioni sociali, ma con origini parallele a quelle proprie del fascismo. Lo diciamo senza acredine. Essa ha proseguito, a ben guardare, una operazione culturale e ideologica che, nel tono e negli strumenti, venne avviata nel nostro paese proprio negli anni Trenta. Già qualcuno ha periodizzato in un arco di tempo che si conclude coi nostri giorni la grande avventura delle ideologie dell'impegno fiorite in Europa negli anni Trenta. In questi anni nascono molti dei modelli dell'ideologia

di sinistra che oggi vediamo agonizzare e disfarsi. Troviamo qui il »superamento della cultura liberale, per esempio, e la ricerca della »terza via , »corporativa e »organicista rispetto all'odiato frammentarismo del mondo moderno a modello industriale. Questa cultura ha forti propensioni al dialogo con la cultura di origine cattolica, che anch'essa cerca la sua identità e nuove strade a spese dell'odiato capitalismo illuminista: ma non nella ricerca e nello sviluppo di valori liberali, democratici. L'oggetto del contendere resta il potere; il modello è sempre quello concordatario, con la ricerca di una ipotetica terza via tra capitalismo e comunismo; quindi corporativismo e »partecipazione , Stato assistenziale, rifiuto del dialogo come confronto, rapporto organico intellettuali/società (tema che Bobbio definì come problema delle »società immature ). E, ancora, primato del »politico , »caso italiano , ecc.

Nel dopoguerra, fino a pochissimo tempo fa, il dibattito e stato in sostanza questo: soprattutto attraverso il gramscismo, che incanalava fermenti di rivolta e speranze di rivoluzione, operaismo e dittatura del proletariato, sul tranquillo binario della problematica dell'egemonia. Si tornava o ci si attestava in realtà sulle fondamenta fissate negli anni Trenta. Ancora una volta la classe dirigente italiana, ora antifascista, ha proseguito un processo che ha lontane origini; da quando. come ha ricordato Valerio Castronovo, fin dagli inizi del secolo »realizzò il passaggio da una economia essenzialmente agricola a una struttura produttiva capitalistica ispirandosi a una visione tradizionale dei rapporti sociali, o alla più schietta ragion di Stato... (6).

»La prima grande operazione politico culturale del dopoguerra ci avverte ancora la grande "storia" einaudiana consistette (...) nella conquista di questo vasto settore dell'intellettualità antifascista all'adesione o al consenso nei confronti del comunismo. L'operazione viene giudicata non come conseguente alle premesse di partenza che pure. si riconosce, non mancavano (»... il marxismo dei comunisti italiani era... ben predisposto dalla sua tradizione, che riconosceva esattamente nell'idealismo filosofico la propria fonte... ) (7), ma come operazione a forte tensione volontaristica e con forte carica politica sia nell'urgenza di fronteggiare la crisi degli anni della guerra fredda sia nell'interesse di conquistare una intellettualità che, nella dislocazione delle strutture sociali già fortemente terziarizzate, era divenuta necessaria alla gestione della società. Nascono ora, di qui, Le strutture burocratiche dei partiti con il loro complesso e organico collegamento con l'informazione, la cultura e lo s

pettacolo, l'editoria, ecc. La linea De Sanctis Gramsci Togliatti (con la variante Croce) è bandiera ideologica di una operazione, per la sua profondità e durata e specificità, non casuale né sovrastrutturale. Se ne può rintracciare la prima manifestazione, del resto, nell'appello che Togliatti rivolse alla gioventù fascista, all'epoca della guerra d'Africa, per un raccordo in ambito comunista delle speranze rivoluzionarie tradite dal fascismo. E' il versante di sinistra della mitologia dei rivoluzionari »duri e puri propria delle destre del tempo.

E' una linea politica e culturale di grande ambizione: liquidare ogni prospettiva di tipo liberale, liberaldemocratico, libertario e radicale. Proprio come il fascismo. Per questo non ci sembra da condividere il giudizio negativo di Ragionieri che parla di quell'episodio come di un »espediente , di un »sintomo grave di sfiducia (8). Non fu tatticismo né sfiducia; era una scelta di profondo significato, con propaggini fin quasi ai nostri giorni. Nel momento di più intensa iniziativa politica del ribollente dopoguerra, Togliatti appare ancora radicato nei temi e nei problemi degli anni Trenta. Quanto egli realizza è un processo di spessore storico, sulle cui linee di fondo egli ha meditato a lungo e su cui non ha dubbi. Nel prenderne atto comprendendone le ragioni e le radici, possiamo oggi dire che, al di là dei correttivi democratici rappresentati dal pluralismo dei partiti nati dalla Resistenza, questi erano i parametri, le persistenze profonde con le quali Ernesto Rossi dovette confrontarsi, opponendovisi

con tutta la forza ideale e politica di cui fu capace.

Perché lui? Perché non altri? Per una straordinaria, superiore capacità intellettuale? Certo un libro come "I padroni del vapore" (9), pur così diseguale e forzato là dove studi più ponderati, equilibrati e documentati saranno abili a distinzioni più sottili, resta unico per forza illuminante nella cultura del dopoguerra. Ma il punto è che Rossi è l'erede di quella cultura politica che subito intuì, nel panorama dell'antifascismo, la necessità di sfidare Mussolini e il fascismo sul piano etico prima che su quello politico e di potere, scendendo sul terreno di un'azione che rompesse con solidarietà e inerzie di classe. Il »Non Mollare non è slogan, ne troviamo ribadite le ragioni necessarie in quell'"Elogio della galera" che è un tesoro di tenuta morale arrovellata e intensa, determinata ad opporsi ai valori apparentemente trionfanti del fascismo perfino spavaldamente, con un agire che rappresentasse una visibile alternativa (10). Le sue polemiche e battaglie degli anni Quaranta e Cinquanta respirano ancora

questo clima, rappresentano l'ultimo sforzo di verifica di quella opposizione etica e politica, il tentativo drammatico e solitario di portarla ancora sul terreno dello scontro politico effettivo e alla tanto agognata vittoria.

Alle proposizioni avanzate dalla cultura della sinistra più o meno marxista, consistenti in una martellante e chiassosa denuncia del capitalismo in quanto tale, Rossi opponeva il problema di come riuscire a spezzare concretamente, nel quotidiano, il coagularsi degli interessi corporativi che, scompaginati dalla guerra e dal crollo della dittatura nonché dal successivo, imposto, inserimento nel circolo del mercato mondiale e dalla paura del nuovo, erano già pronti a riorganizzarsi in quanto costitutivi di un sistema non meramente sovrastrutturale, quello posto in essere dal fascismo. In "Aria fritta" c'è un capitolo, apparso già sul »Mondo nel 1955, in cui Rossi elenca gli errori di politica economica e sindacale commessi in quegli anni da Togliatti e dal suo partito, che non solo aveva sostenuto attivamente tutte le rivendicazioni corporative delle burocrazie ministeriali, ma si era sempre associato ai »grandi baroni : nella politica dei dazi in difesa del »lavoro nazionale , nell'opposizione alla Ceca e a

ogni forma di liberalizzazione del commercio, nella difesa del »più esasperato nazionalismo economico , a tutto vantaggio degli operai protetti e altamente sindacalizzati della grande industria ma a scapito dei meno protetti così come della generalità dei consumatori. E, ancora, Rossi scrive che i comunisti si offrirono come alleati »solerti delle »grandi industrie monopolistiche nel premere sui governi per la »socializzazione delle perdite, i divieti di importazione, i premi alle esportazioni, le commesse statali a prezzi maggiorati, le assegnazioni di materie prime sottocosto, il credito di favore, gli abbuoni di multe e tributi... (11) e così via.

Polemiche liberiste? Si rimproverò allora, e si continua oggi a rimproverare a Rossi l'eccessivo liberismo, la teorizzazione antiquata. Certo il Rossi che già nel carcere aveva perso fiducia nelle auree leggi del mercato non amava nemmeno Keynes. Non lo capiva, diceva che i suoi concetti, come i concetti di Croce, gli scappavano dalle mani »come anguille . Ma aveva ragione quando osservava che l'economia a direzione di Stato era, in Italia, un'economia alla mercé di grandi burocrati corrotti, di maneggioni e pirati d ogni specie. Quello che non poté vedere e capire e che quindi lo rese antistorico era che tale struttura dei processi decisionali e gestionali dell'economia non era una degenerazione di cui dovesse essere imputato il »malgoverno fascista (anche questo fenomeno, il dilagare della corruzione, ha origine con gli anni Trenta, ed è colto già allora nei suoi aspetti scandalistici) ma costituiva il modo specifico di manifestarsi di una profonda trasformazione dell'assetto strutturale della società

e dello Stato, nel graduale passaggio di potere dal centro romano, il centro »politico , ai diversi centri corporativo/gestionali sviluppatisi in anni in cui il fascismo realizzava lo Stato assistenziale come risposta italiana e fascista alla crisi degli anni Trenta, cui America e Russia sovietica fornivano le altre risposte alternative e concorrenziali. Dentro questo assetto nasceva anche e proliferava il primo nucleo di quella »borghesia di Stato che alla fine degli anni Sessanta verrà riscoperta, con la sua necessaria corruzione, nel sistema di potere democristiano .

I fatti diedero ragione al vecchio liberista. Ma c'è di più. Negli anni Cinquanta, non v'è dubbio, il partito che gestisce il neo corporativismo è la Dc. Esaminando lo scandalo della Federconsorzi, proprio il Ragionieri osserva che essa venne allora potenziata dalla Dc fino a divenire »una delle lobbies più potenti dell'Italia degli anni Cinquanta . Alla Federconsorzi è affidata la gestione degli aiuti ERP che fu scrive Ragionieri il sistema attraverso il quale »... si realizzò operativamente la saldatura tra il partito cattolico e la grande industria nazionale... proseguendo la politica del sostegno pubblico all'attività economica privata inaugurata dal fascismo ... (12)

Continuità. Sempre di continuità si deve parlare rievocando la conquista dei centri di potere corporativi da parte del partito cattolico, quello di De Gasperi ma soprattutto quello di Fanfani. Secondo il Ragionieri »proprio su questo terreno e in questo periodo può misurarsi la vera sconfitta subita dalle forze innovative nell'immediato dopoguerra: l'avere quasi completamente trascurato... il problema delle istituzioni... (13). »In questo modo prosegue lo storico »venne gradualmente superata nei fatti, attraverso una serie di contatti diretti tra singole grandi imprese e apparato statale, la cesura esistente superficialmente tra partito cattolico e grossi interessi capitalistici, rappresentati solo in parte dalla Confindustria che, sotto la guida di Angelo Costa, si manteneva su rigide posizioni di classe nei conflitti sociali e, sul piano politico, appoggiava apertamente il partito liberale (14). E' possibile, o certo, che la Confindustria abbia allora oscillato nelle sue scelte politiche. L'appoggio dat

o a Malagodi lo prova. Ma era la Dc ad essere storicamente candidata all'occupazione dello Stato.

Questa occupazione corporativa non è frutto ripetiamo di una degenerazione. Il populismo democristiano è l'aspetto ideologico d'una storia densa e profonda che ancora ci investe dei suoi problemi. Infatti il moderatismo liberale degasperiano non regge alla sconfitta del 1953, e subito il processo di sviluppo del corporativismo riprende secondo uno schema noto, cui la parentesi bellica e postbellica dà solo un po' di respiro nell'illusione del recupero, da una parte del popolarismo e dall'altra (nel mondo laico) di epigoni del mondo liberale prefascista che si ingegnano inutilmente a dare forza effettuale ai vagheggiamenti terzaforzisti. A questo liberalismo tardivo, schiavo dei propri rituali, attribuiamo grandi responsabilità nell'aver isolato Ernesto Rossi, quando egli gridava loro in faccia la propria lucida previsione, il suo preveggente pessimismo .

La svolta decisa verso l'assunzione da parte della Dc della gestione dello Stato avviene al Congresso di Napoli del 1954, quando sale al potere la corrente di Iniziativa democratica. Questa mira alla conquista del partito per farne l'egemone della società e dello Stato attraverso la gestione dello sviluppo, con la sconfitta del malthusianesimo degasperiano (e einaudiano) e della stessa Confindustria, attardatasi alla difesa dell'industria privata. Fanfani dà il via alla siderurgia di Sinigaglia e alla aggressiva politica energetica e petrolifera dell'ENI di Mattei Cefis. Il centrosinistra è il trionfo, attraverso l'industria pubblica e l'ENI, della borghesia di Stato e della sua intermediazione fra strutture produttive e apparato dello Stato. La trasformazione è opera della Dc: non quella del cattolicesimo tridentino, o delle piccole libertà d'uno Sturzo; questa nuova è la Dc tratteggiata dai professorini che hanno imparato i meccanismi della »dialettica di sinistra dal potere fascista, alleati con i borghe

si di Stato; produttivisti, moderni, efficienti, ma ignari delle regole elementari del liberalismo. Le responsabilità della svolta non ricadono tuttavia solo su cattolici e manager. L'intera cultura politica di questi anni è centripeta, tutte le forze politiche fino al Pci sono protese al compromesso, all'accordo con il potere stipulato il più vicino possibile al centro, là dove prospera l'industria di Stato e i suoi signori della guerra. In Parlamento, si vota all'unanimità gli aumenti dei fondi di dotazione; fuori, tutti i linguaggi si smussano e si integrano, praticamente indiscernibili l'uno dall'altro. Il tema orchestrato all'unisono è l'occupazione del potere attraverso la sua spartizione. Non vi è proposta alternativa nemmeno sul piano dei controlli. Matura e si perfeziona lo schema secondo il quale alla Dc e agli alleati satelliti spetta il governo, alla opposizione del Pci la cogestione delle procedure, più settori ingenti del governo locale e il monopolio del settore parallelo del capitalismo c

ooperativistico, necessario a mantenere l'enorme macchina del »politico , il »nuovo partito di massa, I'»intellettuale collettivo. La divisione dei poteri che si realizza è tutta interna al sistema politico eretto a regime.

Pochi restano fuori; quasi nessuno legge correttamente il processo che si sta svolgendo dietro i mascheramenti ottenuti col silenzio e la corruzione dell'informazione. Quando si prospetta la fusione Montecatini Edison (siamo al 1966) Ernesto Rossi avanza perplessità. A quanti venivano affermando (Scalfari, se non erriamo) che l'operazione, per quanto rischiosa, andava dopotutto nel senso della storia, egli chiese che gli spiegassero perché tutti i dati affermavano che il gigantismo gestionale non appariva conveniente, certo non era né corretto né limpido nelle sue procedure, mentre era la piccola e media industria a dare risultati più sani. Nessuno, allora, raccolse quei dubbi, ma fu poi il paese a pagare a caro prezzo l'operazione. Chi oggi potrebbe negare che quella fusione fu fatta, quanto meno, avendo calcolato in modo superficiale i dati in gioco, i parametri gestionali? Per spiegare i retroscena di questo periodo è utile rileggere un passo del »Libro Bianco pubblicato nel 1967 dal Partito radicale. »L

a sinistra rischia vi si afferma »di trovarsi coinvolta nella difesa di una forma di capitalismo di Stato con fortissime venature corporativistiche che, praticamente, è un anello essenziale della costruzione tecnocratica, capitalistica, tendenzialmente autoritaria. Questo capitalismo di Stato, gli Enti in cui si incarna, sono puntuali protagonisti di scandali e corruzioni: da potenziale e oggettiva vittima la sinistra... rischia di comparire invece come la fautrice di forme di gestione dello Stato che oggi, qui in Italia, sono invece strumenti di regime. (15)

C'è, come si vede, piena continuità tra questa pagina e le campagne di Rossi. E c'è anche più che sintonia su una questione che affiora appena nel testo appena riletto. Come è noto, Rossi fu accanito nel denunciare le malefatte dell'Ovra, la polizia politica fascista. La polemica poté apparire, al momento, marginale, frutto di un testardo moralismo. Non era, invece, solo questo. Nell'Ovra, Rossi colpiva la pupilla del regime fascista, ma anche individuava una struttura necessaria del potere che le spinte involutive avrebbero di lì a poco rimesso in funzione. Sarebbero passati ancora pochissimi anni e proprio attorno all'ENI ritroveremo muoversi il Sifar e i servizi segreti in un intreccio che investirà d'una fosca luce le sfere del nuovo potere, della nuova (o vecchia?) borghesia di Stato.

Nel 1964 il centrosinistra entrava in involuzione per le spinte e controspinte messe in moto da un »golpe annunciato al cui centro veniva individuato, appunto, il Sifar e, insieme, il Presidente della Repubblica Segni, l'ENI con Cefis, lo stesso Moro... Tramite quei servizi di sicurezza l'ENI arrivava anche a compiere un grossolano tentativo di corruzione di settori del partito repubblicano recalcitranti ad accettare gli equilibri del sopravveniente e necessario centrosinistra, e promuoveva (attraverso l'AGIP) una vasta campagna di corruzione della stampa, compresa quella di partito e di sinistra. I radicali parlarono allora di circa 20 miliardi, stornati per l'operazione in cui fu coinvolto anche il quotidiano »Paese Sera . L'ENI è scritto sul »Libro Bianco stava divenendo un centro di »pericolosi e poco chiari tentativi di tipo doroteo volti ad assicurare »soluzioni di ricambio in caso di fallimento del centrosinistra, che allora si presentava come progetto o programma »riformatore " (16).

Questa continuità, questo intreccio, questo riaffacciarsi di strutture, di linee politiche, di sviluppi istituzionali, dimostrano che leggere il ventennio fascista esclusivamente come il periodo del partito unico sia semplificatorio. La storiografia più recente ha cominciato a capirlo, e a capire anche come l'aver accreditato la Resistenza del merito di aver cancellato quello che usiamo chiamare »fascismo sia un grossolano errore, una mistificazione. Il ritorno dei partiti sulla scena politica non erode l'impianto statuale e istituzionale del fascismo, contrassegnato, come oggi sempre meglio si avverte, dalla supremazia della sfera politica, del »politico (come si dice), sulla società civile e sulle regole e norme del diritto. Il »politico è, non a caso, scoperta di scienziati italiani, all'inizio del secolo. Il fascismo fa del »politico una tecnica pressoché perfetta. Lo strumentalismo della sfera del »politico , divenuta autonoma e autogiustificantesi, si manifesta come ideologia e propaganda. Ma i par

titi che appaiono nel dopoguerra si appropriano di queste tecniche e grazie ad esse instaurano il proprio predominio assoluto sul reale, su società e istituzioni, piegandoli alla gestione che ne fanno burocrazie di partito e politici di professione, uniti nella più rigida reciproca cooptazione, garantita dall'uso »corretto dell'ideologia. E quello che oggi viene denunciato come partitocrazia.

La cultura liberale era la cultura delle separatezze, delle distinzioni semantiche, del continuo rapporto tra significante e significato. Isnenghi ci ha mostrato molto bene come, sotto il fascismo, ogni parola, il discorso intero, sia invece al servizio del »soprasenso , vale a dire strumentalizzato al servizio del potere (17). Il »soprasenso (in parole povere, la propaganda) è il fulcro stesso dell'ideologia, che esercita il suo dominio sul mondo e sulle cose in quanto le media e le »costituisce nella propria rappresentazione, ligia alle indicazioni del potere. E' il potere che, letteralmente, »crea le cose, la realtà, anche prima che questa accada. Se i massmedia potranno realizzare l'artificiosità del linguaggio, della comunicazione, strumentale ai centri di irradiazione del o dei poteri, questo processo diviene possibile perché, in precedenza, il potere ha aperto la strada, ha indicato le vie e i modelli sui quali edificare la realtà e l'essenzialità dell'artificio. La parola dialogo deperisce e viene

sostituita dalla parola irrelativa. E' la violenza moderna, quella che sostituisce il manganello. Anche per questo rispetto Rossi resta all'opposizione. Lo stile dei suoi scritti appare ancorato al modello positivistico. Per Rossi la parola resta, deve restare, ancorata al suo referente, in un rapporto speculare che non ammette giochi dialettici. In lui l'ipotesi, in una logica tutta positivista e scientista, è continuamente protesa alla verifica, alla verificazione. Nei linguaggi delle ideologie del secolo questa rigorosa attenzione è invece assente, anzi viene negata e rifiutata; il linguaggio della nuova forma del »politico è strumentale, nelle forme sofisticate della dialettica: nulla deve essere fissato, tutto può e deve restare intercambiabile, al di fuori di controllo, perché i procedimenti di controllo sono anche essi in mano ai detentori del potere, con esclusione delle »masse chiamate sempre più solo a concedere il loro consenso; magari attraverso la partecipazione, ma nell'affievolirsi dell'ese

rcizio di poteri democratici. Il rapporto tra parola e cosa è in Rossi scrupoloso, persino sparagnino. Questo fatto di stile (o di stilistica) non è per nulla secondario: Rossi è culturalmente incapace dell'arte sofisticata e ambigua della »mediazione , di cui egli ignora persin l'esistenza, testardo com'è a chiedere all'interlocutore il rendiconto inflessibile, fiscale, dell'ultimo centesimo in bilancio. E' una delle caratteristiche più tipiche, persino irritanti, d'una cultura scomparsa.

Infine: se è vero che il prodotto più appariscente e significativo della politica culturale delle sinistre nel dopoguerra, il neorealismo, scopre oggi anche ad opera di critici di »nuova sinistra - tutto il dolciastro ciarpame di cui era intessuto, nulla fu più lontano da Rossi di tale sdolcinatura, con il suo sottostante perbenismo. Il linguaggio di Rossi è alieno da quel perbenismo dei buoni sentimenti che denuncia l'origine piccolo borghese di tanti intellettualismi d'epoca. Anche così Rossi respinge la nuova cultura di massa; i buoni sentimenti sono la mascheratura dietro la quale le classi dirigenti, le sinistre in specie, sono riuscite a smussare il contrasto, il conflitto tra classe e cultura, e ad operare quella saldatura organica che pervade e si insinua in tutta la storia del progressismo intriso di populistico solidarismo. Nel gran mare dei buoni sentimenti (ai quali viene piegata anche la lettura di un Gramsci) nel tardo fascismo come nel postfascismo suo erede, prosperano strapaese e neoreali

smo, Casa del Fascio e Casa del Popolo. Si tratta di temi, di filoni, di indicazioni solo sommarie, che non è possibile in questa sede sviluppare e documentare (18).

Non c'è chi non veda a qual livello di degrado siano giunte quelle istituzioni europee alla cui architettura Rossi tanto lavorò. Vecchi e nuovi nazionalismi stanno erodendo le ultime tracce della loro già scarsa credibilità. In questo desolante panorama, consiglierei di meditare un poco su quel testo ancora tutto aperto che è il "Manifesto di Ventotene". Per chi sia interessato alle riforme istituzionali e costituzionali, un minimo di attenzione nei confronti di questa rigorosa riflessione sul valore delle istituzioni e della forza normativa e prescrittiva che esse hanno nel determinare la vita dei popoli non sarà infruttuosa. Senza ovviamente avere nemmeno il sentore di tanti odierni scritti che si rovesciano sulla crisi dello Stato assistenziale e ne rivisitano la nascita attorno agli anni Trenta, Rossi e Spinelli tracciano in quel "Manifesto", sotto forma di programma politico e quindi con quel tanto di volontarismo che è proprio del genere letterario, una analisi »strutturale che resta precorritrice di

alcune delle ragioni di fondo di tale crisi: essi riuscirono miracolosamente a intuirne l'avvento e a disegnarne i contorni. In quel libro c'è già tutto il dramma dell'Europa, in crisi (già allora) d'identità, già insidiata più da se stessa e dalla propria storia la storia della sua potenza, così legittimamente ma così vanamente presente soprattutto, non dimentichiamolo, nella grande cultura delle destre continentali che non dal confronto con le altre potenze mondiali emergenti (19).

Come sopra ricordato, Rossi era impregnato di una cultura e di un linguaggio di origine positivista: un suo limite, parziale ma non ininfluente. Ma quando affronta il tema teorico delle istituzioni in particolare, Le istituzioni federali da proporre per l'Europa unita che egli intende come strutture liberanti, garantiste, garanti dell'unico possibile sviluppo delle libertà del nostro tempo concreto e reale, Rossi è subito ben fuori e lontano dalle strettoie del positivismo, come anche dai sedimenti del concretismo di tipo, ad esempio, salveminiano. E' un errore, infatti, ridurre tutto Rossi al suo concretismo, che pure ci fu. Secondo la logica del concretismo, le buone realizzazioni fanno le buone istituzioni, la società buona. E' una credenza che torna stranamente in circolazione, anche se con lineamenti ritoccati in omaggio alla modernità, al moderno. Molti esaltano la teoria del puro sviluppo, la cosiddetta (e invocata) seconda rivoluzione industriale, quale portatrice del postmoderno; nel puro sviluppo

costoro vedono il modello capace di produrre autonomamente, dal suo interno, dai suoi stessi meccanismi propulsivi, dalle logiche intrinseche al suo funzionamento, il corretto sistema del governo. Sistema del governo corretto per sé (per l'impresa), ma anche per la società che su di essa si stabilisce e conforma. Il buon governo della rivoluzione d'impresa è tale, è buono, perché e in quanto si contrappone, è antitetico rispetto alle vuotezze degli ideologismi del recente passato.

L'industrialismo, o se si vuole il postindustrialismo, è la modernità rampante ed emergente che spazza via le ideologie, garantendo al loro posto l'avvento del »disincanto weberiano, la laicizzazione, la lettura funzionale degli eventi, e quindi insegnando la tecnica corretta del governo, del buongoverno senza aggettivi. Anche questo è positivismo, in veste moderna e accattivante, a guardar bene. Penso che non sarebbe piaciuto a Ernesto Rossi. In una lettera dal carcere, indirizzata alla sua cara Pig, la moglie Ada, scrisse una volta mi pare che se avesse dovuto indicare, quale creatore di ricchezza, un nome, tra Cavour e Ford egli avrebbe scelto Cavour: colui che in veste di statista, di uomo di governo, mise in essere gli ordinamenti civili acconci a promuovere un coerente sviluppo del Paese, molto meglio di quanto non avesse fatto il tecnocrate, il Ford, l'uomo del profitto.

Ernesto Rossi guardava infatti al profitto con la preoccupazione di chi sa che questo motore della società ha un cuore ambiguo e demonico. Lo sapeva lui come, mi pare, Keynes e Tocqueville. E, forse, sapeva che a dominare il demonico non c'è nulla di più adeguato che, proprio, il Buongoverno.

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Note al testo:

1) Si veda la pubblicistica apparsa sulla stampa in occasione della scomparsa di Rossi (1967) e per le commemorazioni del 1977. In particolare:

»L'Astrolabio , n. 8, a. V, 19 febbraio 1967 (numero dedicato a Ernesto Rossi);

»L'Astrolabio n. 9, a. V, 26 febbraio 1967. Gianfranco Spadaccia, »Ernesto Rossi, la battaglia federalista (a colloquio con Altiero Spinelli);

»Resistenza , n. 4, aprile 1967 (numero dedicato a Ernesto Rossi);

»Il Mondo , 18 settembre 1975. Recensione di Arrigo Benedetti all'antologia di scritti di E Rossi, »Un democratico ribelle , a cura di Giuseppe Armani, Parma, Guanda 1975;

»Notizie Radicali , dicembre 1977, Angiolo Bandinelli, »Ernesto Rossi: ci ha insegnato a "non mollare";

»Quaderni del Salvemini , n. 25. 1977: »Ernesto Rossi a dieci anni dalla scomparsa Atti delle Tavole rotonde del 23 gennaio e del 5 aprile 1977.

2) Alberto Asor Rosa, »La Cultura , in "Storia d'Italia dall'unità ad oggi", Torino, Einaudi, 1975, vol IV, t. 2·. In realtà Asor Rosa lo cita una volta, a pag. 1542, tra i fondatori del »giornaletto clandestino »Non Mollare .

3) Rosario Romeo, prefazione a: Manlio Del Bosco, "Il partito radicale e »Il Mondo , ERI, Torino, 1980.

4) Alberto Asor Rosa, »Intellettuali e potere , in Storia d'Italia, cit., Annali, vol. 14, pag. 1251.

5) Si veda, in particolare, Gabriele Turi, "Il fascismo e il consenso degli intellettuali", Bologna, Il Mulino, 1980.

6) Valerio Castronovo, »La storia economica in "Storia d'Italia", cit. vol. IV. t. 1·, pag. 352.

7) Alberto Asor Rosa, »La cultura , in "Storia d Italia", cit. vol. IV. t. 2·, pag.1592.

8) Ernesto Ragionieri, »Storia politica e sociale . In "Storia d'Italia", cit. vol IV, t. 3·, pag. 2267.

9) Ernesto Rossi, "I padroni del vapore", Bari, Laterza 1955.

10) Ernesto Rossi, "Elogio della galera", Bari, Laterza 1968.

11) Ernesto Rossi, "Aria fritta", Bari, Laterza, 1965, pagg.166-175.

12) Ernesto Ragionieri, »Storia politica e sociale , in "Storia d'Italia", cit. vol. IV, t. 3·, pag. 2502 2503.

13) Ibid., pag. 2502.

14) Ibid., pag. 2504.

15) "Libro bianco del Partito Radicale", a cura di A. Bandinelli, S. Pergameno, M. Teodori, Roma, Ed. Radicali, 1967, pag. 38 (il capitolo venne redatto da Marco Pannella).

16) lbid., pag 40.

17) Mario Isnenghi, "Intellettuali militanti e funzionari", Torino, Einaudi, 1979.

18) Alberto Asor Rosa, "Scrittori e popolo", Roma, Savelli, 1966.

19) A.S. e E.R., "Problemi della Federazione europea". edizioni del Mov. Ital. per la Fed. Europea, s.d.

 
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