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Era un uomo che amava la vita e ne fece un manifesto politico

• da Il Riformista del 20 dicembre 2007, pag. 2

di Alessandro Calvi

Amava la vita. Morì dopo averlo affermato, anzi: dopo averlo ri­vendicato come un fatto politico insieme al diritto di scegliere sul pro­prio destino. È passato un anno da quando - era la notte tra il 20 e il 21 dicembre 2006 - Piergiorgio Welby chiuse gli occhi e morì. Dodici mesi, dunque, e qualcosa del paese  che Welby quella  notte  salutò sembra cambiato: la politica, ad esempio, che ha visto nascere partiti nuovi; quella stessa politica alla quale Welby guardò come una speranza di cambia­mento e che però da allora non ha  saputo fare  quei passi avanti che invece so­no stati compiuti nei tribu­nali. Dalla politica, chi con Welby ha condiviso quella battaglia, aspetta ancora ri­sposte, «a partire - dice la moglie di Piergiorgio, Mina - dal testamento biologico».

 

«Spero - dice Mina - che su que­sto si trovi un compromesso giusto per i malati e anche per dare ai medi­ci una legge che li aiuti nelle loro de­cisioni. E perché non debbano più scrivere sulle cartelle cliniche una bugia quando non si può più fare nul­la e si sceglie la desistenza». Non so­lo questo, però. Mina Welby chiede anche altro. Oggi, infatti, è un giorno triste ma è anche un giorno che deve riempirsi di speranza. E la speranza non può che arrivare da uno sforzo delle istituzioni per garantire una as­sistenza che restituisca ai malati di­gnità e li renda indipendenti. Anche se, fa notare la Welby, qualcosa da un po' di tempo su questo fronte - alme­no su questo fronte - si muove.

 

Amava la vita, Welby, ma sapeva che la morte è un fatto umano e, nel­la sua situazione, andava accettata co­me conseguenza naturale, e inevitabi­le, della malattia che lo aveva attacca­to anni prima e che ormai lo costrin­geva a letto, attaccato a un respirato­re, impossibilitato a muoversi, preda di dolori e di una situazione che pote­va soltanto peggiorare. Una vita di­gnitosa la chiese anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una lettera che, insieme alla ri­sposta di Napolitano, aprì quello che, poi, divenne un vero e proprio caso politi­co. «Io amo la vita - scrisse Welby - Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è so­lo un testardo e insensato accanimento nel mantene­re attive delle funzioni biolo­giche. Il mio corpo non è più mio». Con quella lettera, Welby scelse di farsi poli­tico, e scelse di farlo dedicandosi per in­tero alla causa che aveva sposato: le sue idee e il suo stesso corpo, pro­prio   quel   corpo che non assecon­dava più il suo cer­vello ancora luci­do. E che lucido ri­mase fino all'ulti­mo  istante  della sua vita.

 

Questa sera a Roma (presso la Biblioteca Ange­lica in piazza Sant'Agostino), quella battaglia verrà rappresen­tata nello spetta­colo diretto da Ugo De Vita e tratto dal libro dello stesso,Welby Lasciatemi morire. La prima è andata in scena il 18 a Bruxelles e an­che Mina Welby era sul palco, ideal­mente ancora accanto a Piergiorgio nel proseguire la sua battaglia, ora co­me un anno fa. Fu Mina, quella  sera  del 2006, ad aprire la porta della loro ca­sa a un gruppetto di perso­ne  chiamate  e volute da Welby. Di questo gruppetto facevano parte Marco Cappato e Marco Pannella. Insieme a loro, Mario Riccio: un medico anestesista. La decisione di morire Welby l'aveva già presa. Quella sera, vide per l'ultima volta la televisione, rispose a qualche email e diede un'ultima occhia­ta ai forum su in-ternet che anima­va. Non disse però che quello sareb­be stato il suo ad­dio. Poi salutò la madre, chiese un po' di musica, Mi­na gli prese la mano. Quindi fu sedato mentre il re­spiratore veniva staccato. Quando morì erano le 23.40 circa.

 

Come andaro­no le cose, Mina Welby lo ha rac­contato in segui­to, e lo ha raccon­tato  anche  sulle pagine del Rifor­mista proprio alla vigilia dell'udienza che doveva accertare se nell'operato di Riccio, il medico che materialmen­te sedò Welby e staccò il respiratore, vi fosse qualcosa di penalmente rile­vante. E il verdetto fu che: no, non c'era omicidio del consenziente. Welby, dunque, poteva chiedere l'in­terruzione del trattamento che lo te­neva in vita e il medico doveva asse­condare questa richiesta. «Ora è dav­vero finita», disse Mina Welby com­mentando quella decisione, e poi ag­giunse: «La vicenda umana di Pier­giorgio è finita. Non quella politica, però». Già, perché come la stessa Mina aveva già raccontato, il giorno do­po la morte di Piergiorgio iniziò per lei una vita nuo­va che proseguì nella dire­zione indicata dal marito.

 

Welby amava la vita, dunque. E questo è ciò che di lui soprattutto rimane, un anno do­po quella notte nella quale quella vi­ta si spense. Da qui, dall'amore per un'esistenza che era simile a quella di tanti altri malati e di persone che ma­late non sono, occorre oggi ripartire perché la vita e le scelte che in vita si compiono, e - insomma - la libertà e il rispetto per la persona umana, pre­valgano sulle divisioni che ancora og­gi paralizzano la politica e impedi­scono al Parlamento di prendere de­cisioni. Lo chiedeva Welby e lo ha chiesto fino all'ultimo.

 

Che la politica si confronti, e de­cida, lo ha chiesto il presidente Gior­gio Napolitano che alla vedova Welby e al segretario dell'associazione Luca Coscioni, Marco Cappato,  ha inviato un nuovo messaggio: «Ribadisco oggi l'auspicio, espresso allora che il dibattito da tempo aperto nel Paese e in Parlamento si caratterizzi come un confronto serio, aperto, vol­to alla ricerca di soluzioni appropria­te e condivise». Parole da sottoscrive­re. Fino all'ultima.   


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