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Il falso Schindler dell'Hotel Rwanda

• da La Stampa del 6 febbraio 2008, pag. 13

di Domenico Quirico

Ora il genocidio ruandese, questa africana tra­versata del Male, i cen­to giorni di follia sanguinaria, ci appare ancor più fondo, più scuro, più insopporta­bile. Sì, il bilancio era di 800 mila morti, ma a Kigali un albergo era ri­masto aperto, si chiamava «Hotel delle mille colline» e lì un uomo si era issato al di sopra di questo ocea­no di ferocia. Un uomo comune, non un rambo o un martire, semplice­mente un impiegato cui la Sabena, proprietaria dell'hotel, aveva affida­to la gestione. Un uomo che aveva aperto le braccia mentre il mondo chiudeva gli occhi e con umile arse­nale di furberie, bugie, santa corru­zione, coraggio impavido aveva sal­vato 1200 rifugiati tutsi, donne vec­chi bambini, dal massacro.

 

Una goccia nel mare dell'orrore certo, ma questo Oskar Schindler africano riscattava gli idealisti, i pu­ri, gli amici del genere umano. La vi­ta aveva perso contro la morte in quei giorni ruandesi, ma la memo­ria, grazie a quell'uomo giusto, vin­ceva nella sua lotta contro il nulla. Paul Rusesabagina, questo il suo no­me, faceva il tassista a Bruxelles quando Hollywood l'ha scoperto e trasformato, sembrava quasi suo malgrado, in eroe universale. «Hotel Rwanda», «un film che racconta una storia vera» interpretato magi­stralmente da Don Cheadle, ha fatto versare lacrime a tutto il mondo, il suo successo ha innalzato a coscien­za universale la deprecazione della macelleria di Kigali. E ha aiutato la catarsi dell'Occidente, che ha così cessato di battersi il petto per non aver visto e sentito in tempo.

 

Son passati 14 anni, commossi anniversari sono stati celebrati, qual­che colpevole è stato arrestato e giu­dicato. Paul Ruse­sabagina è stato ricevuto due volte da Bush che gli ha consegnato il Presidential Medal Award, ha tenuto conferenze e scritto l'autobiografia «An ordinary man», classificata un po' frettolosamente tra i classici del­la letteratura umanista.

 

Alfred Ndahiro è un giornalista, consigliere di comunicazione del di­scusso presidente ruandese Paul Kagame; Privat Rutazibwa è un univer­sitario. Insieme, convinti che ci sia stata una negligenza verso la verità, hanno condotto un'indagine (diven­tata un libro pubblicato in Francia da Harmattan) che con puntiglio implaca­bile, quasi feroce, demolisce la leggen­da dell'uomo che aveva creato un luo­go in cui la speranza potesse sopravvi­vere. Ne esce un ritratto capovolto, di un arrivista meschino che si faceva pa­gare dollaro su dollaro la sua pietà, che trafficava con i responsabili del massacro, che ha ascritto cinicamen­te a suo merito le circostanze cui sol­tanto si deve la sal­vezza di quei 1200 tutsi. Il suo eroismo sarebbe stato sub­dolamente retro­spettivo, una icona falsa costruita con l'aiuto del cinema americano. Restiamo, dunque, dopo averlo letto, nudi di fronte al versante atroce dell'umanità. «Bisogna dire la verità sulle vittime, sugli hutu onesti e su quelli che davve­ro si mostrarono eroici e non furono pochi - incalzano i due autori -. Una fin­zione, anche se ben interpretata, con attori eccellenti, non può, non deve fa­re di una menzogna una verità».

 

La controstoria dei due ruandesi deve esser letta con cautela, in Ruanda il diritto all'oblio non sembra esistere. Restano comunque, implacabili, i fatti e le testimonianze. Perché i due autori hanno interrogato i superstiti e coloro che lavoravano nell'albergo. Ciò che gli sceneggiatori di «Hotel Rwanda» non hanno fatto. Ebbene, nulla corrisponde alla «verità» descrit­ta dal film. Due esempi. Micheline Uwicyeza, 19 anni allora, cercava aiu­to con i suoi fratelli: «Abbiamo incontra­to Rusesabagina al­la reception, ci ha chiesto 80 dollari a persona, come agli altri che si trovava­no già lì. Ha aggiunto che se non aveva­mo da pagare non ci avrebbe lasciati entrare perché aveva già abbastanza "inyenzi"", scarafaggi (lo spregiativo che gli hutu usavano per designare i tutsi) come noi. Quando è salito nella sua suite uno dei dipendenti dell'alber­go, si è impietosito e ci ha fatto scende­re di nascosto in cantina...».

 

Alexis Vuningoma era invece il re­sponsabile del ristorante: «Quando Rusesabagina ha preso in mano la si­tuazione i rifugiati erano già là, richia­mati dal fatto che l'albergo era il quar­tiere generale dell'Onu e lo si riteneva un posto sicuro. Non può sostenere di aver fatto entrare i fuggiaschi. Anzi, ci ordinò di far pagare il cibo le came­re e tutti i servizi. Un certo numero di amici suoi aveva diritto a tutto gratui­tamente, aveva addirittura compilato una lista». Perché allora i rifugiati del­l'hotel si sono salva­ti? Nell'albergo si trovavano funzionari dell'Onu e stranieri, che i registi del massacro teme­vano come scomodi testimoni. E poi l'«Hotel delle mille colline» fu esibito nelle trattative co­me la prova che i tutsi non erano stati massacrati. Quei disperati potevano servire anche come ostaggi per sfug­gire alla vendetta delle milizie tutsi che si avvicinavano alla capitale. So­prattutto, al quinto piano era nasco­sta una unità segreta di comunicazio­ni dell'esercito francese, il principale alleato del governo hutu.



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