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Spagna e Italia divise dalla bioetica

• da Left del 24 ottobre 2008, pag. 76

di Simone Luciani

Javier e Andrés sono fratelli e sono i due bimbi spagnoli più famosi del momento. Javier è appena nato grazie alla fecondazione assistita. Grazie alla diagnosi preimpianto che ha selezionato l’embrione giusto, è sano e ha la possibilità di curare il fratello colpito da un terribile malattia genetica come la beta talassemia. Andrés ha sei anni e dalla nascita è costretto a una vita d’inferno che tale rimarrà fino al trapianto di midollo osseo ora possibile con il sangue cordonale di Javier. La comunità scientifica esulta, il mondo politico sorride, la stampa informa con correttezza e dovizia di particolari. Sullo sfondo il solito gracchiante ma sempre più flebile anatema vescovile. Succede in Spagna: mille chilometri scarsi dall’Italia, che sembrano diventati centomila anni luce. Per commentare il caso da noi sono state usate parole e toni ben diversi. «Eugenetica!», ha urlato Lucetta Scaraffia dalle colonne dell’Osservatore Romano. E «eugenetica!» le ha fatto eco il sottosegretario con delega alla Salute, Eugenia Roccella.

 

A smascherare i loro slogan ci ha pensato Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica: «Ormai "eugenetica" significa solo "non mi piace". Alla base c’è un pregiudizio che vuole affermare la sacralità del generare».

 

Intanto però quel pregiudizio è rimbalzato qua e là sui titoli di giornali e nei servizi di accomodanti tg. Il caso spagnolo, paragonato a ciò che accade in Italia, mette impietosamente in evidenza almeno due dei punti più nefasti della legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Prima di tutto la questione della diagnosi genetica preimpianto. I genitori di Javier e Andrés hanno potuto farla gratuitamente grazie al sistema sanitario della Regione autonoma dell’Andalusia.

 

La diagnosi è in teoria possibile anche da noi in base alle linee guida della legge 40 promulgate dall’ex ministro della Salute, Livia Turco. Ma nessuno le esegue. Perché? «Forse perché occorre fare definitivamente chiarezza su cosa vuol dire eugenetica, e oggi un medico che fa la diagnosi preimpianto crede ancora di rischiare il tribunale», osserva Carlo Flamigni, ordinario di Ostetricia e ginecologia all’università degli studi di Bologna e tra i massimi esperti di fecondazione assistita. Poi ci sono problemi concreti, prosegue il professore: «Non si può fare un’indagine preimpianto potendo fertilizzare solo tre ovociti. Negare a una coppia il diritto di sapere se il futuro bambino avrà degli handicap è una grossa cattiveria». L’altro punto debole della legge 40 che la storia spagnola mette in luce riguarda i requisiti di accesso alle più avanzate tecniche di fecondazione da parte delle coppie non sterili ma portatrici di malattie genetiche ereditarie, come i genitori di Javier. Accesso che da noi è vietato.

 

«Questa possibilità - ricorda Flamigni è consentita, secondo la legge, alle coppie sterili e infertili. Sterile è la coppia che non è capace di iniziare una gravidanza, infertile quella che non riesce ad avere figli vivi e in grado di sopravvivere. Nell’infertilità sono compresi, a mio avviso, problemi genetici. Ma qualcuno dovrebbe portare il caso da un magistrato». E un caso analogo a quello spagnolo si è verificato nel 2004 anche in Italia. «Nel 2004 - ricorda l’avvocato Gallo, presidente di Amica cicogna e vice dell’associazione Luca Coscioni - il piccolo Luca fu salvato dalla talassemia. L’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia esaltò i meriti della ricerca scientifica, non sapendo che i genitori avevano dovuto fare la diagnosi preimpianto a Instanbul, spendendo migliaia di euro a causa dei divieti della legge 40 approvata pochi mesi prima con soddisfazione dello stesso ministro. Quando Sirchia lo scoprì calò il silenzio stampa sulla vicenda».

 

«La realtà - commenta Filomena Gallo - è che anche da noi prima della legge 40 le coppie con malattie genetiche potevano ottenere la diagnosi preimpianto. Avere accesso a una tecnica sanitaria dovrebbe essere un diritto di tutti». Resta ancora una domanda: come hanno fatto Spagna e Italia, Paesi affini per cultura e tradizioni, a separare le loro strade così clamorosamente? «La Spagna non ha mai avuto il potere del papato nei propri confini - risponde Flamigni -. Un Paese in balìa di un potere che si credeva sconfitto da un secolo e mezzo e che invece ancora imperversa e vuole vincere tutte le battaglie sui temi morali è un Paese sfortunato». 



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