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A lezione di democrazia

• da Left del 4 settembre 2009, pag. 6/7

di Marco Cappato

Mentre il meeting di Comunione e liberazione fa sfoggio della sua trasformazione in passerella del potere, le feste del Partito democratico offrono il palcoscenico alle esercitazioni precongressuali perle alleanze sul versante centrosinistro della partitocrazia. Sullo sfondo, il vuoto di politica è occupato dall’intensificarsi della rissa tra due fazioni in realtà unite su ciò che conta: dal sistema istituzionale alla subalternità al Vaticano; dai finanziamenti pubblici alla ragion di Stato filo Gheddafi; dall’abbandono del sistema giustizia carcere alla conservazione di un welfare ingiusto e di un debito pubblico incontrollato. Da Genova a Rimini, caratteristica comune dei dibattiti, oltre a quella di essere trasmessi da Radio radicale, è la sostanziale esclusione dei Radicali, cioè della possibilità di discutere sull’urgenza di chiudere, dopo il ventennio fascista, anche il sessantennio partitocratico.  A fronte di ciò, la seconda edizione della scuola Luca Coscioni a Salerno, è un tentativo di rimettere al centro la politica attraverso quella "teoria della prassi" radicale che consentì, ad esempio, a un malato di sclerosi laterale amiotrofica come Luca di diventare leader politico dopo aver incontrato il Partito radicale. La chiave "coscioniana" per leggere il degrado istituzionale del nostro Paese è innanzitutto quella dello stato comatoso e oppresso della ricerca scientifica, e delle urgenze di scienziati e di malati che, come diceva Luca, «non possono aspettare le scuse di uno dei prossimi Papi». Ma la portata della questione scientifica investe in pieno il futuro stesso della democrazia, non solo in Italia. Le istituzioni democratiche infatti possono sopravvivere, in termini di credibilità ed effettivo collegamento con la volontà popolare, soltanto operando una radicale apertura nei confronti della scienza, intesa sia come valorizzazione e insegnamento del metodo scientifico - intrinsecamente laico e anti ideologico - che come sviluppo della ricerca in ogni campo. Nell’anti democrazia italiana, che ha operato sin dall’inizio per la cancellazione dei diritti civili e politici previsti dalla Costituzione, la considerazione per la scienza è a livelli minimi. È un fatto che gli scienziati italiani per eccellere in molti campi debbano andare all’estero, così come fanno cittadini che vogliono usufruire di alcune pratiche mediche, dalla fecondazione assistita alla pillola abortiva. Sono conseguenze di un processo profondo, che vede l’espulsione dal dibattito politico anche di altri temi legati al futuro del nostro pianeta, ai quali la scienza dovrebbe essere chiamata a offrire soluzioni, tra le quali spetterà poi alla politica scegliere, non senza aver prima informato e coinvolto l’opinione pubblica.  Naturalmente il problema non riguarda solo le scienze della vita umana, legate all’autodeterminazione individuale e alla laicità. Il divario tra scienza e politica ha conseguenze drammatiche anche rispetto all’esaurimento delle risorse ambientali - acqua, fonti di energia, suolo, materie prime - legata all’esplosione demografica e all’urbanizzazione su scala mondiale: un problema con il quale si deve confrontare ogni governo. Grazie al professor Aldo Loris Rossi, a Salerno discutiamo della possibilità di trasformare l’Italia nella testa di ponte dell’Euromediterraneo, con investimenti infrastrutturali mirati ad arrestare la devastazione ambientale e le tensioni che già rischiano di contrapporre i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Un’esigenza non rinviabile, alla quale rispondiamo rilanciando la proposta federalista degli Stati  d’Europa, cioè il superamento dello strumento ormai inservibile dello Stato nazionale, avvicinando i popoli invece di ripiegare su chiusure identitarie o razziste.  Quando un regime sedicente democratico come quello italiano chiude le porte in faccia alla scienza, non pregiudica soltanto la capacità di dare risposte di governo adeguate, ma mina irrimediabilmente la credibilità delle istituzioni. Se non si pongono con chiarezza all’opinione pubblica i termini delle questioni, informandola sullo stato attuale del dibattito scientifico e mettendola nelle condizioni di farsi un’idea, allora davvero la gente non comprenderà più in che cosa una democrazia (di facciata) sia preferibile a una tecnocrazia autoritaria, e anzi tenderà ad assuefarsi al fatto che quest’ultima recuperi sul terreno della velocità e dell’efficienza quel vano "pluralismo" che rimane nel confronto tra gruppi di potere chiusi e autoreferenziali.



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