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Il federalismo delle clientele

• da Corriere della Sera del 4 gennaio 2010

di Michele Salvati

Mettiamoci nei panni di un politico. Il suo obiettivo non cambia a seconda dei luoghi in cui opera: farsi eleggere o rieleggere. Ma cambiano i modi in cui può essere raggiunto. Là dove l’economia privata e la società civile non producono posti di lavoro e occasioni di reddito in quantità sufficiente, come in molte regioni meridionali, la domanda degli elettori si riversa sul settore pubblico e sono premiati i politici che tali «posti» e occasioni creano, o danno l’impressione di creare. Anche posti improduttivi — puri stipendi— e anche occasioni finte: in questo ha ragione il ministro Roberto Maroni («Il Sud chieda lavoro», Corriere del 2 gennaio), come mostra l’articolo di Sergio Rizzo di ieri («Ma in Campania la Finanziaria è "creativa"»). Le cose stanno diversamente quando i posti e le occasioni li creano l’economia privata e la società civile: qui gli elettori staranno un po’ più attenti alla qualità dei servizi erogati dal settore pubblico, nazionale e locale (non abbastanza, purtroppo, perché anche nel Nord essi sono spesso distratti da richiami ideologici che coll’efficienza amministrativa poco hanno a che fare).
Queste cose si sanno da tempo. Il problema che non si riesce a risolvere è come bloccare la risposta impropria dei politici alla domanda impropria degli elettori. Se si riuscisse a bloccarla, se si riuscisse a costringere i politici a far bene e soltanto il loro mestiere di amministratori, a fornire servizi nazionali e locali almeno con la stessa efficienza del Nord — che poi non è molta— a poco a poco gli elettori si convincerebbero che non ci sono finti posti, finte pensioni, finte indennità da ottenere. Insieme con una repressione severa della criminalità e dell’illegalità, l’eliminazione della risposta impropria dei politici è una pre-condizione necessaria a qualsiasi strategia di sviluppo si voglia tentare nel Mezzogiorno.

Già, ma come fare? Come spezzare il circolo vizioso tra domanda sociale e offerta politica improprie? L’ultima speranza forse risiede in una versione severa del nostro regionalismo e in forti meccanismi di controllo sulla qualità della spesa pubblica e sull’efficienza amministrativa, con sanzioni effettive e assenza di «salvataggi» per le amministrazioni che sgarrano. Il regionalismo del Titolo V della Costituzione è venuto per restare e il suo principio di fondo è quello sturziano, l’autonomia. Ma autonomia vuol dire responsabilità: sei libero, sei autonomo, ma poi sei valutato. Se la valutazione degli elettori è insufficiente, occorrono meccanismi di controllo più potenti di quelli che operano ora. Se mai faremo le riforme costituzionali di cui tanto si chiacchiera, perché non dare a questi meccanismi un forte rilievo costituzionale e collegarli strettamente all’attività della Camera (o Senato) delle autonomie?



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