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L'illusione che i candidati salvino il Pd

• da Il Riformista del 5 gennaio 2010

di Antonio Polito

Se anche l’Unità spara sul Pd, reo di perdere tempo a litigare nella scelta dei candidati governatori alle regionali, vuol dire che le cose per la segreteria Bersani cominciano proprio male. E non solo perché dagli amici mi guardi Iddio. Ma perché vuol dire che sta penetrando anche nel corpo di quel partito un’idea falsa e sbagliata su come si possono vincere - o anche solo non perdere - le prossime elezioni di marzo.

Alle regionali non sono i candidati a fare la differenza. La differenza la fa la politica. Sia in termini di alleanze, sia ancor di più in termini di proposta politica generale, di fascino elettorale. Le regionali, innanzitutto per il sistema elettorale che è molto diverso da quello dei comuni perché non c’è il ballottaggio e non bisogna raggiungere la maggioranza assoluta dei voti, assomigliano molto di più alle politiche ed esprimomo un voto politico.
Se così non fosse, non si spiegherebbe perché cinque anni fa il centrosinistra vinse in undici regioni su tredici. Perché aveva i migliori candidati? Ne dubito. Marrazzo, Vendola e Loiero, tanto per fare tre nomi, non erano così più forti dei loro avversari, che in due casi su tre - Lazio e Puglia - erano anche potenti governatori uscenti. Il centrosinistra stravinse perché le elezioni capitarono nel punto più basso del governo Berlusconi e nel punto più alto della credibilità del centrosinistra come alternativa per il governo del paese. Fu un voto politico, non amministrativo. E per questo è oggi così difficile ripeterlo.

Se i candidati fossero tutto, se fosse giusto replicare il leaderismo populista del centrodestra anche a sinistra, allora avrebbe avuto ragione Veltroni a scommettere la sua segreteria sulla vittoria di Soru contro il Carneade Cappellacci in Sardegna.
 

La fissazione di puntare su candidati di nome, o di faccia, ha portato del resto a esiti tristi e perfino drammatici nell’epilogo della breve vicenda politica di Piero Marrazzo. D’altro canto, se il problema del Pd fosse solo quello di non avere ancora in campo tutti i suoi candidati, allora non si capisce perché il centrodestra non dovrebbe essere almeno altrettanto nei guai. Certo, in Lazio e in Veneto ha scelto due nomi forti, la Polverini e Zaia (e senza primarie, l’ingenuo rifugio delle anime belle di sinistra); ma in entrambi i casi a prezzo di uno scontro durissimo, con la Polverini sotto il fuoco di Feltri e Zaia sotto quello della classe dirigente veneta di Forza Italia, che ora teme il sorpasso leghista. Scontro non certo inferiore per asprezza a quello che sta terremotando il Pd in Puglia. E non è nemmeno che il centrodestra abbia già tutti i suoi candidati in campo. Non si conosce il nome di quello pugliese, dove anzi le difficoltà sono evidenti; non si conosce il nome del candidato in Campania. Insomma, tutto il mondo è paese. Eppure il centrodestra è molto più ottimista sul risultato finale di quanto non lo sia il centrosinistra. Se si votasse davvero sui candidati, e non sui partiti, non si capirebbe perché tutti i sondaggi dicono che in almeno sei regioni la scelta dell’Udc sarà decisiva. Non di candidati, dunque, si tratta.

Di che si tratta, allora? Si tratta di politica. Si tratta cioè di capire se il centrosinistra arriva a queste consultazioni con la credibilità di uno schieramento che esprime un’alternativa, considerato cioè capace, anche in un lontano futuro, di governare. Prova molto ardua, dunque, perché il berlusconismo non dà segni di cedimento nemmeno dopo l’annus horribilis di Berlusconi, e se si esclude la speranza che sia Feltri ad abbatterlo dall’interno spaccando il Pdl in due, si vedono davvero poche possibilità di invertire il trend politico generale da qui a marzo.
Una di queste poche possibilità sarebbe quella che il Pd tornasse al centro della scena tra gli elettori, non sui giornali. Quello che infatti ancora non gli riesce anche dopo il cambio di segretario è la capacità - come dicono i politologi - di fare l’agenda politica del paese; cioè di far parlare gli italiani delle sue proposte. In Europa si svolgerà un’altra campagna elettorale nello stesso periodo di inizio d’anno: in Gran Breagna, dove l’opposizione spera, con ragionevoli aspettative, di tornare al governo dopo 13 anni di sconfitte. Cosà farà Cameron, il giovane leader dei Tories, in questi mesi? Lancerà tre o quattro proposte di policy; non di politics, cioè di politica generale, ma di politiche, di leggi e riforme in settori di cruciale interesse popolare. Perché il Pd non fa lo stesso?

Tra tutte le riforme sulle quali il Pdl lo invita al confronto, ce ne sono infatti due del tutto trascurate finora dall’opposizione: quella degli ammortizzatori sociali e quella del fisco, entrambe annunciate per il 2010 dal governo. Si tratta del campo sociale, che dovrebbe essere il piatto forte della sinistra. Nel caso degli ammottizzatori sociali, poi, si tratta della riforma più popolare che si possa immaginare oggi nell’elettorato di sinistra, e anche di quella più densa di conseguenze sul futuro dell’occupazione, che è il tema di maggior allarme sociale nel Paese, come ha testimoniato anche il discorso di Capodanno di Napolitano. Il Pd in questa materia è ferrato, ha le competenze. In Parlamento siede tra i suoi banchi Pietro Ichino, unanimemente riconosciuto come uno degli esperti più capaci e innovativi in materia di welfare. Numerose proposte di riforma circolano da tempo in quell’area. Le possibilità di un dialogo proficuo in parlamento ci sono. Perché allora il Pd non fa di questo tema, insieme con quello delle tasse e di chi le paga, il cuore di una campagna d’inverno, presentando formalmente la sua proposta, impacchettandola bene per venderla con efficacia all’opinione pubblica (il che vuol dire cifre e numeri precisi), rendendola compatibile con le finanze pubbliche (cioè indicando dove tagliare quello che si vuole mettere sulla protezione dei lavoratori che perdono il posto)?

Non è che il Pd abbia molte altre armi, da qui a marzo. Né è questione di scegliere tra una presunta nuova politica all’americana e una vecchia politica alla Cominform - come gli suggerisce di fare Giuliano Ferrara - perché tanto la nuova politica ha già fatto la sua prova nel loft. La politica è una sola: conquistare il consenso degli elettori; se non si dispone di un Berlusconi con proposte serie, efficaci, popolari e fattibili. Se il Pd fosse in grado di farlo su fisco e disoccupati, allora in Puglia potrebbe candidare perfino me (scherzo).



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