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Nella situation room del soldato Obama

• da la Repubblica del 5 gennaio 2010

di Vittorio Zucconi

La guerra di Obama cominciò alla vigilia del gennaio 2008, quando il consigliere per l´antiterrorismo John Brennan lo raggiunse dopo una corsa a piedi nella notte in una Washington chiusa e senza taxi.
In quella occasione Brennan gli svelò il piano di un gruppo di terroristi somali per far saltare in aria la tribuna della sfilata inaugurale. Con lui, la moglie e le loro due bambine dentro.
Non era neppure Presidente, Barack Hussein Obama, non avendo ancora formalmente giurato fedeltà alla Costituzione sulla Bibbia di Lincoln e già l´ombra che aveva inghiottito e consumato la presidenza del suo predecessore Bush dall´11 settembre 2001 e che si sarebbe allungata giorno dopo giorno fino all´incubo sfiorato del Natale 2009 sopra Detroit lo aveva raggiunto, per reclamare il proprio posto a capotavola. E per garantire che anche lui avrebbe dovuto combattere una guerra che non avrebbe voluto combattere.
La storia dolorosa della "educazione sentimentale" del giovane Obama, della sua recalcitrante, inevitabile conversione alla necessità, ma non alla ideologia, della guerra è stata ricostruita, giorno per giorno, dal magazine del New York Times. Racconta una storia insieme banale e straordinaria, deja vu molte volte nella storia americana: la metamorfosi di uomini che entrano alla Casa Bianca persuasi di cambiare il mondo e poi scoprono che è il mondo a cambiare loro. Uomini di buona volontà sorpresi, come lui, dalla notizia che 278 passeggeri erano arrivati a un passo dalla loro morte sopra Detroit, portata da un attendente mentre cantava con la famiglie le nenie natalizie alla Hawaii.
Ma se il dramma politico di Barack Hussein Obama è lo stesso di coloro che lo avevano preceduto in quell´ufficio ovale, dell´umile Truman al quale furono consegnate le chiavi dell´apocalisse nucleare, di Johnson che bruciò i propri sogni di riforme sociali nel falò del Vietnam fino allo stesso «soldato Bush» che nel proprio secondo giro al potere fu molto diverso dal primo, il dramma dell´uomo Obama ha una valenza ancora più lancinante. Nella stanza, spesso un ufficio senza finestre e blindato nei sotterranei nella Casa Bianca, dove la sua amara «educazione» è avvenuta, gli uomini che gli hanno dovuto raccontare il mondo come è, e non come lo avrebbe voluto, ricordano la sua fatica di analizzare le cose dall´avvocato costituzionalista che è, mai impulsivo. E le sue collere fredde: «Mettiamoci d´accordo. Anche se non penso che sia sempre colpa della nostra intelligence, se scopro che la nostra intelligence non ha fatto il suo dovere, la colpa sarà vostra».
Il suo è il percorso doloroso dell´accettazione dello stato del mondo, della virulenza di una minaccia tanto minuscola nelle dimensioni globali quanto micidiale, dove le reazioni possono essere peggiori delle azioni. «Non dobbiamo alimentare le fiamme che ci vogliono consumare» raccomanda a Brennan, quello che gli porta le cattive notizie. Il suo nemico è l´eccesso di razionalità, che può passare per indifferenza o debolezza. «Anche noi democratici sappiamo batterci» ammonisce la sua squadra anti-terrore. Ma poi il giurista, l´avvocato, rialza la voce: «Se scatto non faccio forse quello che gli attentatori vogliono, far vedere che hanno fatto saltare i nervi all´America?».
Si indignano gli uomini del Presidente, dall´amico e ministro della Giustizia Eric Holder al consigliere Brennan, dalla segretaria di stato Clinton al suo Machiavelli politico, Rahm Emanuel, alla caratterizzazione di Obama come un "Bush nero". Le sue intenzioni erano, e sono, certamente diverse, e buona parte della retorica più incendiaria cara alla sottocultura neo-con che aveva inquinato la presidenza di "Dubya", slogan come "islamofascisti" o "guerra al terrore", che Obama considera astrattamente assurda, sono tramontati. «Signor presidente, l´America sta perdendo la guerra delle immagini e del messaggio», lo aveva avvertito Michael Leiter, direttore dell´Antiterrosismo con Bush al passaggio dei poteri «lei deve cambiare il messaggio e la percezione di questa guerra». «Lo faremo», lo rassicurò Obama. Ma le azioni militari, i bombardamenti, le incursioni, le azioni parlano più forte delle intenzioni.
La scoperta del complotto dell´ Inauguration fu, dice il suo massimo consigliere politico, David Axelrod, uno «shock», una «sobering experience», come il risveglio ghiacciato duro dopo un sogno tiepido. Obama discusse per ore che cosa sarebbe stato meglio fare: andare in quella tribuna, rischiare la vita il giorno stesso dell´insediamento, fare il gesto eroico ma dando al mondo le immagini di un presidente ferito, di un pubblico nel panico, del caos nel giorno più solenne della liturgia democratica o annullare tutto? La cerimonia ebbe luogo, la minaccia risultò falsa. Ma rimase fedele alla sua decisione di cambiare il tono che l´amministrazione americana avrebbe adottato in pubblico, di abbandonare quella virulenza verbale e messianica da «guerra di civiltà» che aveva per lui il torto di nobilitare le trame dei fanatici e di coinvolgere l´intero universo mussulmano. Se si chiede a Obama quale sia stato il momento più esemplificativo di questa nuova linea, lui indica il discorso del Cairo, la mano tesa all´Islam, nel rispetto reciproco. «Le parole contano» avrebbe poi detto alla rete televisiva Al Arabya.
Ma le parole non hanno vinto, non ancora. Tre giorni dopo il dramma del volo Delta, Obama ha usato la parole «guerra», siamo in «guerra» e hanno fatto esultare i suoi nemici che hanno letto in quella parola la vendetta del loro bistrattato Bush. Lo stesso "Dubya" nell´unico colloquio fra i due al momento del passaggio del potere, lo aveva avvertito e messo in guardia dalle illusioni, ricordandogli la verità che già Kennedy aveva enunciato, che il mondo è un luogo molto diverso quando è guardato attraverso i vetri (blindati) dello Studio Ovale. La "bushizzazione" di Obama è dunque avvenuta, manifestata nell´inasprimento progressivo del linguaggio? La "educazione sentimentale" del giovane Barack è completa? Non proprio. Obama è un presidente che deve fare la guerra a chi lo attacca, ma non è, e non vuole considerarsi, un "presidente di guerra". «Non ha l´ethos e il mito del guerriero che ossessionavano Bush» dice sempre Brennan, «ha la cultura del costituzionalista con il terrore di stravolgere la Costituzione». Ma la guerra picchia ai vetri dello Studio Ovale, con la eterna tentazione della vendetta.



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