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Valeva la pena di conoscerli. Antonello Trombadori

28 gennaio 2010

di Giuseppe Loteta

 1° gennaio 1982. Ricevo un singolare cartoncino d'auguri a quattro pagine. Nella prima ci sono la riproduzione di un quadro che mostra Giuseppe Garibaldi sul letto di morte, circondato dai familiari in lacrime, e le disposizioni dettagliate del generale per la sua cremazione, contenute in una lettera. Nella seconda c'è un brano tratto dalle "Memorie autobiografiche" di Garibaldi, del 1872. Nella terza, una "Glossa" del brano precedente, siglata a. t., e la riproduzione di un quadro o disegno che raffigura la visita di Garibaldi ad Alessandro Manzoni. Nella quarta, a tutta pagina, un disegno allegorico che rappresenta il salvataggio di una fanciulla, chiaramente l'Italia, che sta annegando nei gorghi di un fiume. Il salvatore, che sta per raggiungerla a nuoto, è il generale, mentre su un ponte un gruppo di persone guarda la scena, senza far niente. Sui bordi del disegno c'è scritto: "Tanti cari auguri, caro Loteta (Giuseppe come Garibaldi), e speriamo di farcela ancora una volta! Antonello Trombadori".

 

 Pretesto del cartoncino è il centenario della morte di Garibaldi, scomparso nel 1882, ma leggendo il brano garibaldino e la glossa trombadoriana tutto diventa più chiaro. Il generale se la prende con i mazziniani. Li chiama "dottori", li accusa di astrattismo, di fuga in avanti, perchè sostenevano che nel 1860 si sarebbe dovuta proclamare la repubblica "da Palermo a Napoli". Non è vero, ribatte Garibaldi, non ce n'erano le condizioni. E Trombadori attualizza il brano. "Più o meno negli stessi termini", scrive, "avrebbe potuto rispondere Palmiro Togliatti ai dottori che osteggiarono (e osteggiano in sede storico-politica) la svolta di Salerno del 1944, grazie alla quale furono tolti gli impedimenti essenziali all'unità nazionale dell'Italia nella lotta contro i tedeschi e i fascisti". E ancora: la mentalità dei mazziniani di allora è tipica ancora oggi della "sinistra italiana, trasferita dal radicalismo risorgimentale nel massimalismo della tradizione socialista e anarco-sindacalista, nonchè nell'estremismo comunista". I frutti di questa mentalità sono "fuga in avanti", "rivoluzionarismo parolaio", "soggettivismo velleitario", "distacco dalla realtà e dalle masse".

 

 In altre parole, Trombadori difende a spada tratta Togliatti e la linea politica attuata in Italia dal leader del Pci. Lo farà sempre, anche quando, in tempi non sospetti, molto prima della caduta del muro di Berlino e della fine dell'Unione Sovietica, sbatterà la porta, con gran coraggio e onestà intellettuale, sulle sue antiche e radicate convinzioni politiche. La sua storia, prima di questa conversione, è la storia di un comunista integrale. Lui stesso affermava che se, ai tempi della militanza comunista, gli avessero chiesto di fare una graduatoria tra il partito e gli affetti familiari, avrebbe messo al primo posto il partito. E' ancora un ragazzo quando sconta due anni di confino, tra il 1941 e il 1943, per la sua attività antifascista. E' già comunista e, sempre nel 1943, partecipa all'eroica e disperata battaglia per la difesa di Roma. Fino al febbraio del 1944 guida i Gap (gruppi di azione patriottica) romani nella resistenza ai tedeschi. E' arrestato dalle SS ed evita per un soffio di finire nelle Fosse ardeatine. Viene decorato di medaglia d'argento al valor militare.

 

 Dopo, è vita politica a tutto spiano. Direttore del Contemporaneo, inviato de l'Unità nel Vietnam del nord, in India, nel Medio oriente, negli Stati Uniti, deputato per quattro legislature. Ma fa anche altro. E' uno stimato critico d'arte. Ed è anche poeta. Scrive bei sonetti in romanesco che risentono della sua ammirazione per Gioacchino Belli. Li pubblica, man mano che li compone, su Il Messaggero e poi, quando sono più di trecento, in un volume. Satira, ricordi, tenerezza. E, naturalmente, politica. E, naturalmente, Togliatti: "Certo a Pparmiro jjo vvorzuto bene/ mica l'ho arrispettato solamente/ che si non c'era lui m'anzai che sscène/ ciàveva li piroli nell'ammente...". Cioè, il suo cervello suonava come un violino.

 

 D'inverno, spesso, arrivava nel transatlantico di Montecitorio coperto da un gran cappotto con bavero di pelliccia e in testa un colbacco. Sembrava sbucare dal circolo polare. E, dato il suo carattere focoso, era subito polemica con qualcuno. Non mancavano gli argomenti e gli interlocutori. Le femministe, di tutti i partiti, lo detestavano per via di una serie di sonetti fortemente sfottenti che avevano animato per qualche giorno la cronaca politica. E i vecchi compagni del Pci, tranne alcuni di quelli che lo conoscevano e lo stimavano fin dai tempi della Resistenza, non gli perdonavano il suo allontanamento fortemente critico dal campo comunista e post-comunista. Una delle maggiori accuse era quella di essersi avvicinato al partito socialista della gestione craxiana. Forse non era così semplice, ma non c'è dubbio che in Trombadori non c'era traccia dell'antisocialismo tipico della classe dirigente comunista berlingueriana e che Craxi esercitava su lui un certo fascino.

 

 Quando si accendeva una discussione nel transatlantico della Camera, Trombadori sosteneva le sue posizioni con voce tonante, creando intorno a sè un capannello sempre più fitto di spettatori. Eretica, per i comunisti ortodossi, la sua tesi che la vera rivoluzione russa fosse stata quella del febbraio del 1917, di Kerenskj, che abbattè lo zarismo e introdusse la democrazia nel paese, e non quella dell'ottobre dello stesso anno, quella di Lenin e dei soviet, più assimilabile a un colpo di stato che a una rivoluzione. E altrettanto eretica la sua piena rivalutazione della personalità e della storia politica di Randolfo Pacciardi, per lungo tempo bestia nera dei comunisti, operata durante la presentazione di un libro-intervista del vecchio leader repubblicano.

 

 Un altro personaggio della più recente storia italiana verso cui Trombadori nutriva affetto e rispetto era Ferruccio Parri, capo e simbolo della Resistenza. Quando Parri morì, nel 1981, a più di novant'anni, Antonello andò a dargli l'ultimo saluto all'ospedale militare romano del Celio. E ne venne fuori un sonetto.  Val la pena di leggerlo per intero. E' intitolato "L'ermo".

 

Co Franco, co Maurizzio e co Morelli

Sò ito ar Celio a salutà Ferruccio.

Stava solo, stecchito sur lettuccio

De la cappella, dietro li cancelli.

 

Come 'na spece d'ermo o de cappuccio,

de suo ce sò rimasti li capelli.

Er resto è 'no straccetto de scoruccio

Ch'avemo riverito da fratelli.

 

Ar ritornà se semo conzurtati

Si come pò fenì 'n pezzo de Storia

 E se semo guardati sconzolati.

 

Poi, ripenzanno a quella bianca chioma,

Avemo visto l'ermo de la gloria

Arzasse in cielo e luccicà su Roma.

 

25) Segue



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