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Torna J. Rodolfo Wilcock (*)

12 maggio 2010

di Angiolo Bandinelli

Trovo fastidiose e abbastanza ipocrite le critiche alla falsità e vanità dei premi letterari. Mi paiono un po’ abusate, e quasi sempre scontate. Da quando ho cominciato ad occuparmi di lettere e letteratura, cioè piuttosto presto, mi sono imbattuto in caterve di tali lamentele: leggevo quegli scritti di austera deplorazione, di critica esacerbata, di condanna, e restavo stupito, ma soprattutto amareggiato, nel mio fiducioso cuore giovanile. Perché non avrei dovuto anch’io aspirare ad un premio? Era dunque lecito che difendessi l’istituzione, almeno fino al momento che io stesso potessi profittarne. Momento che non venne mai, e forse per questo anch’io sono oggi propenso a condividere quelle critiche, e ad aggiungerne di mie, non meno acide. Perciò, eccomi a sfogliare, con sentimenti misti di bassa compiacenza e di amara rabbia, questo librino. Lo leggo però, innanzitutto, perché porta la firma di J. Rodolfo Wilcock, e Wilcock può (deve) ammirarlo, stimarlo e rispettarlo, non solo chi lo ha conosciuto.

 

Ebbi questa fortuna, quando ero giovane e gli scrittori di nome li adocchiavo da lontano perché più non mi consentiva la timidezza. Wilcock era possibile incontrarlo - le altre sue frequentazioni essendomi ignote - nel salone de “Il Mondo” di Mario Pannunzio. Mi capitava di andarci, per portare il mio articoletto o chiamatovi dall’una o l’altra delle potenti vestali addette al culto del direttore - la segretaria Bice, Nina Ruffini, Giulia Massari - perché accettassi di recensire un libro raccomandato dall’editore amico. E Wilcock era lì, abbandonato in uno dei vasti sofà bianchi che empivano l’invaso. Ancor meno che semplicemente o spartanamente, vestiva poveramente, o forse da letterato beat o hippy extracomunitario, cosa che in certo modo era. Argentino di nascita, nei primi anni Cinquanta era approdato in Italia e a Roma, assieme agli amici Borges, Bioy Casares e Victoria Ocampo, per stabilirvisi poi nel 1957. Morì nel 1978, in un romitaggio vicino a Viterbo. La spinta al volontario esilio dalla patria e dalla lingua materna fu probabilmente il grande amore per i nostri classici, a partire da Dante da lui definito “il poeta massimo della letteratura europea”.

 

Ricordo benissimo i suoi stivaletti da private, il soldato semplice americano, che ancora si comperavano a Porta Portese, usati ma sempre, a loro modo, bellissimi. Io allora indossavo un tetro gilet sotto la giacca di flanella grigia e la cravatta intonata. Solo passata una certa età avrei cominciato a trascurarmi, o forse a curarmi meglio infilando la testa in un pullover sopra a jeans scoloriti, come Wilcock appunto. E in questo spirito, avendo anche rinunciato, finalmente, alle ambizioni di una gioventù avida di premi, oggi posso gustare gli scritti di Wilcock qui raccolti. Il loro curatore, Edoardo Camurri, nella efficace postfazione li definisce intrisi di un “talento di sprezzatura, la virtù inventata da Baldassar Castiglione e celebrata da Cristina Campo”. All’epoca, non avrei mai detto che Wilcock era sprezzante. Mi pareva persona semplice e schiva, intento a lavorare il suo limpido italiano, noncurante dell’aura che lo precedeva e circondava - e che io gli invidiavo - di amico di Borges e di altri miti lontani. Ma ha ragione Camurri, Wilcock era di quella pasta di sprezzatori che avreste potuto vedere, anche tutti assieme, indolenti e stravaccati su quei sofà: penso ovviamente a Flaiano ma anche ad Arbasino, più qualche appartata figurina, Comisso, Tobino, Brancati, Vigolo, Attilio Riccio, Chiaromonte, un po’ occasionali ma ugualmente essenziali per dare spessore a quel clima letterario: l’unico, nel ferrigno clangore degli impegni ideologici del tempo, dove spirassero brezze liberali.

 

Il volumetto può vantarsi di essere il miglior concentrato delle variegate critiche ai premi letterari dell’ultimo mezzo secolo. La ritrattistica è spietata, il killer tira nel mazzo come in un film di Tarantino. Sempre ineccepibile, sempre altamente godibile. Perché, innanzitutto, questo è un tiro a segno i cui pupazzi conosciamo benissimo. E’ infatti un testo, un racconto tutto italiano, italiani sono i suoi protagonisti, i suoi scenari, soprattutto la sua lingua, intessuta su un finissimo ordito memore dell’implacabile scetticismo di Wittgenstein che Wilcock maneggia con tranquilla eleganza. Detta in breve (lo spazio mi è tiranno): il bersaglio di queste deliziose pagine è innanzitutto il letterato italiano, arrivista, politicizzato soprattutto perché lavora per padroni che hanno “il controllo della televisione, del cinematografo e del teatro”,  cosicché “il giorno che non si proclama suddito rischia di non guadagnare niente”. Cose non solo di ieri, probabilmente. Ma in queste pagine suona anche la sferza di un giudizio amaro sulla società italiana nel suo complesso, tanto corrotta che ormai non è più “linguisticamente permissibile chiamare corruzione un aspetto così radicato e così organico del costume”. Cose non solo di ieri, sicuramente.

 

J.Rodolfo Wilcock

IL REATO DI SCRIVERE

a cura di Edoardo Camurri

pp. 88, euro 6,00

Bibl. Minima, Adelphi, Milano 2009

 

(*) Da “L’Indice dei libri del mese”, anno XXVII, n.5, maggio 2010



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