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Perché la chiesa dovrebbe ristudiarsi la storia di Matteo Ricci per dialogare con Pechino? Tra il 1620 e il 1630 si accese nell’Europa cattolica una disputa, nota conce la "querelle des rites", di enorme importanza sul piano religioso, culturale e politico. Si trattava di definire, con rigore teologico, il grado di
tolleranza che si poteva concedere alle innovative forme di liturgia che si stavano sviluppando in alcuni paesi dell’estremo oriente, sullo stimolo della predicazione missionaria di singole, spesso eccezionali
personalità , ma anche di ordini religiosi interessati ad affermarsi in quei lontani, affascinanti paesi. Gli episodi fondamentali hanno luogo in India, dove attecchiscono i cosiddetti "riti calabaresi", e in Cina dove, grazie alla formidabile attività di Matteo Ricci, si sviluppano quelli che vennero definiti "riti cinesi": per dimostrare l’esistenza del Dio cristiano, Matteo Ricci pensò di utilizzare alcuni termini confuciani che
definivano i concetti di Cielo e di Dio, e accolse e trasformò i riti dedicati a Confucio e agli antenati come base per la liturgia cattolica. Una ibridazione, un meticciamento del tutto strumentale, non sapremmo se calcolato o spericolato.
Quando la notizia di queste vicende arrivò in Europa, scoppiò la polemica. Partì, ovviamente, da Roma, dilagherà a Parigi, ma soprattutto sarà occasione di uno scontro interno alla chiesa del quale si hanno rari altri esempi, opponendo pesantemente i gesuiti ai francescani, ai domenicani e agli agostiniani. Le
spese maggiori le pagarono i gesuiti, le cui posizioni vennero loro rinfacciate contribuendo al montare del discredito nei confronti della Compagnia e alla sua espulsione da parecchi stati europei. Ciò di cui si discuteva, nientemeno, era il senso dell’identità della chiesa, quella che si manifesta, anzi si fonda, nei riti e nella liturgia. A me pare di poter notare che il complesso dibattito precorse e in qualche modo prefigurò il travaglio che, al di là o approfittando delle oscure cronache sessuali o affaristiche, investe e tormenta la chiesa di oggi.
Torti e violenze reciproche Domina quegli esotici paesaggi e quelle intricate questioni il gesuita anconetano Matteo Ricci, "infiltratosi" nei sofisticati ambienti della corte imperiale cinese con l’intento di
convertirli e, tramite loro, aprire la Cina alla fede cristiana. Non solo per curiosità avvertiamo però che il primo religioso cattolico giunto alle porte della Cina con intenti evangelizzatori fu il francescano umbro Giovanni da Pian del Carmine, inviato nel 1245 - quindici anni prima di Marco Polo -da Papa Innocenzo IV all’imperatore tartaro Guyuk, erede di Gengis Khan, per chiedergli la rinuncia all’espansione verso l’Europa e l’avvio di una sorta di alleanza per contrastare l’Islam. E’ da questa missione (quasi un riflesso del tentativo compiuto dallo stesso san Francesco presso il sultano d’Egitto) che nasce forse l’interesse dei francescani verso il lontano oriente e la conseguente loro rivalità con i gesuiti.
Ad accendere la miccia della "querelle" furono i domenicani, opponendosi fermamente alla strategia di Matteo Ricci. Alla fine - nel 1704, con Clemente XI - il papato condannò gli ambigui riti, ma ripensamenti e tentennamenti si sono susseguiti fin quasi a oggi. La decisione ebbe però l’effetto di avvelenare i rapporti con l’imperatore del Celeste impero, il quale proibì nelle sue terre il culto cristiano, Tra torti e violenze reciproche, si apriva il baratro che ancora oggi impedisce il dialogo tra Pechino e Roma. Mi chiedo se sia del tutto inutile, per capire come stiano le cose, ricostruire una vicenda pretestuosamente ignorata, almeno in Italia, nei suoi termini non solo storici.
C’è poi un aspetto della questione che mi stuzzica, spingendomi ad un perfido esercizio di ironia, Quando Matteo Ricci cerca di penetrare nei palazzi del potere e farsi accettare dalla loro classe dirigente, lo fa esibendo e insegnando i grandi temi e le freschissime scoperte delle scienze europee, allora in piena espansione. Traduce in cinese Euclide e vari trattati scientifici, insegna ad usare orologi, astrolabi, mappamondi, riesce a predire eclissi in modo assai più preciso dei dotti e dei mandarini cinesi, dona all’imperatore un clavicembalo la cui evoluta capacità strumentale meraviglia la corte, presso la quale la musica è apprezzata e coltivata. Insomma, Ricci tenta di fare entrare in quegli ambienti l’eterno - il cristianesimo - aprendosi un varco con il grimaldello del relativismo scientifico e tecnologico. Si può chiedere alle scienze e alle tecnologie di oggi oltretutto guardate con sospetto - di intercedere presso chi di dovere perché favorisca la penetrazione a Pechino (ma non solo) di un cristianesimo forse nemmeno paragonabile, per certezze e autorevolezza, a quello tridentino di Matteo Ricci? Dicono che i due mondi, quello religioso e quello delle (tecno)scienze, dalle nostre parti abbiano da tempo divorziato. Figurarsi in Cina.