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Se la destra non grida al complotto

• da La stampa del 14 maggio 2010

di FABIO MARTINI

 

 

Sembrava una di quelle battute di grana grossa, buttate li per deliziare i propri elettori. E invece nella boutade di tre giorni fa del ministro leghista Calderoli («Non sono mai stato a pranzo con un romano») c’era il preannuncio di un’operazione politica più sofisticata.
La suggestione di una Roma corrotta e corruttrice, prima è stata preparata dal «Giornale» e da «Libero», i due giornali che meglio interpretano (e talora anticipano) gli umori più profondi del presidente del Consiglio. Ma poi, due sere fa, è stato lo stesso Silvio Berlusconi a far trapelare quella frase lapidaria («Se c’è qualcuno che ha sbagliato, paghi») che ribalta lo schema ininterrottamente in vigore da 16 anni: dietro qualsiasi indagine sui politici di centrodestra c’è sempre e comunque un disegno ostile, un complotto, una manovra delle toghe rosse.
La svolta è accompagnata dal lavoro giornalistico e di commento realizzato dal «Giornale»: ieri il quotidiano diretto da Vittorio Feltri ha pubblicato un elenco dettagliatissimo delle «attività» dell’imprenditore Diego Anemone, mentre Giancarlo Perna, una delle firme di punta del giornale, scriveva: «Scajola dovrà pur spiegare la storia della casa e perché Verdini si occupa delle pale a vento quando il Pdl ha bisogno delle sue cure».
Il titolo di apertura della seconda pagina era inequivocabile: «Dalla Capitale al Circeo, tutti facevano la corte al costruttore rampante». Effettivamente una vicenda «romanesca», visto che la stragrande maggioranza dei personaggi coinvolti è romano o vive nella capitale.
Certo, è presto per capire se la svolta «moralizzatrice» sarà duratura. Ma se lo fosse, sarebbe una sorpresa? Non è qualcosa di già visto? «Certo che si è già visto, è lo stesso schema del 1994 - sostiene Bruno Tabacci, a quei tempi parlamentare Dc -. Allora i Tg di Mediaset e i giornali di destra sostennero a
spada tratta Mani Pulite per favorire l’ascesa del «nuovo» Berlusconi, il ricco che non aveva bisogno di rubare. E ora, abilissimo come è nella sua capacità camaleontica e temendo di essere travolto, ci riprova, con una variante: farà la parte del tradito, del tipo: ma come, vi ho fatto parlamentari, ministri, e voi
che mi combinate?».
Dunque c’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nell’approccio berlusconiano. Con una differenza importante rispetto al 1993-’94. Stavolta al governo c’è lui. I boatos che anche ieri si rincorrevano a Montecitorio e a Palazzo Madama facevano paura: oltre alle consuete voci sul coinvolgimento di altri due, tre ministri, ne circolavano altre relative a richieste di arresto in arrivo alla Camera nei confronti di notabili del Pdl. E anche se è difficile calcolare la potenza d’urto dell’ondata giudiziaria in arrivo,
tra i «subpartiti» del Pdl, i rischi maggiori sembra correrli quello romano e postdemocristiano di Gianni Letta, rispetto a quello nordista di Giulio Tremonti. Per ora l’inchiesta sul G8 ha costretto alle dimissioni Claudio Scajola, un politico di «territorio», di ascendenza democristiana, vicino a Gianni e distante da Giulio Tremonti. Tanto è vero che uno che democristiano lo è ancora come il ministro Gianfranco Rotondi non si arrende: «Su Scajola bisogna aspettare, potrebbe uscirne a testa alta e magari scopriremo che i ladri si sono rubati tra di loro...». Ma le voci più ricorrenti, tutte da dimostrare, sussurrano di coinvolgimenti di ministri ex An (dell’ala anti-Fini), di personaggi fuori cordata come Denis Verdini, mentre risulterebbe indenne tutta l’ala «nordista».
Certo, un’inchiesta della magistratura allo stato iniziale impone riserbo ed è quello che si è pubblicamente imposto Gianfranco Fini. Che in chiacchierate strettamente private ritiene che per lui la cosa migliore, in questa fase, sia «di stare fermo». E di attendere sviluppi giudiziari che potrebbero essere destabilizzanti, sussulti che lo staff del presidente della Camera colloca in estate, tra la fine di giugno e il mese di settembre. E Giulio Tremonti?
Da due anni ostile a qualsiasi concessione alla «finanza allegra», lui stesso da tempo spiega il suo inossidabile riserbo sulle questioni politiche con queste parole: «Mi sono imposto un profilo basso».
Certo, per non irritare il presidente del Consiglio sempre diffidente col protagonismo delle personalità forti, «ma anche perché - per dirla con un personaggio di prima fila del Pdl - a lui non resta che aspettare, a questo punto in prima fila come erede al trono c’è proprio lui».


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