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E’ stata una svolta antropologica a trasformare Gianfranco Fini nel «neofascista che ha applicato con successo la strategia rautiana dello sfondamento a sinistra"».
Emerge un mutante, insomma, nel ritratto che ne dà Enzo Palmesano, già giornalista del Secolo d’Italia e dirigente del Msi, poi di Alleanza Nazionale. Ha appena dato alle stampe, per Aliberti editore, Gianfranco Fini. Sfida a Berlusconi, storia degli strappi difficili con la storia del neofascismo italiano, attraverso metamorfosi dolorose ma ininterrotte, narrate da chi è stato insieme testimone e protagonista dello slancio verso un «fascismo immaginario», che per gradi si sta rivelando per quel che realmente è: un’utopia senza una meta dichiarata.
Sotto sotto, interferisce un po’ l’autobiografia dell’autore. Ma è il substrato personale necessario a mostrare, frai temi centrali dell’azione politica finiana, le pietre miliari di un percorso, iniziato con la condanna dell’antisemitismo e delle leggi razziali, al congresso di Fiuggi del 1995, quando l’Msi diviene An.
Ebbene, dalla ricostruzione pare che Fini non avesse nemmeno compreso l’importanza di quel passaggio storico antirazzista. L’aveva bensì approvato, ma solo fino a un certo punto. Era stata necessaria, anzi fondamentale, la cesura con Almirante, a venti anni dalla scomparsa del suo mentore politico, perché Fini rompesse definitivamente con il passato.
Accadrà lo stesso a proposito dei pretesi diritti degli omosessuali. Servirà un lungo travaglio all’ex capo di An, per giungere addirittura a farsi paladino del matrimonio gay. In passato, aveva dichiarato
tutt’altro, ma incontrando le associazioni del mondo omosessuale, Arcigay, Circolo Mieli, Arcilesbica,
Gay Project e Gaylib, dichiara: «Quelle omosessuali sono tendenze affettive che vanno protette». Ormai, in questa visione, ogni tipo di legame, eccetto i diritti civili delle persone, ha diritto di essere equiparato protetto e aiutato come la famiglia vera che è origine dell’umanità e delle società .
A Palmesano, l’itinerario piace, anche se lo giudica ancora un po’ troppo lento. Il Secolo d’Italia, recensendolo, lo condivide e saluta la nuova età della "contraddizione". In effetti c’è tutto il patri-monio della destra politica italiana, in quell’ammissione: la ricerca della sintesi fra gli opposti, l’hegelismo a cui non si sa rinunciare per tenere insieme le diverse anime del fascismo, il socialismo rivoluzionario che alla fine prevale, proprio come a Salò. Infine, il crepuscolo degli dèi. In sottofondo, colonna sonora di Richard Wagner.
A forza di cavalcare la tigre del relativismo, vi si approda. Basta prendere confidenza, lanciarsi al galoppo a briglia sciolta, come la mosca cocchiera. Si crede di sapere dove si sta andando. Intanto il relativismo si fa aggressivo, brucia le tappe dell’eutanasia, dell’aborto, della fecondazione artificiale. Secondo il nuovo Fini, la legge sul testamento biologico preparata dal Pdl è «una legge che impone un precetto. E’ più da Stato etico che da Stato laico». Ora sostiene che le leggi non «devono essere orientate da precetti di tipo religioso», confondendo, come Marco Pannella,la legge naturale col precetto religioso. A proposito del caso Englaro ha detto di «non avere certezze né religiose né scientifiche, ma solo dubbi uno su tutti: qual è e dov’è il confine tra un essere vivente e un vegetale?». Ma il 31 maggio 1999, sul Corriere della. Sera, scriveva a proposito della legge sulla fecondazione assistita: «Chi ha votato a favore del testo non lo ha fatto per ragioni confessionali». Si leggeva inoltre: «Non è un dogma di fede, bensì una constatazione scientifica che la vita umana, unica, indivisibile e irripetibile, esiste a partire dal concepimento». Poi ha cambiato idea, prima di esprimersi al referendum sulla legge 40.
L’ultimo superamento è quello relativo all’immigrazione. Siamo in tema di trasbordi, anche ideologici, e Fini si batte per «tutelare il diritto d’asilo» durante i respingimenti. Evidentemente non ha letto che, perfino per l’ambasciatore libico in Italia, Hafed Gaddur «la richiesta d’asilo è diventata una scusa. Perché un uomo che ha diritto allo status di rifugiato dovrebbe imbarcarsi su un gommone e rischiare la vita in mare se può presentarsi all’ambasciata italiana a Tripoli e chiedere asilo?».
E Fini, da Smeagol diventa Gollum. Lo ha capito anche Eugenio Scalfati che, commentando il suo intervento all’ultimo congresso del Pdl («Meno male che Fini c’è»), lo ha chiamato « "compagno" Fini».