Ora è la volta di Renato Brunetta. Il ministro della Pubblica amministrazione pretende una cifra che in tutti questi anni è rimasta segreta come una formula esoterica. Con una direttiva dei giorni scorsi ha intimato che entro il 15 giugno l’esatto numero delle auto blu sia disponibile sulla sua scrivania.
Intende, insomma, mettere in fila una per una, amministrazione per amministrazione, le vetture di rappresentanza, quelle che come pochi altri simboli danno, almeno qui in Italia, la misura del potere. Ma anche delle prepotenze: non è, infatti, raro che l’auto blu viaggi in deroga al codice della strada. E degli sprechi. Perché se si sta alle stime approssimative, l’Italia è un paese di capi.
Quello dì Brunetta non è, dunque, un mero esercizio contabile: vuole capire se ci sono margini per tagliare spese superflue. Tentativo non nuovo. Prima di lui ci si sono cimentati in tanti. A partire dal 1991. Ma senza successo. Perché è sempre venuto meno il presupposto: il numero di quante siano.
Il calcolo delle auto blu è una di quelle riforme impossibili, come il taglio delle province o degli enti inutili. O come la sostituzione della carta d’identità cartacea con quella elettronica. Obiettivi in alcuni casi perseguiti da mezzo secolo e oltre, che danno il senso, più di altre sfide, di una pubblica amministrazione che non riesce a rinnovarsi.
La prima ipotesi di taglio delle auto blu risale al 1991: la legge 421 aveva imposto la dismissione per poter affidare il servizio a società private. Il Dpcm del 13 luglio 1994, invece, aveva previsto una riduzione di un terzo del parco macchine delle amministrazioni dello Stato. E la Finanziaria 2005 aveva fissato una lunga serie di vincoli di spesa. Tutto, immancabilmente, rimasto lettera morta.
«Gli esiti negativi - spiega Elio Borgonovi, ordinario di economia delle amministrazioni pubbliche alla Bocconi - dipendono spesso dal fatto che manca una cultura della gestione del cambiamento: si pensa che, fatta la riforma per legge, le persone si adeguino in automatico. Invece serve un’azione costante nel tempo che accompagni questi processi per portarli a buon fine».
Uno degli strumenti chiave di questa fase di gestione sarebbe stato un censimento delle vetture, tentato a più riprese ma portato a termine sempre con esiti incerti. Come nel 2005, quando la Ragioneria generale dello Stato chiese ai ministeri di denunciare la consistenza del proprio parco auto. Con scarsi
risultati, perché molti, per confondere le acque, inclusero nell’elenco anche le vetture operative. Alla fine si arrivò a quota 40.367 macchine. Oggi, a cinque anni di distanza, quel conto non e stato ancora aggiornato. E nessuno, né all’Economia né alla Funzione pubblica, ha un’idea precisa di quante siano le auto blu.
Ma l’emblema delle riforme impossibili è l’abolizione delle province. Il dibattito comincia nella notte dei tempi della Repubblica, durante la Costituente. Già in quella sede erano stati molti i dubbi sulla loro reale utilità . Una seconda ondata di scetticismo è piovuta negli anni Settanta, all’indomani della partenza delle Regioni. Tentativo fallito anche in quell’occasione. «In quegli anni - ricorda Luciano Vandelli, ordinario di diritto amministrativo a Bologna - Massimo Severo Giannini, che poi sarebbe diventato ministro della Funzione pubblica, già diceva che le province erano nate in maniera artificiosa, ma ormai si erano radicate nella realtà e le polemiche non avrebbero condotto a nulla».
La storia gli ha dato ragione. Perché da quel momento il tema si è ciclicamente riaffacciato, ma sempre senza esiti. La Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nel 1997 arrivò a un passo dalla riforma impossibile. Senza completare l’opera. Il momento del taglio sembrava davvero cosa fatta tra il 2005 e il 2008, quando le province stavano per essere sacrificate sull’altare dei costi della politica. La spuntarono anche allora.
Con l’ultimo, governo, il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, ha annunciato, nel luglio 2009, una «razionalizzazione». Ancora una volta, però, le cose si sono arenate. Anzi, paradossalmente, invece di diminuire, il numero delle amministrazioni provinciali in questi ultimi anni è aumentato. Basta prendere il caso della Sardegna: erano quattro e sono diventate otto. «Quella delle province - dice Borgonovi - è senza dubbio la riforma più complessa, perché è strutturale e ha pesanti implicazioni sul territorio e sulla classe politica locale».
Pesanti ricadute politiche ha anche il taglio degli enti inutili, che c’erano cinquant’anni fa e ci sono ancora. Tutti i tentativi di potatura sono miseramente falliti. O al più hanno sortito risultati,al di sotto delle aspettative: qualche piccola struttura sacrificata perché il grosso del sistema potesse continuare a vivere. Magari cambiando semplicemente nome o mettendo in campo un lifting dei bilanci, con un dimagrimento dei conti e del personale talvolta più fittizio che reale. È un po’ quanto è successo con l’ultima operazione di sfoltimento. Promossa sotto il governo Prodi, che aveva individuato undici enti destinati a sicura scomparsa e aveva dettato i criteri per allargare il taglio, il progetto è stato fatto proprio da Calderoli, ministro leghista del governo Berlusconi, che ha ridisegnato modalità e scadenze della riduzione.
Alla fine, tutti sono rimasti al loro posto. Un po’ dimagriti, ma salvati. E il bello è che, così come per le auto blu, non si conosce il loro esatto numero.
Resta la domanda di fondo: erano inutili o no? Un quesito che il legislatore ha cercato di affrontare in modo sistematico per la prima volta nel 1956, con la legge 1404. È allora che parte la prima campagna taglia enti.
Che non si rivela un assoluto insuccesso, dato che decine di strutture chiudono i battenti. Ma non si riesce a completare l’opera, perché altre sfuggono alla ghigliottina. Tant’è che dal ‘56 in poi sono almeno una decina gli interventi legislativi che pretendono di fare piazza pulita degli apparati zavorra. Nessuno coglie nel segno. Con la Finanziaria per il 2007 si riaffronta il problema. Visto come è andata a finire, tra qualche anno se ne tornerà a parlare.
Intanto, l’attenzione si è spostata sui consorzi e le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni. Una vera giungla. E anche lì il legislatore ha annunciato da tempo un disboscamento. Scadenza prevista: fine di quest’anno, proroghe permettendo. Perché i differimenti dei termini hanno una parte importante in questa catena di riforme impossibili. Come dimostra la storia più breve, ma altrettanto travagliata, della carta di identità elettronica (Cie). Partita nell’estate del 1999 è ferma da undici anni in uno stato di sperimentazione perenne.
E l’ultimo mille proroghe (decreto legge 194/2009) ne ha rinviato a fine 2010 l’entrata in vigore nei rapporti con la Pa. Ma è di là da venire anche l’uso come solo documento di identità . A fine 2010, secondo i calcoli del Poligrafico, saranno appena tre milioni le carte distribuite in 152 Comuni. Un esito ben diverso da quello auspicato dai molti ministri che, negli anni, hanno annunciato la pensione del vecchio documento. Secondo la legge 43 del 2005, per citare un esempio, quel momento sarebbe dovuto cadere il 1° gennaio 2006. Ovviamente, non è successo nulla.