Da tempo, le poche voci liberali che ancora compaiono sui giornali dicevano ciò che adesso scrive il Washington Post: «L’eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati». Ma nessuno ha dato loro retta e capito i prodromi della crisi dell’euro. Eppure, essa è l’epifenomeno della crisi dello Stato sociale moderno.
Se ciò che dà (col welfare) è più di quanto potrebbe, c’è squilibrio di bilancio che porta alla crisi finanziaria; se ciò che toglie (con le tasse) è giù di quanto dovrebbe, la crescita del Paese si arresta. Lo Stato sociale moderno è oggetto di statolatria. L’attributo «sociale» è il distintivo residuale delle politiche «progressiste» del Novecento - tutto ciò che viene dopo sarebbe un progresso secondo «lo Spirito del Mondo» (e nel fertile «solco della Storia») - che si sono rivelate, invece, «regressive»:«alibi sociale» ha giustificato l’ipertrofia e l’autoreferenzialità burocratiche dello Stato moderno, il quale pròduce «plusvalore politico» per chi ne detiene il potere con l’eccesso di spesa pubblica e di tassazione. Ma, ora che l’Unione Europea ha imposto ai singoli Stati membri il contenimento della spesa, lo Stato sociale - con le misure che riducono salari e pensioni, senza incidere sulle proprie dimensioni - si appresta a divorare i suoi cittadini per sopravvivere.
Sulla sua crisi si innesta, così, quella della democrazia. I rappresentanti dei popolo non esercitano il potere in nome, e al servizio, del popolo, ma è il popolo a essere al loro servizio al solo scopo di far funzionare la macchina pubblica dalla quale essi, quale ne sia il colore, hanno una «rendita politica».
C’è anche una dimensione sociale della statolatria. Dal moderno Stato sociale traggono profitto il capitalismo assistito, le corporazioni, i sindacati, tutte le forme di collettivismo, riconosciute e sovvenzionate dalla mano pubblica, e che hanno tutto da guadagnare dallo statu quo. In una società corporativa, il potere politico fa da mediatore fra le corporazioni in conflitto e, in una condizione di recessione economica, distribuisce le scarse risorse disponibili non secondo criteri di giustizia, ma in funzione della propria perpetuazione.
A uscirne massacrati sono il singolo Individuo, non protetto da una qualche corporazione, e le aziende che operano sul mercato. Le riforme si allontanano. I media, invece di guardare dentro la macchina dello Stato moderno e denunciarne costi e pericoli - in definitiva, invece di fare il loro mestiere hanno taciuto e ancora tacciono; vuoi per conformismo, vuoi per riflesso degli interessi extra editoriali dei loro editori, finendo col farsi dettare l’agenda dagli stessi responsabili della crisi. Alla democrazia è venuto a mancare
uno dei pilastri su cui dovrebbe poggiare: l’indipendenza dei media. Sulle cause della crisi un esame di coscienza lo dovrebbero fare anche i giornalisti.