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Steven, Tiwonge e l'amore gay. Ai lavori forzati per 14 anni

• da Corriere della Sera del 21 maggio 2010

di Ivan Cotroneo

Due persone dello stesso sesso si amano. Decidono di celebrare il loro reciproco impegno con un rito simbolico, che di fronte alla legge non ha alcun valore, ma per loro ha un senso profondo. Festeggiano con gli amici nell’albergo in cui uno dei due lavora. Ballano, cantano, bevono, sono brevemente felici. Due giorni dopo vengono arrestati dalla polizia, e poi, con una sentenza che vuole essere esemplare, vengono condannati a 14 anni di carcerazione e lavori forzati.
È appena successo a Blantyre, nel Malawi, nel continente africano, dove, tanto per dirne una, in 37 diversi stati l’omosessualità è ancora considerata reato. È successo a due ragazzi adulti, consenzienti, che hanno avuto l’unica colpa di rendere pubblico il loro amore in uno stato che non li tollera, non prevede la loro esistenza, li rifiuta, anzi li condanna al massimo della pena, perché nessuno segua, nelle parole del giudice, il loro «orribile esempio» che ha «violato l’ordine della natura». La storia si arricchisce di particolari strazianti, o toccanti, o più semplicemente umani. Tiwonge, vent’anni, il più giovane dei due ragazzi dice: «Io amo molto Steven e se la gente non mi dovesse dare la possibilità di amarlo e di vivere liberamente con lui, allora è meglio che io muoia qui in carcere. La libertà senza di lui non ha significato».
Viene da chiedersi se questa sentenza che di fatto è un orribile atto di violenza, perpetrato da uno Stato che pretende di imporre chi bisogna amare e chi no, sia stata pronunciata davvero così lontano da noi. Viviamo in un mondo globalizzato, ci viene ripetuto, un mondo in cui i confini hanno assunto un altro significato rispetto a cinquant’anni fa. E probabilmente è così: per quello che riguarda l’omofobia, per quanto riguarda il pregiudizio ancora ferocemente nutrito nei confronti degli omosessuali, i confini sembrano non esistere. Tutto il mondo è davvero paese: un unico, piccolo e razzista paese.
In occidente, in quelle che dovrebbero essere le nazioni più civilizzate, le vittime dell’omofobia sono innumerevoli.
In Francia una organizzazione con sedi in diverse città, fra cui la modernissima Parigi, si occupa di trovare rifugio a omosessuali che vengono ogni giorno cacciati di casa per avere rivelato ai parenti la loro condizione. In Italia, dove la legge a differenza che negli Stati Uniti non considera come aggravante degli atti di violenza l’omofobia, gli episodi di discriminazione, di aggressione verbale e fisica sono all’ordine del giorno.
Negli Stati Uniti, omicidi per omofobia hanno visto come vittime, fra le molte altre, il sedicenne Larry King, ucciso a scuola con un colpo di pistola per aver corteggiato un compagno di classe, o Matthew Shepard, picchiato e lasciato a morire su una staccionata del Wyoming. In India fra pochi giorni si festeggia: è quasi un anno che gli omosessuali non possono essere più imprigionati per il fatto che sono quello che sono. Cioè si festeggia il raggiungimento di un diritto che dovrebbe essere garantito per l’uomo su questa Terra da almeno un centinaio di anni. E c’è ancora chi si chiede perché gli omosessuali scendano mai in piazza a farsi vedere e a chiedere diritti.
Siamo tutti cittadini dello stesso mondo. In questo mondo l’uomo non ha ancora imparato che una persona non si giudica (e quindi tanto meno si condanna) in base alle sue preferenze sessuali. In alcuni paesi di questo mondo, smettere di incarcerare due ragazzi o due ragazze che si amano, smettere di punirli, anche fisicamente, per il loro amore sarebbe ancora una grande conquista. Possiamo considerarci più o meno fortunati a essere nati in un continente invece che in un altro, in una nazione invece che in un’altra, in una città invece che in un’altra, ma finché un gesto di amore fra due persone dello stesso sesso, un bacio, una carezza, o il desiderio di un’unione più stabile riconosciuta dallo stato, saranno considerati altrettante provocazioni, saremo tutti più poveri, saremo tutti meno civili, saremo tutti meno uomini. Per chiunque partecipi dell’umanità intera, questa sentenza è uno schiaffo in faccia, un affronto personale, una violenza vissuta in prima persona. Perché ogni discriminazione perpetrata su questa Terra, per dirla con il poeta John Donne, ci diminuisce. E cioè noi siamo tutti, al di là delle identità sessuali di ciascuno, con Steven e Tiwonge, partecipiamo anche delle loro infelici esistenze. Quindi questa volta la campana è suonata anche per noi.



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