Â
La tempesta delle inchieste su case e appalti e della crisi economica si è abbattuta sulla politica italiana colpendo due fronti già di massima esposizione per il paese: la scarsa credibilità degli occupanti le istituzioni e gli squilibri dei conti pubblici in un’economia sempre meno competitiva.
In queste condizioni, il riflesso di chi crede nel metodo democratico dovrebbe essere quello di intensificare il dibattito politico, il confronto tra opzioni diverse sotto gli occhi dell’opinione pubblica, invece che inseguire nuove e più esplicite saldature "di unità nazionale" di un ceto politico il cui principale limite è stato proprio quello della conservazione trasversale e bipartisan di un regime strutturalmente produttore di corruzione e debito. Giovedì scorso come Radicali abbiamo pubblicamente chiesto un incontro seminariale di almeno una giornata con Bersani e i vertici Pd. Con questo obiettivo, la delegazione dei parlamentari radicali eletti nel Partito democratico si è autosospesa dai gruppi Pd in attesa dell’incontro.
La gravità della decisione, caduta nell’indifferenza e nel silenzio generale, viene dall’urgenza di affrontare la crisi mettendo in campo delle proposte che siano adeguate a realizzare - non solo a parole o come slogan sui manifesti - quell’alternativa che anche il Pd dice di volere. Oltre alla condizione criminale della giustizia e delle carceri (che, insieme alla dis-informazione fuorilegge e alle azioni nonviolente da realizzare, sono al centro della nostra richiesta di incontro), uno dei temi da affrontare è anche il primo ad esser stato sepolto dall’emergenzialismo imperante: le riforme istituzionali. Sbandierate dal presidente del consiglio subito dopo il voto regionale, oggi sono cancellate dall’agenda politica, sepolte sotto l’esigenza di non disturbare Tremonti nel già delicatissimo compito di reperire decine di miliardi di euro componendo le pressioni leghiste sul federalismo con l’esigenza di non provocare strappi di “partiti del sud", il tutto sotto il giudizio implacabile dei mercati internazionali. Se la scelta appare comprensibile dal punto di vista di una maggioranza attraversata da divisioni sempre più profonde, meno comprensibile è che la questione sia lasciata cadere anche dall’opposizione, a meno di ritenere che effettivamente non ci sia rapporto tra i meccanismi di funzionamento delle istituzioni e la capacità di rispondere alla crisi in corso. Il rapporto c’è, ed è fin troppo evidente.
Nell’attuale sistema convivono un presidenzialismo televisivo a vocazione plebiscitaria e un parlamentarismo proporzionalista e correntizio, dove i parlamentari nominati sono oggettivamente e soggettivamente ricattati da chi si prevede detenga il potere di comporre le prossime liste elettorali. Le dinamiche politiche e mediatiche esaltano il potere di condizionamento di chi, come la Lega e l’Italia dei Valori, ha la convenienza a procedere per rotture e ricomposizioni, specie nei confronti degli "alleati", accentuando così quel gioco di veti e ricatti che da sempre ha sabotato ogni serio tentativo di riforme. Il segretario del Pd Bersani si era negli scorsi mesi pronunciato per un sistema elettorale uninominale a doppio turno alla francese. Lo stesso sistema un tempo inserito nel programma elettorale da Veltroni, pur senza lasciarne traccia in termini di iniziativa politica. Anche Gianfranco Fini si è più volte espresso, anche recentemente, per un ritorno quantomeno al collegio uninominale.
È il momento di riprendere in mano la questione, non solo per produrre documenti interni, ma soprattutto per realizzare iniziative politiche. Noi Radicali proponiamo il modello americano e sosterremmo una soluzione di compromesso che sia fondata sul collegio uninominale, cioè sul recupero del rapporto tra l’eletto e il suo territorio in sostituzione del vincolo tra l’eletto e i padroni dei partiti che hanno in mano la sua nomina. Sbaglierebbe chi pensasse che occuparsi di questo sia contraddittorio con l’esigenza di trovare soluzioni per la drammatica crisi sociale. Non si vede perché non si possano fare proposte su entrambi i fronti. Soprattutto, sarebbe un primo tentativo di dare una vera risposta alla crisi di credibilità dei partiti in alternativa alle soluzioni cosmetiche di ritocco di qualche stipendio.
Anche sul piano del costo della non democrazia italiana, ci sarebbe molto da fare per un’opposizione che non volesse restare subalterna agli equilibrismi del duo Tremonti-Calderoli. Il finanziamento pubblico ai partiti, ad esempio, già abolito dal 90 per cento degli elettori italiani e reintrodotto sotto mentite spoglie di falsi rimborsi elettorali, da solo pesa per circa 300 milioni di euro l’anno (la cifra varia quando, come adesso, si cumulano incredibilmente i finanziamenti anche delle legislature precedenti terminate prima della scadenza naturale), il che significa che dalla sua abolizione si ricaverebbe moltissimo di più di quanto si potrebbe ottenere sforbiciando, come pur necessario, gli emolumenti dei parlamentari.
Se infine l’opposizione proponesse in modo determinato (cioè, anche qui, con una campagna e non con semplici prese di posizione) l’adozione dell’anagrafe pubblica degli eletti e dei nominati - per conoscere stipendi, patrimoni, conflitti d’interesse, attività istituzionale e presenze dei rappresentanti istituzionali - non sarebbe semplice per il governo eludere la proposta proprio mentre le inchieste fanno venire alla luce ciò che quel tipo di anagrafe avrebbe contribuito a impedire. Sempre che l’obiettivo sia l’alternativa e non la sopravvivenza di pratiche comuni a destra quanto a sinistra e risalenti ad epoche che precedono lo stesso Berlusconi.