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La ricerca c'è e si vede

• da Il Corriere Adriatico del 24 maggio 2010

di Fulvio Cammarano

 

C’è debito e debito. Noi siamo abituati a reagire al grido di dolore dei ministri finanziari pronti a utilizzare lo spauracchio del debito pubblico per giustificare i tagli agli investimenti pubblici. E’ in tali frangenti che il “settore pubblico” diventa sinonimo di spreco ed inefficienza, con un’equivalenza quanto meno discutibile. In realtà, quel settore, quando funziona, indica che un sistema sociale è forte e agisce. Ospedali, scuole, ricerca, amministrazione, trasporti, cultura, ambiente non sono pesi, ma esigenze imprescindibili a cui tutti dovrebbero guardare come diritto/dovere del vivere collettivo. Un accettabile livello di debito per finanziare, in un regime di efficienza e qualità, tali ambiti, sarebbe un carico che potremmo accollarci volentieri, dato che avremmo modo di vederne le ricadute positive. In verità, il debito di cui si parla deriva in parte dall’inefficiente gestione di quei settori essenziali, ma soprattutto dal proliferare di una pubblica amministrazione che spende dissennatamente per mantenere se stessa: pensiamo ai milioni di euro gettati quotidianamente nella fornace di enti inutili, favori personali, consulenze, esenzioni (demanio regalato, enti ecclesiastici, falsi invalidi, ecc). Ma pensiamo anche alle spese in termini di armamenti, non di rado inutili e ridondanti, in quanto non fanno altro che sovrapporsi ad altri cospicui esborsi e contributi per la difesa che diamo alla Nato e all’Europa.
 
Questo modo patologico di sperperare la ricchezza collettiva è da addebitare alle pessime abitudini di un modo d’intendere la politica nel nostro Paese, cioè la politica che si pensa padrona e dunque legittimata ad agire in modo incontrollato ed onnipotente, premiando amici e creando clientele, “tanto paga Pantalone”. Però è anche il prodotto della ben nota mancanza di cultura pubblica degli italiani, i quali non puniscono chi distrugge i beni collettivi ma solo chi attenta agli interessi personali. In questo clima, si è formato il tacito patto di servizi pubblici scadenti in cambio di modesti stipendi. In realtà, se si agisse sul doppio fronte della riduzione degli sprechi (operazione, quella sì meritevole di un “contratto con gli italiani”: all’inizio del mandato censiti tot enti inutili, tot auto blu, tot consulenze milionarie ecc., da verificare poi a fine mandato) e su quello del recupero dell’evasione fiscale, diventeremmo rapidamente un Paese ricchissimo. A forza di piangerci addosso (è un modo con cui la politica giustifica la propria incapacità a portare avanti le riforme), non ci accorgiamo che la ricchezza effettiva del nostro Paese è davvero notevole: basti pensare che al fisco mancano, secondo i dati Istat, 120 miliardi di tasse evase. Inoltre, è noto che il nostro indebitamento con l’estero è molto ridotto e, dunque, gran parte dei problemi potrebbero essere risolti non tagliando, bensì addirittura rilanciando in termini di spesa pubblica produttiva. Però qui troviamo lo scoglio della politica. In generale, la classe politica di qualunque colore deve fare i conti, quando si occupa del debito, con una realtà complessa, quella degli “ammortizzatori” non detti, del chiudere un occhio per tenere in piedi fragilità di vario genere a salvaguardia di alcuni ambiti regionali e produttivi. 
 
Tuttavia oggi ci troviamo di fronte ad un ulteriore paradosso. Il governo del Paese è nelle mani di forze politiche che in un modo o nell’altro hanno sempre invitato i propri elettori ad occuparsi dei propri affari, a contestare la spesa pubblica, a disprezzare la sfera politica considerata una sorta d’imbroglio. Ora tocca proprio ai fautori di questa “filosofia” ad essere costretti a fare appello al senso di responsabilità collettiva e, quindi, a riesumare il significato di politica, indispensabile quando si chiedono sacrifici. Però tale appello non sarà franco e netto. Il Presidente del Consiglio ha troppo a lungo battuto sul tema della riduzione delle tasse per potersi presentare come colui che le dovrà, direttamente o meno, aumentare. Così come il suo maggiore alleato Bossi, il cantore del “piccolo è bello” e “ognuno rimanga immobile a casa propria”, si è dovuto piegare alla logica della ragion di stato nell’ambito della politica estera, accettando la permanenza delle truppe italiane a Kabul, anche Berlusconi, fautore dell’antipolitica come strumento per dissolvere la sfera pubblica, dovrà assoggettarsi alle imposizioni europee di riduzione del debito, dando via libera (sia pure in incognito) alla finanza “lacrime e sangue” di Tremonti. Una scelta politica che sembra un crudele contrappasso e dunque probabilmente dissimulata e contrastata dallo stesso esecutivo, perché comporterà la fine di un’illusione e la perdita di molti punti nell’indice di gradimento del Cavaliere che dovrà tirar fuori dal proprio, capace cilindro nuove risorse emotive per continuare a portare avanti l’immagine del leader di “lotta e di governo”.
 


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