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Ci proviamo noi a riproporre quel "Mondo"...

• da Secolo d'Italia del 25 maggio 2010

di Mario Bernardi Guardi

 

Alto biondo, occhi celesti, gentile ed elegante, il diciottenne Mario Pannunzio amava la compagnia degli amici e delle belle ragazze, frequentava le sale da ballo e andava a villeggiare in Versilia, ma era tutt’altro che un perdigiorno.
Anzi, avversava il disimpegno ed era di tutto curioso: letteratura, cinema, arte, architettura. Già, proprio alla facoltà di architettura voleva iscriversi, dopo essersi diplomato al romano liceo Mamiani. Ma il padre non era d’accordo: doveva scegliere giurisprudenza e fare l’avvocato. Come lui. Un padre-padrone che gli stava guastando la vita. Altrimenti così dolce in quella Roma che per Mario era stata un amore a prima vista da quando, nel 1922, nelle settimane burrascose della Marcia, vi si era trasferito da Lucca insieme alla famiglia. Come racconta Massimo Teodori in questo suo ultimo libro Pannunzio: Dal Mondo al partito radicale: vita di un intellettuale del Novecento (Mondadori, €19,50) - «a quei tempi, la città era relativamente limitata e il suo centro storico, tra Piazza del Popolo, Piazza di Spagna e il Pantheon, aveva il fascino di una gran bella provincia con notevoli occasioni per un giovane intraprendente.
L’iniziazione alla capitale gli venne da un cugino romano che lo introdusse nella vita sociale e culturale: le sale da ballo, i caffè i teatri e i cinematografi... Il caffè Aragno, tra il Corso e il Tritone, vicino al grande
magazzino a cui d’Annunzio aveva dato il nome La Rinascente». Ma torniamo al nostro studente. E un ragazzo studioso e promettente, che però si sente incompreso e sottovalutato da quel papà di origine molisana, che è stato un esponente socialista e che, nell’estate del 1920 ha viaggiato a Mosca e a Pietrogrado. Raccontando poi la nuova Russia in un libro carico di entusiasmo rivoluzionario: Ciò che ho visto nella Russia bolscevica, a cui, naturalmente, i figli, Mario e Sandrina, dovrebbero abbeverarsi. Figuriamoci. Mario, già da allora, anche se non è ancora stato affascinato dalla finezza intellettuale di Tocqueville, è un tipo che pensa con la propria testa, uno spirito libero, un irregolare: e poi, cosa c’è mai di "rivoluzionario" in quel padre che predica un mondo nuovo, ma vive da agiato borghese?
Ecco, per capire la personalità di Pannunzio, per capire come in lui moralità, libertà e identità si fondano e dunque per seguirlo nelle vicende della sua vita di scrittore, organizzatore di cultura e uomo politico, è importante fare i conti anche con questi precedenti. Perché già in essi ci sono i contrassegni di una formazione da cui emergerà il profilo dell’intellettuale maturo: «Un insieme di forza e gentilezza, di ordine e ribellismo, di passione e freddezza, di moralità e leggerezza, di intuito e perseveranza». E, prima di tutto e su tutto, uno "spirito libero". Il libro di Massimo Teodori, che ha compulsato una ricca messe di documenti (un centinaio di faldoni con innumerevoli documenti conservati dall’Archivio storico della Camera e un carteggio di circa ventimila lettere scritte in poco più di trent’anni), la recepisce e la ricostruisce compiutamente, a partire, appunto, dagli anni giovanili. O, per meglio dire, dagli anni del giovane umanista, custode dell’eredità del passato, e al tempo stesso, aperto alle sollecitazioni del Novecento: e l’appassionata perorazione dell’architettura l’eclettica disciplina che, nel "sistema di pensiero" futurista, disegnava, conteneva e rappresentava gli orizzonti della nuova, rivoluzionaria città" - ne è significativa riprova. Ma di talenti Pannunzio - che poi, obbediente al coriaceo genitore si laureò in giurisprudenza, naturalmente ignorando ogni sbocco avvocatesco - ne aveva tanti. E Teodori ci racconta il pittore, ammesso alla prima Quadriennale d’Arte, con il dipinto che raffigurava la sorella Sandrina (Il Tevere e Il Popolo d’Italia dedicheranno spazio al «promettente artista»), il critico che, nel novembre del 1932, pubblica sul Saggiatore un "Discorso sulla Pittura" ricco di argomentazioni sulle nuove tendenze, il lettore di Joyce, Lawrence, Huxley, l’organizzatore di cultura che nel 1933 fonda Oggi, cui collaboreranno Delfini, Tilgher, Brancati, Tobino e Flaiano. È a-fascista, Pannunzio, ma comunque iscritto al Pnf, e ben lontano in quegli anni dall’antifascismo: tanto che, per il primo Oggi che chiude nel 1934, le altre strade che gli si aprono sono tutte dentro al fascismo, e Pannunzio le percorre senza trasformarsi per questo in un "megafono" del regime. C’è l’esperienza del Centro Sperimentale di Cinematografia: Mario supera brillantemente l’esame di ammissione al primo corso e per tre anni si dedica, con regie e sceneggiature, al cinema.
C’è, dal 1937 al 1939, Omnibus: Mario è redattore capo della nuova testata fondata dal 32enne Leo Longanesi, in cui, come scrive Nello Ajello, «si trovano per la prima volta la tecnica di stampa, i criteri d’impaginazione, il gusto della fotografia e della vignetta che saranno poi adottati dai migliori settimanali del dopoguerra, e che domineranno incontrastati- almeno fino alla recente affermazione del formato tabloid - nel campo del periodico d’attualità». Nel corso di due anni Omnibus ospita illustri firme italiane e straniere: Buzzati, Landolfi, Malaparte, Montale, Tilgher, Prezzolini, Elio Vittorini, Lawrence, Steinbeck, Joseph Roth, Caldwell, e fior di disegnatori come Maccari, Bartoli, Novello e Luigi Bartolini. Si tratta di un rotocalco fascista? O frondista? E Pannunzio come la pensa? E o no "figlio" di Leo Longanesi? Teodori ricorda che, sì, Mario prese la tessera a diciassette anni, ma lo fece "formalmente" e che in ogni caso non «rese mai omaggio pubblico o privato al regime».
A noi sembra che Pannunzio, che non militò, al pari di altri che "militarono" - come i ragazzi dell’Universale, Berto Ricci, Bilenchi, Rosai, Montanelli, ad esempio - faccia partedi quel vivaio di multiformi ingegni vivaci e appassionati che, ora grazie al fascismo, ora nonostante il fascismo, ma tenendone comunque di conto come interlocutore, seppero esprimere attraverso scritti e riviste una vitalità intellettuale e civile mai prima d’allora riscontrata in Italia. Pensiamo al Mondo, laico, liberale, libertario, democratico, riformatore, anticonservatore, antireazionario, antiqualunquista, sostenitore del
progresso sociale senza avventure e dei diritti civili senza anatemi laicisti, polemico nei confronti del settarismo clericale e di quello comunista, nazionale ma non nazionalista, occidentale ma mai servilmente filoyankee, e dotato di uno sguardo sempre aperto sul futuro dell’Europa; il Mondo, alfiere dell’intransigenza morale contro ogni mafia e affarismo, antifascista ma ben lontano da ogni retorica dell’antifascismo (fu il redattore capo del Mondo, Ennio Flaiano, a dire che c’erano due tipi di fascisti: i fascisti e gli antifascisti), portabandiera di una grande politica e ostile a ogni forma di dilettantismo e opportunismo; al Mondo, innamorato del dibattito e della critica, ma fiero delle sue belle certezze, che Pannunzio fondò nel 1949 per dar voce a una terza forza che preparasse «un’altra Italia» (no, né Pannunzio né gli altri potevano riconoscersi in quella "strozzata" tra Dc e Pci); ebbene, quel Mondo, come il borghese, fondato nel 1950, da Longanesi, "fratello coltello" di Pannunzio, sul versante della destra post-fascista e anti-antifascista, era figlio delle migliori energie e speranze del Novecento. Legittimo discendente, dunque, delle riviste fiorentine d’inizio secolo, del ribollìo critico e creativo delle avanguardie, dell’antifascismo "non di sinistra" di Croce, Salvemini, Einaudi, Ernesto Rossi, nonché - eccome! - della talentosa "fronda", fascista, afascista o già post-fascista che fosse, armata di ragionamenti solidi e ribollenti spiriti contro ogni sorta di malaffare, ovunque si annidasse: nella società, nello Stato o, peggio, nello spirito.
Il "radicale" Pannunzio (no, non hanno raccolto la sua eredità né Pannella né Scalfari: e Teodori ne liquida, a colpi di ironia, ogni eventuale pretesa nelle ultime pagine del suo saggio) combatté per una nuova Italia e contro "un paese senza", armato di intelligenza, stile e rigore: bene, proviamo a farle ritornare nel vocabolario politico queste dimenticate parole. Forse è necessario


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