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Noi due, nordcoreani sopravvissuti ai lager nel Paese delle torture

• da L'Unità del 28 maggio 2010

di Gabriel Bertinetto

 

La fame. Una fame atroce, che ti fa contendere il cibo ai cani. La voglia di morire. Una voglia disperata, che ti spinge a tentare il suicidio senza avere abbastanza energia per farcela. Storie di miseria estrema e indicibile crudeltà. Voci dalla Corea del Nord, dai lager dove si rimane rinchiusi per anni e anni. A causa di
«qualcosa che fece mio nonno, e non so cosa fu». E il caso di Kim Hye-suk, fuggita nel 2008 dal «campo numero 18». Oppure perché «alcuni parenti di mia mamma durante la guerra scapparono al Sud», come racconta Kim Kwang-il, che ancora oggi, sette anni dopo l’evasione, è costretto ogni notte a bere alcoolici per addormentarsi.
Per svincolarsi dalla memoria delle percosse subite, del cibo negato, dei corpi martoriati abbandonati a terra insepolti. Solo per essere ghermito dai ricordi subito dopo in un sonno zeppo di incubi.
Ospiti a Roma del Partito radicale, Hye-suk e Kwang-il descrivono il loro personale inferno, così atrocemente simile a quello di altri 150mila detenuti politici, secondo i calcoli della ong sudcoreana «Comitato di indagine sui crimini contro l’umanità». Hee-suk sopraffatta dall’emozione, scoppia ripetutamente in lacrime. «Si alternano le stagioni, per me è il tempo immutabile del dolore». Kwang-il apparentemente impassibile, srotola l’elenco delle nefandezze viste e patite con lo stesso inalterato tono
di voce, rigidi i lineamenti del volto, quasi pietrificati in una crosta d’abitudine al male.
Aveva 13 anni Hye-suk, quando gli agenti la bloccarono al ritorno da scuola. Cinque anni prima le avevano portato via i genitori, senza dirle dove, senza spiegarle perché. Ricongiunzione familiare. Hye-suk ed i fratellini raggiungono la mamma in prigione, a Bukchang. «Non la riconoscevo più. Terribilmente invecchiata. Pallida, scheletrica, la pelle rugosa coperta di piaghe. Ci misero tutti in una capanna lurida, una ex-stalla senza tetto». Da mangiare nient’altro che un chilo di grano a testa al mese. Estenuanti lavori forzati. Disperata continua ricerca di verdure selvatiche da strappare al terreno per vincere i morsi della fame. Il cibo, un’ossessione. Detenuti guadano il fiume Daedong. Sulla riva opposta un altro lager, altre guardie, altri orrori. Ma cresce qualche spiga di mais. Li prendono, li legano a un albero, gli sparano sei colpi di pistola ciascuno. Davanti a tutti, affinché non si ripeta più. «E invece ogni anno venti, trenta persone ci riprovavano, venivano prese e ammazzate».
In prigione Hye-suk sposa un compagno di sventura. Nascono due bambini. Il marito muore in miniera. I figli scompaiono in un’alluvione. Lei tenta di avvelenarsi, sopravvive. Fugge in Cina. Un giorno riattraversa il confine e viene catturata. La rimandano a Bukchang. Ritrova i fratelli. La stessa razione di
prima ora deve bastare anche per lei. Dividono quel nulla. Nella loro cella vigono ancora regole di umana solidarietà. Ma Hye-suk vede «genitori divorare la zuppa dei figli». Vede una mamma vendere il proprio ragazzo malato e mutilato di sedici chili di grano. Riesce miracolosamente a scappare una seconda volta e raggiunge la Corea del sud. Ai figli, scomparsi nel nulla, manda un messaggio straziante: «Nel paese delle torture mamma non è mai riuscita a darvi un pasto caldo. Perdonatemi».
Nella Repubblica popolare democratica di Corea il sospetto di infedeltà verso il regime è sufficiente
per finire dietro le sbarre. Era così sotto il «grande leader» Kim Il-sung. Così resta con il figlio e successore, il «caro leader» Jong-il. Così potrebbe continuare dopo il probabile passaggio di consegne al terzo rampollo del potente casato, Jong-un. Mentre la tirannia del comunismo dinastico coreano si perpetuava nei decenni, le condizioni materiali di vita della popolazione peggioravano. La carestia fra il 1995 ed il 1998 ha falciato tre milioni di individui. Il World food programme dell’Onu calcola che il 40% dei cittadini rischi la morte per fame. Pyongyang alterna richieste di aiuto al mondo esterno con improvvisi irrigidimenti isolazionisti e iniziative minacciose. Lanci di missili, esperimenti atomici, sino al recentissimo affondamento di una nave del Sud. La diplomazia del dialogo intercoreano varata da Seul nel 2000 è sembrata a tratti preludere a cambiamenti importanti a nord del trentottesimo parallelo. Gli spiragli negoziali si aprono e si chiudono.Terrore e miseria perdurano. I superstiti raccontano. Kim Kwang-il viene arruolato a forza nell’esercito a 18 anni nel 1981. La base 898 di Musan è un luogo di punizione per i reprobi, colpevoli di discendere da «famiglie malsane», cioè politicamente inaffidabili.
Dal servizio militare al lavoro in miniera. Sempre nello stesso luogo. Ogni tanto varca la frontiera e cerca di guadagnare qualcosa in Cina. I suoi viaggi avanti e indietro destano sospetto. Il sospetto diventa certezza quando gli trovano in casa una Bibbia e una lettera ricevuta da una zia emigrata in Canada.
Kwang-il è bollato come una spia. Lo rinchiudono di nuovo a Musan. Lo massacrano di botte. Una mazzata gli rompe tutti i denti. Una bastonata gli frattura la nuca. Lo legano alle inferriate in modo che non possa né sedersi né stare in piedi. La fame lo strazia. Vede qualche osso nella ciotola di un cane. Implora le guardie di passargliela. In risposta ottiene solo un calcio alla scodella e risate di scherno. Il supplizio dura otto mesi. Alla fine confessa colpe che non ha commesso. I carnefici hanno l’involontaria onestà di ammettere l’inutilità di interrogatori svolti nella presunzione di colpevolezza dell’imputato: all’udienza partecipa imbavagliato. Finisce nel carcere speciale di Yodeok. Controlli rigidissimi. «Accompagnati perfino in bagno, legati gli uni agli altri a gruppi di tre». Tredici ore di lavoro forzato. La sera 120 minuti di indottrinamento. Chi non impara a memoria il pensiero del «grande laeder» e del «caro leader», non ha diritto al riposo notturno. Kwang-il, ormai considerato un pericoloso oppositore, è contento quando lo assegnano al reparto agricolo. «Almeno non morirò di fame». Ma la sorveglianza accanita vieta ai galeotti di appropriarsi di un solo chicco di grano. Oppure le guardie lasciano fare, dopo avere spruzzato i semi di pesticida. Il rischio di ammalarsi non trattiene gli affamati. Mangiano anche quel veleno. «Divoravi qualunque cosa riuscissi a scovare, che non fosse un sasso». Gli aguzzini organizzano il cottimo della fame e della morte. Chi più raccoglie, più grammi di grano avrà da mandar giù. Poco conta se molti non ce la fanno, rimangono senza cibo sufficiente, si spengono. Denutriti, sfiniti. Nel campo di Yodeok i carcerieri organizzano gare sportive per sconfiggere la noia dei lunghi inverni. I detenuti devono trascinare la legna degli alberi segati in montagna giù per quattro chilometri sino al porto. Un trofeo attende coloro che ne avranno portata di più: un pasto a base di grano. Tutti a correre giù per il pendio, spingendosi a vicenda e inneggiando al miraggio del premio che li attende a valle. «Nella ressa spesso qualcuno cadeva giù nel precipizio. Gli ufficiali guardavano, ridevano, si divertivano».
Kwang-il tace un attimo. Il pensiero corre ad una donna, che nel campo di Musan ha visto «picchiare nuda ogni giorno per tre o quattro mesi. Finché un giorno le hanno messo un sacco in testa e le hanno sparato. Non riesco a capire come essere umani possano fare certe cose, come un essere umano possa essere trattato così. Non vi nascondo che un giorno ho tentato di ammazzarmi. Non ci sono riuscito»


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