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L’accordo nel PdL sulle intercettazioni è durato qualche giorno. «Torniamo al testo della Camera», diceva il ministro Alfano. «Sì, al testo della Camera», approvavano i finiani. Incontri riservati nello studio di Fini davano il via a emendamenti condivisi, i giornali davano conto dell’idillio e dunque, venerdì, il furto di tanta concordia s’inverava in undici emendamenti firmati dai capigruppo di maggioranza per correggere, nell’aula del Senato, altri emendamenti votati dalla maggioranza in commissione.
Tutto questo fino a ieri, perché proprio nel giorno in cui palazzo Madama comincia a discutere il ddl, Gianfranco Fini sgancia una bomba praticamente sull’intero impianto della legge: una riforma va fatta, premette il presidente della Camera, ma «ho dubbi sul testo del Senato, è opportuno che il Parlamento rifletta ancora».
In particolare, ha spiegato Fini, la norma transitoria (in cui si decide di applicare quasi tutte le nuove disposizioni anche ai processi già in corso), ma non solo: «Mi inquieta un po’ anche il limite di tempo. Io
non so se i 75 giorni sono un numero giusto o sbagliato: ma se si capisce che il giorno successivo al 75esimo accade qualcosa non si può continuare?». Col che, il presidente della Camera, in ritardo di un anno largo, ha fatto sua la critica radicale al provvedimento che arriva da tutte le categorie interessate: poliziotti e magistrati, giornalisti ed editori, giuristi e, in qualche caso, persino governi stranieri.
Questi problemi, ha insistito Fini, «non sono stati valutati bene specialmente dalla maggioranza: se i deputati alla Camera lo riterranno necessario si potrà intervenire». E qui il cofondatore dice due cose: al Senato ormai si andrà avanti così, ma nessuno pensi che la Camera si limiterà a ratificare il testo che arriverà (oggi i finiani si riuniscono per decidere la linea). L’uscita del cofondatore ha irritato assai il suo omologo del Senato: «Il mio ruolo è di garanzia, è un dovere di terzietà », ha scandito Renato Schifani: «Io non mi sognerei mai di dare giudizi politici o di merito su provvedimenti all’esame dell’altro ramo del Parlamento».
Poco prima ci aveva già pensato Sandro Bondi, che con Fini ha ormai una questione personale: «Mi chiedo non se sia corretto, ma se sia utile e ragionevole che il presidente della Camera esprima un giudizio politico nel merito di un provvedimento nel mentre lo si sta discutendo nell’aula del Senato».
Duro anche Gaetano Quagliariello: Fini ha un «problema istituzionale serio», quello di «essere nello stesso tempo presidente di una Camera e leader di minoranza. Lui ha le armi istituzionali per evitare questi inconvenienti e questo conflitto di interessi». Tradotto: stia zitto o si dimetta. Dalle parte del cofondatore s’è schierato invece l’ex ministro Giuseppe Pisanu: «Grosso modo condivido i dubbi di Fini e spero che il provvedimento cambi». A Palazzo Madama, intanto, procedeva il film della legge Alfano, confuso come al solito. Ieri pomeriggio, come detto, s’è iniziata la discussione generale: quasi 300 gli emendamenti presentati, 280 dei quali dalle opposizioni, con ben cinque pregiudiziali di costituzionalità (due del Pd e una a testa per Udc, Idv e Radicali). Il centrodestra ha respinto la richiesta di tornare commissione avanzata dalla minoranza, la quale - soprattutto il Pd - adesso si trova a dover decidere se passare all’ostruzionismo duro (ivi compresa l’occupazione dell’Aula che però non piace a parecchi democratici) o procedere ad un filibustering più tradizionale, anche se il regolamento interno del Senato non consente di allungare i tempi più di tanto. Pare comunque che una piccola concessione all’opposizione, alla fine, verrà fatta: in commissione dovrebbero tornare quelle parti del testo che la maggioranza ha deciso di cambiare. «Gli 11 comandamenti del PdL», li ha irrisi in aula Gianpiero D’Alia.
Si parla, infatti, delle undici proposte di modifica depositate venerdì e firmate dai capigruppo del centrodestra, una fattispecie di aggiustamenti che i nostri vecchi avrebbero incorporato nella categoria"peso el tacòn del buso". Tra le altre infatti reintroduzione della possibilità di pubblicare gli atti di indagine per riassunto, diminuzione delle multe per gli editori, eccetera - ce ne sono un paio che gridano vendetta. La prima è quella indicata da Fini, ovvero l’estensione di buona parte delle norme ai processi già in corso: in particolare la sostituzione del pm nel caso abbia espresso la sua opinione sul caso in questione o sia iscritto nel registro degli indagatiper violazione delle norme sulla pubblicazione degli atti d’indagine (il che, approvata la legge in discussione, lo renderebbe quasi automatico in caso di fuga di notizie); il divieto di riprese audiovisive in caso di mancato consenso delle parti e quello di pubblicare le intercettazioni che non siano state acquisite al procedimento. Il secondo emendamento grida vendetta sia per il senso che per la formulazione: si elimina, in sostanza, l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza per chi commetta atti di pedofilia di "minore gravità ". Il che conduce a due domande: Perché questa eccezione? Perché inserirlo nel ddl intercettazioni? «Su questo daremo battaglia», promette Alessandra Mussolini, PdL anche lei.