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Chi si ricorda di Benedetti? Lui e Pannunzio...

• da Secolo d'Italia del 1 giugno 2010

di Marco Iacona

 

A rileggere le testimonianze su e i ricordi di Arrigo Benedetti, fra i più grandi giornalisti del secondo dopoguerra del Novecento, fondatore dell’Europeo e dell’Espresso, nato cento anni fa il 1 giugno del 1910, si stenta a credere che siano passati pochi decenni dai giorni che lo videro protagonista delle pagine dei periodici italiani. Preciso per contenuto e forma (proveniva dalla letteratura), molte idee e poche "ideologie" in tempi nei quali le ideologie erano più un pregio che un difetto, Benedetti è stato fra i rappresentanti più nobili di un giornalismo battagliero e responsabile, onesto, asciutto (mai arido) e intransigente, perché in primo luogo sapeva esserlo lui, intransigente e serio, con amici, colleghi e conoscenti. Come tanti intellettuali della sua generazione aveva patito le strette dei primi anni Quaranta, ma ne aveva tratto una lezione positiva, pronto a rigiocarsi idee e proposte per gli anni a venire.
E così farà fino all’ultimo dei giorni quando con un coup de théatre, lui di formazione liberale, moderato e anticomunista, si avvicinerà al Pci e diventerà addirittura direttore del giornale romano Paese Sera. Era il 1975, e l’anno dopo, in ottobre, Benedetti ci avrebbe lasciati per sempre. Toscana, primi anni Trenta. Due amici camminano lungo le rive del Serchio, il fiume lucchese. Sono concittadini, di più: vicini di casa, entrambi del 1910. Il più giovane è Benedetti, il più anziano - di soli due mesi - è Mario Pannunzio. I due sono grandi amici e collaboreranno per gran parte della loro vita professionale. Pannunzio, si dice, sia più aperto e guascone, Benedetti più chiuso e severo. Due caratteri che sembrano sposarsi alla perfezione.
Sul primo è fresco di stampa il volume di Massimo Teodori, Pannunzio. Dal Mondo al partito radicale: vita di un intellettuale del 900 (Mondadori), che evidenzia l’importanza di Pannunzio - ce n’è ancora bisogno! - per la politica del nostro paese. Fra i fondatori prima del partito liberale, poi nel’55 del battagliero partito radicale (insieme fra gli altri a Marco Pannella, Ernesto Rossi, Leo Valiani e Scalfari), Pannunzio è lo storico promotore del giornalismo politico d’opinione con Il Mondo (1949), del quale poi, lo stesso Benedetti avrebbe tentato di continuare l’esperienza tra il 1969 e il 1972. Benedetti invece è probabilmente il meno conosciuto di quei due "fratelli" toscani.
Vite quasi in parallelo quelle dei due lucchesi che amavano ritrovarsi - con le intelligenze del loro tempo - nei caffè culturali, fra amicizie influenti e progetti editoriali. Pannunzio lascia la Toscana nel 1932 e se ne va a Roma per iscriversi al centro sperimentale di cinematografia. Benedetti lo raggiunge invece nel ‘37 attratto dalle possibilità che la capitale può offrire ai giovani scrittori. E proprio il 1937 è l’anno della nascita di Omnibus, una delle creature più riuscite di Leo Longanesi il geniale anticonformista di Bagnacavallo che fiuta la qualità dei due ventisettenni e li arruola nell’avventura del primo vero rotocalco italiano. Ma gli spiriti liberi, si sa, non sono fatti per sposare le rigidezze conformiste, passano soltanto due anni e Omnibus chiude; non molto diversamente andranno le cose per i settimanali Tutto e Oggi (logo già utilizzato dallo stesso Pannunzio qualche anno prima), fondati e diretti, per un paio d’anni appena, dalla coppia Pannunzio-Benedetti grazie all’esperienza maturata nella redazione di Omnibus.
Tutto questo anche se sulle intenzioni dei collaboratori di Oggi, come peraltro su quelle del bottaiano Primato, ricordando quel che scrisse Mirella Serra ne I redenti (Corbaccio 2005), il dibattito rimane interamente aperto. A proposito di periodici di quegli anni: è anche vero che in precedenza Benedetti - ricordiamolo: arrestato per antifascismo nel’43 - non aveva mostrato in toto la propria lontananza dal regime (come, fra gli altri, Eugenio Scalfari), dal momento in cui la sua firma era apparsa su Critica fascista di Giuseppe Bottai e Ottobre di Asvero Gravelli, e come riportano alcune testimonianze aveva pubblicato per le edizioni del Selvaggio di Maccari il primo volume - Tempo di guerra sull’esperienza del ‘15-’18.
Ma era ovvio però che con la fine del fascismo parecchie cose dovessero cambiare. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, c’è infatti la vera svolta nella carriera giornalistica di Benedetti. In Italia i gruppi protagonisti degli anni della rinascita si stanno affrontando sul campo della politica e dell’informazione, è facile così creare lo spazio per i nuovi giornali d’attualità. Anche Giano Accame, nel suo Una storia della Repubblica (Rizzoli, 2000), commenta sinteticamente la nascita dei settimanali che hanno caratterizzano il giornalismo italiano dalla fine degli anni Quaranta fino ai giorni nostri. «Lo spirito azionista, battuto sul terreno elettorale», scrive, «trovò una rivincita nei mass-media, ove s’imposero settimanali come L’Europeo di Arrigo Benedetti, Il Mondo di Mario Pannunzio, più tardi L’Espresso». Chiara la matrice ideale all’interno della quale si muoveràcerta stampa degli anni Quaranta-Cinquanta, anche se la lezione dei maestri (ovviamente parliamo di Leo Longanesi), è e rimarrà incancellabile.
Voluto dall’editore Gianni Mazzocchi, L’Europeo vede la luce già nel novembre del’45, col formato cosiddetto "lenzuolo", fra gli altri Emilio Radius e Camilla Cederna in redazione. Come già detto Benedetti è un burbero combattivo, il settimanale riesce a muoversi bene, vende e dà lustro al direttore; L’Europeo è il primo giornale in Italia a fare luce sulla morte "misteriosa" del bandito Salvatore Giuliano (grazie al lavoro sul campo di Tommaso Besozzi), pesta qualche piede che conta, riesce dove gli altri stentano e in periodi nei quali, fra le mille emergenze, si afferma un certo "disimpegno" realizza alcune inchieste "di troppo". Agli inizi dei Cinquanta tuttavia fra il nuovo editore Angelo Rizzoli e Benedetti il feeling s’interrompe. Succede, forse è la voglia di libertà, forse di mezzo ci si è messo il destino... Ma di lì a poco, dall’incontro fra Eugenio Scalfari, Arrigo Benedetti (che ne sarà ancora il direttore), Adriano Olivetti e Carlo Caracciolo, nasce un altro celebre "lenzuolo" italiano: L’Espresso (ottobre 1955). Le intenzioni sono delle migliori: un settimanale politico non-conformista, alternativo rispetto al moralismo democristianio, che potesse occupare gran parte degli spazi offerti alla classe dirigente italiana, dall’economia alle questioni sociali; un settimanale che potesse rilanciare, con forza, il giornalismo d’inchiesta in anni di grandi trasformazioni economiche (speculazioni e quant’altro), e nel costume (dibattito sulle case chiuse). Com’è noto quella dell’inchiesta sarà il vero fiore all’occhiello del giornale di via Po. L’origine per così dire materiale di quello che rappresenta il più prestigioso settimanale d’attualità politica del dopoguerra italiano viene tuttavia fornita da un settimanale forse oggi dimenticato, Cronache, diretto dal giornalista e futuro regista Gualtiero Jacopetti: L’Espresso assorbirà infatti l’intera redazione di Cronache (Carlo Gregoretti, Cesare Brandi e fra gli altri Giancarlo Fusco), come testimonianza di fiducia e di autentica professionalità. Dopo più di otto anni tuttavia, deluso dal deficit di "liberalismo" del suo settimanale, Arrigo Benedetti lascerà la direzione dell’Espresso. A succedergli per un quinquennio sarà proprio Scalfari.
Il resto è storia già raccontata. Giornalista di quelli che hanno fatto la storia della libertà in Italia, scopritore degli scandali e delle magagne romane (le quali gli costarono anche delle condanne), Benedetti era in realtà innamorato fin da piccolo della letteratura. Malinconico ma pragmatico e realista, a metà strada fra Proust e Svevo, coi suoi libri non ottenne però il successo sperato. Il suo testo più noto è forse quello dedicato ad Alberto, il giovane figlio morto in seguito a un’immersione subacquea (Cos’è un figlio), anticipato da un "elzeviro" sul Corriere. Tuttavia anche in questo caso Benedetti seppe restringere a un minimo accettabile il coinvolgimento personale. Benché ferito a morte, il sessantenne scrittore di Lucca non seppe venir meno alla sua regola principe: oggettività sempre e in ogni caso.


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