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Italia e comunità ebraica, duemila anni di amore e pregiudizi. La svolta cruciale del 1967

• da Corriere della Sera del 3 giugno 2010

di Riccardo Calimani

 

Il nome Italia, per gli ebrei, è intriso di poesia e di dolcezza: I Tal yah significa, in ebraico, Isola della Rugiada Divina. Non bisogna, tuttavia, farsi trarre in inganno dalle apparenze. Venti secoli fa, nel 7o d.C., gli ebrei, che vivevano a Trastevere già da molti decenni, assistettero alla caduta di Gerusalemme e alla scomparsa dello Stato ebraico. L’arco di Tito ricorda ancora oggi quelle lontane, traumatiche vicende.
L’antigiudaismo cristiano è durato oltre diciotto secoli e, ancora alla fine dell’Ottocento, la rivista La Civiltà Cattolica continuava a fomentarlo, parlando dei processi agli ebrei accusati di omicidio rituale.
Agli inizi del Novecento Theodor Herzl, ricevuto in Vaticano da Pio X, sentì pronunciare dal papa queste parole: «Noi non approveremo mai il movimento sionista». La Chiesa ha sempre considerato con fastidio la rinascita dello Stato ebraico, tant’è che i rapporti diplomatici tra Israele e la Santa Sede sono molto recenti. All’interno della vasta galassia marxista, emerse fin dai suoi albori, un movimento internazionalista ostile a ogni fenomeno nazionalista e quello ebraico è stato considerato un fenomeno ideologicamente deprecabile.
In Italia le correnti ideologiche di matrice cristiana e marxista sono entrate in sintonia dopo la grande vittoria israeliana del 1967: da allora antigiudaismo e antisionismo si sono spesso fusi e, quando gli errori di Israele (tutti gli Stati, tutti i governi commettono abusi e prepotenze) li hanno favoriti, si sono coalizzati virtuosamente.
Nel nostro Paese la memoria è corta, ma come non ricordare le ambiguità filoarabe di Andreotti e di Moro? Come dimenticare il terzomondismo antisionista acritico e strumentale di tanta sinistra che ha
appoggiato in modo manicheo una parte contro l’altra e che ha dimenticato che, se si vuole veramente una pace di compromesso in Medio Oriente, bisogna aiutare entrambe le parti e non tifare come se si fosse allo stadio?
Il Partito Comunista, per anni e anni, forse per miopi calcoli di politica internazionale ha mantenuto un atteggiamento ostile a Israele, dopo la guerra dei Sei Giorni del ‘67 e del Kippur del’73. Fu solo un effetto della Guerra Fredda? Non è simpatico ricordarlo, ma forse questo atteggiamento antiebraico si è nutrito dei trascorsi fascisti di molti intellettuali «organici» che, dopo la seconda guerra mondiale, come studi storici recenti hanno messo in evidenza, fecero con diabolica bravura il salto della quaglia e ingrossarono le file dell’antifascismo militante. Come è noto, è più facile inquinare che bonificare e anche l’inquinamento delle menti è tenace e resistente; un ventennio di fascismo imperante ha lasciato pregiudizi difficili da sradicare, perché il complotto demo-pluto-giudaico è sempre di moda. Si pensi alle polemiche recenti sulla finanza ebraica o protestante, come se i capitalisti, quando guardano alla Borsa prima di operare, si facessero distrarre da emozioni legate al divino e non dall’andamento dell’economia.
Il colpo di grazia alle illusioni di una’sinistra illuminata e scevra di pregiudizi, lo dette Craxi quando protesse gli assassini del povero Klinghoffer nella vicenda Achille Lauro: sposò la causa palestinese e, per far sapere che faceva sul serio, cancellò, all’interno del Partito Socialista, ogni traccia di presenza ebraica.
Molto spesso, più o meno coscientemente, parlando di Israele, si è confusa l’idea di Stato con quella di governo o di popolo e la critica al governo di Israele è diventata l’attacco allo Stato di Israele e la critica alla politica di un governo si è trasformata in una espressione di antisemitismo: come non ricordare con dolore la manifestazione, indetta nella primavera dell’82, quando i sindacati italiani sono passati vicino alla sinagoga di Roma portando una bara? Come non ricordare che, nell’autunno di quello stesso anno, i terroristi palestinesi di Abu Nidal spararono sui fedeli che uscivano dalla sinagoga uccidendo il piccolo Stefano Taché?
Oggi, di fronte alla tristezza suscitata dai recenti avvenimenti, ci sarebbe la necessità di uno sforzo titanico di buona fede per ricercare un filo di razionalità che possa favorire la pace in Medio Oriente. I venti di guerra si fanno sempre più forti e minacciosi e, nonostante le contraddizioni messe in luce, il ruolo dell’ Italia nel Mediterraneo è di straordinaria importanza: più che dichiarazioni di maniera sull’onda dell’emozione, meglio sarebbe tentare di tessere una tela diplomatica urgente e robusta.
Il voltafaccia della Turchia, il suo avvicinamento all’Iran, il rafforzamento palese di Hezbollah (sotto gli occhi delle truppe internazionali e, in particolare, italiane), la drammatica situazione di Gaza, politica e umanitaria, il nervosismo e la miopia dell’attuale governo israeliano, la debolezza degli Stati Uniti: tutti questi elementi insieme fanno pensare che una fuga in avanti, in un drammatico gioco di equivoci, potrebbe sfociare in una guerra, i cui esiti sarebbe imprevedibili. Del resto l’assurdo concatenarsi degli ultimi incidenti in mare è l’esempio di come facilmente i calcoli sbagliati di tanti protagonisti possano dominare la scena e causare ad entrambe le parti in lotta danni gravi, se non irreparabili.

Occorre, tuttavia, aggiungere che nel nostro Paese, nonostante tutto, ci sono forze sane che non si lasciano traviare dal pregiudizio: esistono personalità che mostrano nei confronti di Israele amicizia e ammirazione e che ripudiano con sdegno qualsiasi forma di antisemitismo, palese o camuffato. Sono questi uomini che possono fare molto perché non solo il peggio non accada, ma anche perché in Medio Oriente alla miopia si sostituisca la lungimiranza.
Tutti dovrebbero capirlo. Isolare Gaza o isolare Israele non è utile a nessuno.


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