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La chiesa dica che quel vescovo non è morto per accidente

• da Il Foglio del 7 giugno 2010

 

Quando il Papa fu aggredito per il discorso di Ratisbona, per quel passaggio di elementare buon senso storico e teologico sul nesso tra fede e conversione forzata nella religione maomettana, e nessuno lo difese come si doveva, e il Vaticano si impegolò in gesti di scusa e di correzione non persuasivi perché insinceri mentre i fanatici islamisti chiamavano a raccolta folle vocianti, una suora veniva assassinata, e altri delitti venivano compiuti in nome dell’intolleranza in ogni parte del mondo, ebbi un brivido di paura e un senso di rivolta.
Altro che gaffe: era stata detta una profonda verità, anzi il fondo della verità era stato toccato nel cuore dell’Europa cristiana, a pochi anni dall’al settembre, e subito la verità era stata sepolta in nome della
diplomazia, mentre la strada islamica e araba gridava alta e forte la sua intollerante menzogna, ingaggiava e vinceva la sua ennesima violenta battaglia. Quando uccisero don Andrea Santoro fui impressionato dalla bambagia diplomatica che avvolse da subito quella morte solitaria e triste a Trebisonda, provocata da un fanatico islamista subito dichiarato pazzo; e poi fu la volta di una umiliante gestione protocollare del viaggio di Benedetto in Turchia. Ora quei sentimenti ritornano, dopo che un vescovo, e che vescovo, Luigi Padovese, capo della chiesa cattolica in Turchia, vicario apostolico nella terra di san Paolo, è stato a sua volta ucciso da un giovane musulmano suo collaboratore alla vigilia del suo viaggio a Cipro per incontrare il Papa, con gli ortodossi e gli islamici che sull’isola convivono in condizioni di tregua belligerante da molti decenni.
Ma questi sentimenti rapsodici diventano adesso una specie di disdetta, quasi uno stordimento, per la condizione drammaticamente insufficiente della chiesa cattolica nel mondo che la circonda e la assedia. Il viaggio a Cipro, come era diplomaticamente doveroso, è stato tutto un inno al dialogo interreligioso, e va bene. Il Papa ha detto cose molto forti sul piano teologico e spirituale, e con tatto ha eluso come doveva
la questione spinosa e luttuosa dell’ombra che l’assassinio di Padovese proiettava sulla trasferta cipriota, e sul prossimo Sinodo mediorientale. Il Papa ha parlato della immensa pazienza necessaria, con parole buone e belle. E si capisce anche come si dovesse in certa misura dare una interpretazione
in tonalità minore del delitto, facendone quasi un incidente, un caso isolato, personale e non significativo, epperò era forse necessario uno stile che non ho visto da parte del grande corpo della chiesa.
Ma è appena ovvio che la chiesa doveva trovare altrove il modo di compensare i doveri protocollari di un viaggio così delicato del Papa tenendo la testa alta, dando al contesto turco e islamico dei ripetuti delitti anticristiani il suo valore, trovando un pulpito da cui dire la verità, trovando le parole per dirla e l’autorità significativa capace di esporla con pacata fermezza ma irrefutabilmente. E se non sia questione di parole, che sia almeno questione di preghiera, che ci sia una risposta liturgicamente accettabile, una seria e decisiva presa di coscienza della gravità della situazione, delle minacce, degli orrori che circondano la condizione cristiana nel mondo musulmano. Che so, uno sciopero del silenzio, le campane mute, qualcosa comunque capace di rendere evidente simbolicamente quel che rischia di scomparire,
come intuizione, dal cuore e dalla testa dei cristiani: che la catena di violenze contro cattolici, protestanti, ortodossi in Turchia e nel medio oriente non è una se- rie di incidenti, ma uno stato delle cose da correggere a ogni costo, battendosi. Battendosi e sapendo che le origini dell’intolleranza sono profonde, sono inscritte nella condizione spirituale e di civiltà del mondo musulmano.
L’impressione è che la chiesa cattolica, dopo almeno due decenni di resistenza e contrattacco che hanno raddrizzato le conseguenze più negative del Concilio, inteso come grande equivoco sulla modernizzazione del tempo storico, stia secolarizzando tutto quel che resta della sua identità particolare e libera: prima la legge canonica e l’intimità paterna dell’autorità vescovile e sacerdotale travolte dalla trasparenza e dalla tolleranza zero sotto l’offensiva del mondo contro il clero, calunniato in modo incalzante e generico come responsabile di abusi carnali sui minori; ora l’irenismo da flottilla boat sparso a piene mani sul sacrificio e il martirio dei figli della chiesa, disconosciuti per l’essenza della loro testimonianza a causa dei doveri istituzionali e diplomatici.
Se avete dubbi, guardatevi le parole di monsignor Padovese sulla condizione dei cristiani nel mondo islamico, pronunciate in diverse occasioni e riproposte da Sandro Magister nel suo’blog Settimo Cielo.
Faceva impressione leggere i giudizi drammatici di Padovese, francescano e patrologo, innamorato della Turchia e genuino missionario in terre difficili, sull’islam e la condizione penosa della libertà di coscienza
e religiosa al suo interno. Impressionante leggere questa testimonianza colta, equilibrata, intelligente sulla violenza di un credo religioso in guerra da secoli con i cristiani, e leggerla in mezzo agli eufemismi e alle edulcorazioni che hanno circondato la sua morte.


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