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La sindrome dei panda

• da Corriere della Sera del 7 giugno 2010

di Massimo Franco

 

L’assassinio di monsignor Luigi Padovese in Turchia e l’attacco di Israele alla nave di aiuti che faceva rotta su Gaza hanno avuto la conseguenza imprevista di svelare una rimozione collettiva dell’Occidente: il destino delle minoranze cristiane nel Medio Oriente.
Si tratta di comunità ormai minuscole, asserragliate nei loro quartieri, se non nelle loro case: si tratti di Turchia, Iraq, Egitto o Siria. Sono i capri espiatori degli errori di Usa ed Europa e dei problemi irrisolti fra israeliani e palestinesi. Rischiano a tal punto l’estinzione che per loro si parla di «sindrome dei panda»: quegli orsetti bianchi e neri, innocui e vegetariani, che ormai riescono a riprodursi solo in ambienti iperprotetti. Benedetto XVI ha detto a Cipro che quelle minoranze debbono continuare a poter vivere nei Paesi dove abitano da due millenni. Eppure, il Vaticano sa che chi resta è in pericolo.
L’omicidio di Padovese, che segue quello di quattro anni fa di don Andrea Santoro sempre in Turchia, non va sottovalutato. Conferma che l’habitat cristiano si è progressivamente inaridito fino a circondare le comunità mediorientali con un deserto ostile. Ancora qualche anno fa la perdita di fedeli non sembrava irreversibile. Poi è diventata quasi inarrestabile, con la guerra angloamericana in Iraq come acceleratore di persecuzioni ed esodo. L’identificazione spesso strumentale fra cristianesimo e Occidente ha finito per favorire la propaganda del fondamentalismo musulmano e le sue violenze. Ma il fondamentalismo è solo un aspetto. E’ vero che anche le Chiese di mezza Europa, soprattutto cattoliche, stanno perdendo fedeli. Le istituzioni religiose additano l’infezione della secolarizzazione, alimentata dal declino dei valori spirituali e delle strutture sociali tradizionali; con l’aggiunta recente dello scandalo dei preti pedofili, che compromette la credibilità del Vaticano. In Medio Oriente, però, la situazione è diversa. L’effetto panda non è figlio di un difetto ma di un eccesso di religiosità: la presenza pervasiva e sottilmente discriminante dell’Islam. Esiste un problema di libertà religiosa, segnalato da tempo senza grandi successi. Eppure, il pericolo del «bagno di sangue» che minaccia di sancire la deriva dell’occupazione dei territori palestinesi in Terra Santa, evocato ieri dal Papa, non sembra allarmare più di tanto l’Occidente. Il risultato è che in una regione, già destabilizzata, l’alternativa è fra martirio, assimilazione musulmana o emigrazione: soprattutto in Iraq, dove l’idea di creare «ghetti cristiani» protetti dagli Usa incontra resistenze.
Sarebbe l’ammissione dell’isolamento di comunità per lo più arabe, che sono state un ponte culturale storico fra Oriente e Occidente. La convocazione di un Sinodo per il Medio Oriente a ottobre con l’assistenza del gesuita egiziano Samir Khalil Samir, suona come il tentativo estremo di contrastare una situazione disperata. Si cerca di evitare che in quei Paesi i santuari del cristianesimo si riducano, come ha predetto nel 1994 un diplomatico europeo pessimista o forse solo profetico, a «Disneyland spirituali».


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