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Le mille vite di Di Pietro, il moralista immorale

• da Liberal del 8 giugno 2010

di Maurizio Stefanini

 

Scriveva nel 1997 Eugenio Scalfari che Antonio Di Pietro «non è un italiano né un anti-italiano; Di Pietro è un"italiota", un aborigeno nel senso pieno e letterale del termine. Ha tutti i difetti e le qualità della stirpe non mediati dalla cultura. Sembra un lusso, la cultura, una caratteristica elitaria, noiosa, superflua, supponente, riservata alle "teste d’ uovo"e alle"anime belle". Ebbene, non è così. La cultura non è altro che l’immagine che ciascuno dovrebbe avere di sé, della propria coerenza e della propria responsabilità morale. La cultura - quella vera - è il filtro indispensabile che serve a contenere e selezionare l’irruenza degli istinti e delle pulsioni vitali. A me pare che questa mediazione manchi ad Antonio Di Pietro così come manca a Silvio Berlusconi che anche lui è un italiota sotto il dominio delle proprie elementari passioni e dei propri elementari interessi. Uomini così, uomini che hanno le qualità e i limiti di animali da combattimento, possono anche intraprendere e portare a compimento egregie imprese, possono essere strumenti preziosi di un disegno più vasto, ma non possono guidare una comunità e uno Stato senza provocare guasti assai gravi». Indro Montanelli lo definì «la grande incognita della politica italiana». Sandro Curzi nel candidarsi contro di lui al Mugello chiedeva, facendogli il verso: «Che ci azzecca con noi di sinistra?». E Marco Pannella per farne l’elogio ne parlò (qua citiamo a memoria) come di un «magistrato contadino che usava i codici come una zappa e per questo riuscì a scoprire quello che gli altri non scoprivano».
Personaggi, quelli che abbiamo citato, certamente non sospettabili di parzialità filo-berlusconiane. Eppure, toccati anch’essi da una diffusa perplessità verso la figura del leader dell’Italia dei Valori. Una perplessità è vero, che un po’ troppo spesso si ammanta di una insufficienza elitaria e quasi razzistica verso il personaggio che si è fatto da solo: quanta differenza verso gli Stati Uniti, dove per un Presidente essere nato nella capanna di tronchi dei pionieri era un titolo di merito! Altre volte questa perplessità nasce invece dall’accesso di disinvoltura ideologica dell’ex-Pm: dna per sua stessa ammissione di contadini democristiani; maniere e look di quella spicciatività che a torto o a ragione in Italia sono abitualmente associate all’etichetta del "fascismo"; un partito il cui quasi unico programma è il giustizialismo ad personam ma che a livello di Parlamento europeo si è andato a iscrivere alla famiglia ultragarantista dei liberali europei; ma mandando poi allo stesso Parlamento Europeo, oltre che a quello italiano, fior non solo di marxisti alla Franca Rame, ma addirittura di nostalgici del modello sovietico alla Giulietto Chiesa e esaltatori di Chavez e Castro alla Vattimo; salvo però poi arruolare come classe dirigente locale una pletora di ex-democristiani sorprendentemente pronti a passare a ogni momento armi e bagagli al PdL. È pure vero, però, che nella Seconda Repubblica questo stato di confusinismo è diventato la regola di quasi tutte le forze politiche sopravvissute. Probabilmente, dunque, all’origine dello sconcerto che Di Pietro continua a creare in gran parte del fronte antiberlusconiano è più ancora un altro particolare: il modo in cui il leader dell’Italia dei Valori continua a essere legato a un’immagine di Pars Destruens. Anche se lui, poveretto, proprio per fare vedere che ha invece anche la vocazione di ricostruire ogni volta che va al governo insiste per farsi dare il ministero dei Lavori Pubblici o quello delle Infrastrutture. Fu nello sfascio della Prima Repubblica che lui divenne «il più amato dagli italiani». E li magari va bene: a torto o a ragione, la gran parte dei cittadini era convinta che nello stabile istituzionale non si potesse più abitare, se non dopo averci fatto passare prima una squadra di demolizioni. Ma poi il 6 dicembre del 1994 si dimise dalla Magistratura per non «essere tirato per la giacca»: e pure il Pool di Milano si trovò demolito, proprio nel momento in cui stava appunto partendo l’indagine sui Berlusconi. Quel Berlusconi con il quale, poi si saprà, Di Pietro aveva nel frattempo trattato per il Ministero
dell’Interno, anche se non se ne era fatto niente. Nel 1995 l’ex-magistrato si dà all’editoria, prestandosi a "garante"verso i lettori del Telegiornale di Gigi Vesigna. "Lasciateci il tempo di crescere", è lo slogan. Figuriamoci se la garanzia non ci fosse stata, visto che il quotidiano chiude dopo quaranta giorni! Nel ‘96 diventa ministro con Prodi, salvo dimettersi dopo sei mesi per un avviso di garanzia. Va bene che poi sarà assolto: sorte peraltro comune alla gran parte dei destinatari di avvisi di garanzia che negli ultimi vent’anni hanno agitato la politica italiana. Lui coglierà però l’occasione per passare dall’Esecutivo al Legislativo, facendosi eleggere senatore del Mugello. Un collegio blindato dell’ex-Pci, per un politico che si fa eleggere proprio allo scopo di iniziare di fare all’ex-Pci ed ai suoi vari eredi una concorrenza da allora mai più finita.
La caduta di Prodi è l’occasione per diventare tra i leader del nuovo partito dei Democratici: formazione appunto dei prodiani in polemica con D’Alema. Salvo poi, quando D’Alema è rimpiazzato da Amato, rifiutare la fiducia al governo, andarsene dagli stessi democratici, e armare contro il loro leader Rutelli una dissidenza che contribuirà potentemente a far vincere nel 2001 Berlusconi. Pur al costo di non incamerare per sé niente, dal momento che l’unico eletto al Parlamento dell’Italia dei Valori passerà subito al Pdl. E il trend si confermerà nelle elezioni successive. L’Italia dei Valori va in linea generale male nei successivi anni di ripresa del centro-sinistra: anche se il collegamento delle liste le permetterà nel 2006 di tornare in Parlamento. L’Italia di Valori decollerà invece dal 2008 in poi, proprio in concomitanza con lo sfasciarsi dell’Unione e con lo stallo del nuovo Pd. Ciò non significa che sia Di Pietro a sfasciare: in genere, no. Ma, certamente, è quando qualcosa si sfascia, che la sua stella trova l’occasione per rifulgere. Magari, è solo una coincidenza.


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