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Ha sperato di convincerla. Ha tentato di strappare almeno un compromesso. Non ci è riuscito. «Non c’è spazio di manovra per un negoziato con la Commissione europea», ha ammesso Maurizio Sacconi al termine di un lungo faccia a faccia con il vice presidente della Commissione, Viviane Reding, che giovedì scorso aveva intimato all’Italia di uniformare l’età di pensionamento delle donne che lavorano nel pubblico impiego a quella dei colleghi maschi. Eppure il ministro del Lavoro ha ricordato che la gradualità con cui passare da 61 (da gennaio è questo il nuovo tetto) a 65 anni entro il 2018 per uniformare i requisiti delle pensioni di vecchiaia tra uomini e donne era stata concordata con il commissario precedente.
Nulla da fare: «Ci siamo trovati di fronte a una posizione molto ferma», racconta il ministro. «Mi sembra ragionevole dare all’Italia tempo fino al primo gennaio 2012», ha detto la Reding spiegando: «In una democrazia le sentenze di una Corte si rispettano sempre». Perché altrimenti, in termini di multe inflitte, il conto si fa salato. Le conclusioni della giornata le trae lo stesso Sacconi: «Deciderà che fare il consiglio
dei ministri di giovedì, tenendo conto delle pesanti sanzioni che graverebbero sul nostro Paese nel caso in cui non rispettassimo la sentenza della Corte Ue; ma in Europa i tempi sono tali che non c’è il clima giusto per fare sconti a nessuno. Non è una cosa che dipende dalla volontà del governo».
E quindi dal primo gennaio del 2012 le statali (la norma non riguarda le dipendenti del settore privato) potranno lasciare il lavoro solo se avranno compiuto 65 anni. Ad essere coinvolte nel primo anno di applicazione saranno 30-32 mila persone, ma nell’arco dei 5 anni la cifra arriverà a 150 mila, di cui 70 mila nella scuola.
Il provvedimento, come suggerito da Bruxelles, sarà inserito con un emendamento alla manovra economica: «E’ questo il veicolo più tempestivo che attualmente abbiamo a disposizione», spiega il titolare del welfare. Quindi a partire dal 2012 le statali incapperanno nella norma che prevede che si vada in pensione 12 mesi dopo aver raggiunto i requisiti necessari. E dunque potranno lasciare il lavoro solo a 66 anni, come i maschi. Le dipendenti del settore privato, invece, andranno via a 61.
Quanto alle sanzioni pecuniarie, secondo i primi calcoli del ministero, potranno oscillare in funzione della gravità e della durata dell’infrazione, tra un minimo di 11.904 euro e un massimo di 714.240 per ogni giorno successivo alla sentenza di condanna. Se in via ipotetica l’Italia ponesse termine all’infrazione oggi, potrebbe pagare 19 milioni tenendo conto del numero dei giorni trascorsi dalla sentenza della Corte di giustizia del 13 novembre 2008 moltiplicato per la sanzione quotidiana di 31.744 euro. Si tratta però di un esercizio teorico e il governo è convinto che, mettendosi in regola, non dovrà pagare nulla.
Sacconi dà come ineluttabile la misura e rivolgendosi ai sindacati, che saranno ascoltati nei prossimi giorni, li invita quindi a «non scioperare contro la pioggia». «Dobbiamo discutere subito con il Governo: è ingiustificato questo maramaldeggiare dell’Europa in un momento di così grande pressione sul pubblico impiego», obietta il leader della Cisl, Bonanni.
Il segretario confederale della Uil, Proietti invita il governo a continuare a cercare «una soluzione che non penalizzi ulteriormente le donne che lavorano nel pubblico». Il ministro Sacconi «torna da Bruxelles con le mani vuote», fa notare il responsabile economico del Pd, Fassina. E l’ex ministro del Lavoro Damiano spiega: «L’Ue non ci ha chiesto i 65 anni ma di equiparare le condizioni di uomini e donne. Meglio sarebbe una misura di base uguale per tutti, 61 o 62 anni a partire dalla quale inserire il principio di
un’uscita fino ai 70 anni liberamente scelta». Tra Bruxelles e Sacconi, dice Zipponi (Idv), «siamo al duetto tra ladri di Pisa: entrambi operano contro gli interessi delle lavoratrici facendo finta di avere un’opinione diversa».