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C’è ancora chi si scandalizza per il comportamento tenuto dalla leadership leghista in occasione della festa della Repubblica del 2 giugno. Cosa è accaduto? Il ministro degli Interni Roberto Maroni ha disertato la tradizionale parata militare che si svolge a Roma davanti alle massime autorità dello Stato. Ha preferito celebrare la ricorrenza a Varese, dove, durante cerimonia, non è stato eseguito l’inno di Mameli. L’orchestra ha preferito punteggiare i discorsi ufficiali con brani di musica leggera, tra cui “La gatta” di Gino Paoli e “Con te partirò” di Andrea Bocelli. Di fronte alle polemiche rapidamente divampate, Maroni ha risposto che è da tre anni che festeggia il 2 giugno nella sua città . “Polemica che non esiste”, dunque, ha ribadito lo staff del ministro. In realtà la cosa non è così semplice. La polemica non esiste perché quello che è avvenuto lungo la direttrice Roma-Varese è stato qualcosa di più, si è trattato infatti di una aperta sfida per l’occupazione del territorio simbolico della politica istituzionale. In Italia, la Repubblica ha a sua disposizione ormai pochi simboli per celebrare se stessa, e uno di questi è la festa del 2 giugno.
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Dunque è proprio per tale ragione che la Lega ha cercato di ridimensionarlo, se non di denigrarlo agli occhi dei suoi simpatizzanti. In occasione della festa della Repubblica, quindi, abbiamo avuto l’ennesima conferma che la Lega non gradisce alcun tipo di confronto sul piano simbolico, un piano che considera di sua esclusiva proprietà . Se ci pensiamo bene, in effetti, questi ultimi venti anni hanno visto il partito di Bossi occupare il settore più sguarnito della recente storia repubblicana, quello dei simboli e dei riti. Disintegrato dal posticcio e grottesco rituale fascista, l’utilizzo della simbologia nazionale in Italia, dopo la caduta del regime mussoliniano, è sempre stato problematico e di scarsa efficacia emotiva. La Lega, invece, è riuscita a recuperare significato e potenza di quell’importante ambito della comunicazione politica trasformandolo in uno dei suoi punti di forza. Oggi, se c’è un partito che fa dei simboli (il rito dell’ampolla con l’acqua del Po, le camicie verdi, il “Va pensiero” come inno, la nazionale Padana, ecc) e della retorica (Roma ladrona, il “celodurismo”, il “territorio”) il proprio cavallo di battaglia nella lotta politica è proprio la Lega.
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I risultati sono stati rilevanti: grazie ai simboli è passato infatti un tipo di messaggio che non richiede spiegazioni né razionalizzazioni, in quanto si rivolge direttamente alla sfera emotiva dei militanti. Ed è per questo che, in quanto partito di governo, la Lega non si può permettere di abbassare la guardia su questo fronte: i propri elettori non debbono “rischiare” di avvicinarsi o simpatizzare con i pochi simboli dell’ Italia repubblicana solo perché al governo ci sono gli uomini di Bossi. La Lega sa bene che stare al Governo implica il pericolo della perdita di consensi e tale rischio può essere esorcizzato solo mantenendo intatti i canali della comunicazione empatica, emotiva, di cui i simboli sono il principale alfabeto. Stare al governo senza starci, rimanere a Roma come se fosse un sacrificio. Il messaggio di Maroni, indirizzato in modo neppure tanto subliminale agli elettori leghisti, è: “se vado a Varese per il 2 giugno è evidente che non faccio parte della cricca romana e dunque che do la precedenza al territorio”. Stare su questo terreno di confronto per la Lega è quasi un invito a nozze: inni, bandiere, feste, unità , Garibaldi, sono altrettanti assist per una formazione politica che deve evitare i contraccolpi della gestione del potere: occupare il potere vuol dire, sempre e comunque, sporcarsi le mani.
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Questo è il destino ineluttabile della politica e quindi anche la Lega non può esimersi dalla partecipazione alle logiche spartitorie né chiamarsi fuori dall’attività compromissoria di “sottogoverno romano”. Grazie alla potente cortina fumogena dei simboli, che impedisce di vedere cosa c’è sotto il variegato apparato retorico, la Lega può continuare a vivere la sua doppia vita. Mentre il federalismo fiscale arranca e i ministri leghisti devono difendere gli apparati burocratici provinciali, mentre vengono avallati i peggiori comportamenti delle classi di governo (pensiamo cosa significa spiegare ai propri elettori che si può continuare ad urlare “Roma ladrona”, senza per questo far mancare il proprio appoggio a tutto il sottobosco politico colluso con malaffare e corruzione), cosa può capitare di meglio per rinsaldare le fila di un bel 2 giugno da disertare, sostituendo Mameli con Gino Paoli? E questo è niente: ne vedremo delle belle in occasione di quella fiera dei riti che sono i mondiali di calcio. E’ così divertente e così facile dare scandalo su questi temi! Tra un simbolo denigrato ed uno affermato i mesi passano, il federalismo rimane una confusa macchia sullo sfondo e il potere, invece, quello “romano” e degli affari, resta.