Â
Questa biografia di Massimo Teodori, "Pannunzio. Dal Mondo al Partito radicale" (Mondadori, pagine 269, curo 19,50) è utile e ben scritta e tocca uno dei punti dolenti della storia politico-culturale italiana. Mario Pannunzio può piacere molto o poco: ma certo non può non interessare la vicenda di un borghese come lui, coerente, colto e dotato di una naturale sensibilità etica; la storia di un intellettuale un po’ artista, lettore appassionato e potenziale scrittore il quale, benché giornalista, non ha mai smesso, a modo suo, di studiare. Un borghese di "buona razza" che tenta la difesa, il riscatto di una borghesia piuttosto disonorata come la nostra; un direttore di giornali mai volgare né protagonistico. Teodori dedica in questo libro molto spazio alla formazione giovanile di Pannunzio e alla molteplicità dei suoi interessi pre politici, dalla pittura, al cinema, alla letteratura. Perciò una delle cose che più colpisce e incuriosisce è il rapporto di un tale tipo d’uomo con la politica. "Era un letterato o un politico?", scrive in apertura Teodori "Un liberale o un democratico? Un anticomunista viscerale o un filocomunista mascherato? Un anticlericale mangiapreti o un cristiano, laico e tollerante? Un umanista dedito alla cultura o un mondano che andava in via Veneto?".
Cesare De Michelis, nella sua introduzione del 1993 alla raccolta di scritti di Pannunzio "L’estremista moderato", cominciava a rispondere così: "Aveva poco più di dieci anni quando la sua fanciullezza fu improvvisamente turbata dagli avvenimenti della Storia: da una parte la rivoluzione d’ottobre e il trionfo bolscevico che trascinarono suo padre fino in Russia per vedere con i propri occhi; dall’altra la ribalda violenza dei fascisti toscani che poco dopo avrebbero marciato su Roma in un altro ottobre rivoluzionario.
Mario Pannunzio era nato il 5 marzo 1910 a Lucca e, quindi, era appena un bambino, ma maturò in fretta una profonda e inarrendevole avversione per entrambe le rivoluzioni e forse anche per qualsiasi altra mai avesse preteso di imporsi durante la sua vita. Eppure non fu di carattere accomodante, né disposto a ingrupparsi in qualsivoglia conformismo maggioritario (...) Né fascista, né comunista, percorse una terza via". Di solito chi fa politica disprezza la nostalgia o ne diffida. Ma ci sono nostalgie politiche che possono incoraggiare a qualcosa di buono e perfino produrre buone pratiche. Tale credo che sia la nostalgia per Mario Pannunzio; soprattutto, naturalmente, per la più famosa delle sue imprese, "Il Mondo", che uscì dal 1949 al 1966.
Un uomo come Pannunzio non è facile da imitare: certo non ci sono riusciti i suoi eredi più noti e di successo, Marco Pannella e Eugenio Scalfari, entrambi troppo vanitosi e protagonisti, non molto dotati di
liberale discrezione e tolleranza e in definitiva molto lontani proprio da ciò che in Pannunzio hanno lodato di più: lo stile. Con questa parola siamo subito al punto. Che cosa significa stile nel giornalismo e in politica? Ci può essere un rapporto positivo fra politica e stile? Si possono combattere e vincere gli avversari politici senza esprimere il peggio di sé? Per quanto riguarda Pannunzio e il suo tentativo di creare in Italia una "terza forza" capace di controllare e correggere Democrazia cristiana e Partito comunista, il giudizio comune lo conosciamo, è questo: Pannunzio e i suoi avevano "lo stile" ma non avevano "le masse". Erano intelligenti e colti, ma non sono mai riusciti a mettere in piedi un partito energico e unito.
Erano degli illuministi che volevano o sognavano per l’Italia una vita civile e politica troppo diversa da quella reale; mentre l’Italia era una nazione presidiata dalla chiesa cattolica, un paese schiacciato fra Stati Uniti e Unione sovietica, un paese che non aveva soltanto sofferto il fascismo ma lo aveva brillantemente inventato. Pannunzio e i "terzaforzisti" vengono dunque considerati dei borghesi onesti e idealisti e perciò sconfitti. Massimo Teodori, però, si ribella a questo luogo comune politico e storiografico.
Secondo Teodori parlare di sconfitta è un abuso che nega una serie di evidenze. Nel ventennio che va dal 1945 al 1965, la sinistra liberal-democratica è riuscita in realtà a orientare alcuni fondamentali processi di modernizzazione: a favore dello schieramento filoamericano e atlantico, della politica europeista, del risanamento economico, nell’arginare l’influenza comunista sulla sinistra, nel controllare che il mondo cattolico non si legasse ai neofascisti ma orientasse la propria politica in senso democratico. Inoltre i collaboratori del "Mondo", da Einaudi e Salvemini a Ernesto Rossi, La Malfa, Valiani, Garosci, Guido Calogero, Nicola Chiaromonte, hanno contribuito a migliorare la qualità della discussione e della cultura politica italiana. Questo vuol dire che i confini del fare politica vanno allargati al di fuori dei partiti: e che non contano soltanto le grandi organizzazioni forti e coese fondate sulla disciplina, conta anche la qualità intellettuale e l’integrità morale dei singoli. E’ sul "Mondo" che poteva comparire ed essere presa sul serio una frase come questa: "In realtà c’è da fare una rivoluzione sola in Italia: la rivoluzione dell’onestà ".
Il revival-Pannunzio è cominciato da tempo. Oltre alla raccolta degli scritti giovanili 1932-48 a cura di Cesare De Michelis (Marsilio 1993) e all’antologia "Il Mondo" curata da Giampiero Carocci (Editori Riuniti, 1997), sono recenti sia "I Profeti Disarmati" di Mirella Serri (Corbaccio 2008), in cui si rilegge e rivaluta "Risorgimento liberale" diretto da Pannunzio dal giugno 1944 al novembre 1947 (definito da Valiani il più bel quotidiano del Dopoguerra), sia la "Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista" dello stesso Teodori (Marsilio 2008).
Liberale di sinistra e radicale, Pannunzio è stato soprattutto l’intellettuale che ha sentito il dovere e ubbidito alla vocazione di fare politica attraverso il giornalismo. "Il Mondo" è stato effettivamente il suo capolavoro: sia per l’eccellenza dell’artigianato editoriale (grafica sobria, scrittura chiara, foto ben scelte), sia per la capacità di tenere insieme un gruppo di collaboratori tanto diversi: Salvemini e Croce (che non si sopportavano), Ernesto Rossi e Leo Valiani, Chiaromonte (pensatore serio e profondo) e Flaiano (esilarante e feroce satirico). C’erano le magnifiche vignette di Maccari e di Bartoli. Si parlava di letteratura inglese e americana. Pare che una volta qualcuno chiese a Pannunzio con quali criteri sceglieva le foto; la risposta fu che sceglieva quelle che gli altri scartavano: erano le migliori e costavano pieno. Cultura e politica erano unite, così come economia e stile. La competenza, il confronto fra idee diverse, il rifiuto della faziosità e l’equilibrio nella discussione erano la norma. "L’Espresso" di Scalfari. appena nacque, fu subito tutt’altra cosa rispetto al "Mondo", fu un settimanale raffinato di massa, graficamente, almeno all’inizio, originale, ma evidentemente programmato per il successo. Pannunzio era infastidito dalle smanie di successo dei più giovani, si trovava meglio con collaboratori e sodali stagionati che non avevano aspirazioni e progetti di carriera. Tutto questo suggerisce che avere nostalgia del "Mondo" e di Pannunzio non è gratis. E’ impegnativo.