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L'altra metà del tabù

• da Liberal del 11 giugno 2010

di Errico Novi

 

Quanti paradossi in un colpo solo. Anzi, con un solo emendamento: quello che integrerà nella manovra economica l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile per le dipendenti del pubblico impiego. Il governo vara dunque la misura energicamente richiesta dall’Unione europea, lo fa in un Consiglio dei ministri che conferma al primo gennaio del 2012 l’introduzione della riforma e preserva quindi i diritti
acquisti al 31 dicembre del 2012. C’è dunque lo "scalone" che innalza la soglia da 61 a 65 anni in un colpo solo, ma c’è soprattutto un atteggiamento davvero curioso dell’esecutivo, in particolare del ministro del Welfare Maurizo Sacconi, che annuncia personalmente la decisione in conferenza stampa a Palazzo Chigi e tiene nello stesso tempo a dire che «la novità non riguarda affatto il settore privato e non è nemmeno la premessa di un successivo intervento in quell’ambito».
A dire il vero il paradosso era apparso chiaro già nei giorni precedenti. Mercoledì Sacconi aveva anticipato l’intenzione di «mantenere invariata la differenza fra età di pensione degli uomini e delle donne nel privato». Ci si limita così a ottemperare alle prescrizioni di Bruxelles, punto. Quasi dimenticando che l’Europa aveva posto proprio una questione di "principio": la discriminazione reale delle donne sul posto di lavoro. E invece il governo intende solo evitare le sanzioni: atteggiamento che diventa chiaro proprio
nel momento in cui si esclude ogni ipotesi di applicazione al settore privato dell’innalzamento.
Il secondo paradosso, contenuto nel primo, è che lungo questa strada non si raggiunge nemmeno un particolare obiettivo in termini di risparmio: è lo stesso ministero del Welfare a segnalare che le minori spese si limitano a un milione e 450mila euro da spalmare in ben dieci anni: come dice anche Renato Brunetta «l’adeguamento non servirà a fare cassa, perché per il 2010 il risparmio è zero, nel 2011 è zero», ma anche quando la misura diverrà effettiva, nel 2012, si risparmieranno «50 milioni e poi 150 l’anno successivo», e così via. Poco. Sarebbe decisivo, invece, l’impatto sui conti di un innalzamento esteso al privato. Il terzo, e forse più estremo paradosso si intravede nelle rassicurazioni di mezzo governo, compresa la responsabile delle Pari opportunità Mara Carfagna, sull’uso che si farà di questo piccolo margine: «Ne verrà un fondo destinato alle politiche sulla non autosufficienza e, in seguito, agli asili nido». E cosa succederà, a quel punto? Che queste compensazioni verranno destinate alle sole lavoratrici del settore pubblico, visto che sono le uniche a vedersi innalzata la soglia della pensione? E se così fosse, non si creerebbe un’ulteriore, assurda discriminazione, stavolta a danno delle dipendenti del privato, giacché i servizi sociali che rendono compatibili maternità e lavoro dovrebbero costituire un diritto per tutte? «È un’ulteriore contraddizione», osserva Fiorella Kostoris, che oggi terrà a Palazzo Madama una conferenza stampa con Emma Bonino e Piero Ichino proprio per illustrarne tutto l’ampio spettro. «Il nodo di fondo è che l’Unione europea aveva posto un’effettiva questione di parità, non limitata all’aspetto previdenziale ma concentrata in generale sul tema occupazionale. Con la decisione di limitarsi all’innalzamento dell’età pensionabile per le dipendenti pubbliche anziché eliminare un fattore discriminante se ne aggiunge un altro, in questo caso rispetto alle dipendenti del privato».
Andrebbe ricordato, spiega la docente di Economia della Sapienza, che «se la sentenza della Corte di giustizia è intervenuta sul pubblico è perché in quell’ambito era stato sollevato il caso di partenza, non perché a Bruxelles si ritenga che le impiegate dell’amministrazione dello Stato necessitino di meno tutele». Ma il senso dell’ennesima occasione perduta è «nei risparmi enormemente superiori che sarebbero arrivati da un’applicazione generale del nuovo limite. È nel privato che ci converrebbe applicare la misura», per l’evidente ragione che in quest’ambito non va calcolato il peso delle retribuzioni che bisogna continuare a riconoscere».
Da vera teorica dell’equiparazione dei diritti delle lavoratrici a quelli dei colleghi maschi, Fiorella Kostoris insiste sulla «necessità di aumentarela domanda di lavoro femminile». Una forma di compensazione, quella sì, capace di accorciare le discriminazioni di genere, giacché, sostiene l’economista, «utilizzare dei risparmi della previdenza nel settore dei servizi alla famiglia vuol dire dare una compensazione, un beneficio, a tutta la famiglia, appunto, e non solo alle donne, come si dovrebbe».
È uno degli aspetti segnalati dall’opposizione. Se Bersani assimila la sua critica a quella di Epifani quando contesta la scelta dell’Esecutivo soprattutto perché «non si è voluto puntare alla flessibilità in uscita» (la reazione della Cgil resta assai più dura, con l’accusa rivolta al governo di aver adottato un provvedimento «grave, aberrante e iniquo»), è un europarlamentare del Pd come Sandro Gozi a ricordare che, appunto, «quello dell’età pensionabile era un punto formale, giacché per l’Unione europea non poteva essere la differenza nell’età del pensionamento la risposta a un problema di discriminazioni delle donne sul posto di lavoro che è ben più sostanziale». Tanto più che, come dice Fiorella Kostoris, «tutte le ricerche provano che le donne producono più e meglio, e dunque la prima forma di compensazione
dovrebbe consistere nell’istituzione di una authority che imponga il rispetto della meritocrazia».
Luigi Paganetto ricorda che oltretutto le più avanzate tesi dei demografi «suggeriscono tutta un’altra strada: per esempio una consistente sospensione dell’attività professionale in caso di maternità, con un tempo a disposizione assai superiore rispetto all’attuale congedo parentale e il recupero dell’anno lavorativo a fine carriera, quando ormai i figli sono stati allevati e le donne magari hanno anche un interesse a restare al lavoro». Idee rivoluzionarie? No, ragionevoli, se si considerano i dati sciorinati dallo stesso Brunetta sulle lamentele delle insegnanti per l’impossibilità di allungare la carriera. «E in ogni caso l’estensione al privato costituirebbe la vera svolta, sia dal punto di vista dello stato dei conti pubblici che per la struttura del welfare». Ma da quello che emerge la soluzione indicata dal professore di Economia di TorVergata e presidente dell’Enea è tanto strategica quanto lontana, per ora, dai pensieri del governo.


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