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Democrazia e segreti

• da Corriere adriatico del 15 giugno 2010

di Fulvio Cammarano

 

Per un liberale, il principale modo di procedere nelle vicende della sfera pubblica dovrebbe sempre essere quello della trasparenza. Non può essere altrimenti, visto che il liberalismo nacque in quel corto circuito “illuminista” tra l’impellente necessità di una argomentata critica nei confronti del potere e l’altrettanto urgente esigenza di far emergere, nell’interesse di tutti, una libera opinione pubblica. Se la trasparenza è una necessità primaria in un sistema liberale, lo è molto di più in un Paese come il nostro, in cui essa non è mai stata una vera risorsa politica e civile. Siamo il Paese nato dalle conventicole, dall’azione di organizzazioni che facevano del segreto la loro forza. Nel chiuso dei conventi, così come nei meandri dei rituali carbonari, gli italiani hanno imparato che l’esigenza di chi detiene qualunque forma di potere è sempre diversa da quella della franca ed aperta rivelazione dei fatti. Non si tratta tanto dell’ormai noto, e spesso inevitabile, “segreto di stato” in nome del quale, tuttavia, si sono spesso perpetrati i peggiori delitti, quanto della fitta rete di malversazioni e illegalità parallele portate avanti all’ombra di ogni genere di potere e da questo giustificate e nutrite: dall’amministratore di condominio al ministro, dal capo-ufficio al dirigente generale, dal responsabile degli uscieri al grand commis dello Stato, la parola d’ordine è sempre quella: evitare che si sappia. Talvolta per la semplice ragione che chi gestisce il potere, indipendentemente da come lo fa, non vuole essere disturbato mentre manovra, altre volte perché è proprio solo grazie all’opacità che si possono portare avanti gli “affari”.
 
In un sistema ideale in cui i cittadini non debbono temere le ire e le ritorsioni del potere, tutte le azioni relative alla sfera della cittadinanza dovrebbero virtualmente essere pubbliche, a cominciare dal voto alle elezioni. Così come le testimonianze nei tribunali, anche la propria convinzione su chi è il più adatto a governare una comunità dovrebbe poter essere espressa liberamente e conosciuta da tutti. Così la pensavano ad esempio i fautori del mantenimento del voto palese nella Gran Bretagna del XIX secolo, prima che venisse introdotta la scheda e la cabina elettorale. Questo esempio storico ci appare oggi un’utopia del tutto improponibile, però ci è utile per comprendere come la trasparenza, nell’ambito di una ideale società liberale, è un valore assoluto a cui tendere sempre e comunque. Per cui, un governo liberale dovrebbe in primo luogo liberare la strada dagli ostacoli frapposti da poteri, centri d’interessi, corporazioni di vario genere alla libera formazione dell’opinione pubblica e alla circolazione delle notizie. I veri sistemi liberali, insomma, impediscono che il “segreto” possa trasformarsi in una forma di intimidazione da parte di chi detiene un qualsiasi tipo di potere - da quello “di fatto” (denaro e posizione sociale), a quello delle caste professionali sino al potere dei politici - nei confronti di chi non si può difendere, se non in virtù della trasparenza dello stato di diritto. Proprio per questo motivo, non c’è assolutamente bisogno che, per proteggere la privacy dei singoli cittadini, vittime di abusi nel corso delle indagini della magistratura – problema anche questo di grande importanza in un sistema liberale – si proceda in direzione di un oscuramento dei vetri della macchina del potere.
 
Le due cose, trasparenza e difesa del diritto di privacy, possono benissimo essere entrambe salvaguardate da un provvedimento più ponderato. E comunque una legge che danneggia e rallenta le indagini, molte delle quali nell’ambito dell’intreccio tra politica e affari, opacizzando informazioni di rilevanza pubblica, non è liberale anche se pretende di prendere tale misura in difesa della sfera privata dei cittadini. Quelle informazioni, infatti, non dimentichiamolo, saranno nascoste solo allo sguardo della pubblica opinione, certamente non a quello dei potenti di turno. Un bel problema: perché il potere che guarda senza voler essere guardato non solo non ha nulla a che fare con l’etica liberale della sfera pubblica, ma dimostra altresì la propria irrecuperabile debolezza: in fondo, anche se nudo, un re, quando è davvero tale, non ha motivo di temere lo sguardo dei suoi sudditi.
 


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