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Per favore la croce

• da Il Foglio del 17 giugno 2010

di Angiolo Bandinelli

 

La morte è un racconto raccontato da altri, non da colui - o colei - che la vive. Ma perché, si può vivere la morte? Certo che sì, fino al momento finale la morte viene vissuta, l’agonia" era, per i greci, un combattimento, dall’esito noto e scontato ma che non esimeva l’uomo (o la donna) dal lottare con lo spasimo di tutte le forze. Ma nel momento in cui il cervello si spegne e il corpo, abbandonato a se stesso, si scoordina, quando il respiro è cessato e il cuore non batte più, quando insomma la lotta è finita, ecco che la rappresentazione sposta lo scenario, l’inquadratura, e il soggetto diventa un oggetto in balìa di chi ne parla, di chi deve orribilmente occuparsene, di chi, talvolta, lo piange. E allora dì colpo succede - può succedere - che quel soggetto divenuto oggetto noi non lo riconosciamo più, ci divenga estraneo.
Proviamo a metterlo a fuoco dinanzi a noi e sentiamo che la sua verità ci è ignota, la sua identità si è fatta indecifrabile. Come è possibile che ciò accada? Il primo sentimento è l’incredulità. Ciò che è accaduto - il morire - non può aver messo in forse, nel dubbio, la persona con la quale abbiamo tanto a lungo parlato, che abbiamo ascoltato, che talvolta abbiamo anche amato e che solo per questo abbiamo pensato immortale. Sentiamo allora la morte - quando coglie coloro che hanno avuto con noi consuetudine di vita, un rapporto comunque non fugace - come un tradimento, un colpo basso, maligno prima ancora che brutale. E questo colpo non è diretto contro lo scomparso, siamo noi che veniamo, in quel momento, aggrediti. La scoperta ci fa entrare in panico, un sentimento egoistico ci assale. Dovremmo vergognarcene, perché in quegli strani momenti colui, o colei, che se ne è andato quasi sparisce dai nostri occhi e dai nostri sentimenti, ce ne dimentichiamo e ci concentriamo su di noi stessi, ci interroghiamo febbrilmente. Perché ci sentiamo abbandonati sul ciglio della strada (letteralmente, derelitti) e questo ci disturba e ci mette in collera. É’ un’altra ragione, non meno amara, di inaccettabilità per ciò che è invece come si dice - l’ineluttabile. E’ il momento in cui sai, o sospetti, che la vita è stata vissuta invano. La tua vita, addirittura.
"Tu sei per me la forma dell’eternità"
Subentra poi una ulteriore sequenza del lentissimo film dell’altrui morire che ci sta offendendo. E’ quando la figura, l’immagine stessa della persona che se ne è andata, comincia ad affievolirsi, a dissolversi, come allontanandosi attraverso un’acqua profonda o una spessa nebbia. Increduli, esterrefatti, prendiamo atto di qualcosa che smentisce le parole ultime che abbiamo rivolto alla persona morente: "Tu sei per me la forma, l’immagine stessa dell’eternità". Che orrore. Abbiamo mentito, le abbiamo mentito. Penso sia l’effetto Euridice. Chi, dinanzi alla scomparsa della persona amata, non ha provato, non si è illuso di poterla strappare a quel suo destino, chi non ha tentato di scoprire la parola capace dì sottrarre l’amato o l’amata alla amara sorte? Ma l’amato, o l’amata, scompare, la sua immagine si sottrae al nostro sguardo, e comprendiamo finalmente il senso di quel dissolversi. E’ una esperienza non cristiana, appartiene forse al mondo greco romano, quello per il quale "ospite e compagna del corpo" era una "animula vagula, blandula" condannata al buio senza speranza. Ci sentiamo in colpa: come è possibile che la dimenticanza. l’appannamento della memoria, della vista, sia così repentino? Forse è un’arrogante astuzia del nostro egoismo, dell’egoismo con il quale cerchiamo di sottrarci al dolore, alla sofferenza, e per far questo siamo anche capaci di dimenticare chi, con l’assillo della sua presenza, della sua immagine, può mettere in crisi il nostro sotterraneo desiderio di vivere, di vivere noi la nostra vita?
E c’è poi il momento - un po’ narcisistico, anche della socializzazione di quella morte. Una notizia, un evento che dovrebbe richiedere riserbo, silenzio, solitudine (almeno così si racconta) noi siamo irresistibilmente portati a comunicarla, a parteciparla con altri, se non anche con l’estraneo. Ne diamo
notizia in ogni modo. E ci fa comodo un mezzo di informazione ii cui stesso nome - necrologio - dovrebbe farci orrore. I giornali hanno sempre la rubrica dei necrologi. Basta telefonare e si fa l’"inserzione", tanto a millimetro. E a questo punto può succedere che un laico, un po’ per rispetto alla fede del defunto anche quando non condivisa, un po’ per nostalgia di cose lontane e perdute, possa chiedere che nel necrologio sia inserita la croce. A pagamento, si capisce, e la croce occupa un certo spazio, dovrebbe essere appetita. Ma può succedere che l’addetto alla bisogna di un noto giornale romano fermamente laicista ci risponda laconicamente, al telefono, per dirci "No, noi la croce non la inseriamo". Chissà per quali (ottime) ragioni.


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